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Notarelle sul 15-O

 

di FEDERICO TOMASELLO

La discussione italiana sul 15 ottobre pare talvolta impigliata in una sorta di provincialismo che conduce, fra l’altro, a ignorare il fatto che un corteo così grande non si sarebbe dato altrimenti che con una convocatoria internazionale, ‘esterna’, non essendoci oggi, nel nostro come in altri paesi, alcuna ‘struttura’ o ‘coalizione’ che abbia credibilità e autorevolezza tali da chiamare tanta gente a una ‘manifestazione nazionale’.
Segno dei tempi o problema nostrano, è questo un primo elemento di riflessione che conduce a collocare l’inizio del ragionamento altrove: in corrispondenza delle 962 città che in 85 paesi sono scese in piazza, manifestando così il carattere più rilevante della mobilitazione: la sua dimensione tendenzialmente globale.

Una dimensione che è tale in modo inedito, perchè anch’essa dispiegata non da sigle, ma da un processo di autorganizzazione di singolarità che, a partire da processi di discussione collettiva, si sono riappropriate di flussi di comunicazione orizzontale creando e diffondendo un invito alla protesta in cui molti si sono spontaneamente riconosciuti in ogni parte del mondo. Cosicchè l’ambivalenza costitutiva dei social networks (strumenti di controllo e/o di ‘cattura’ da parte del capitale, ma anche rizomi di una comunicazione orizzontale che si fa immediatamente organizzazione conflittuale) ha permesso alla creazione di hashtags di svolgere parte della funzione che nella mobilitazione globale contro la guerra in Iraq era stata, ad esempio, del Consiglio mondiale dei Social forum. Si tratta di una dinamica che ha trovato una prima forma compiuta in Spagna intorno al tema dell’esaurimento della rappresentanza sovrana, quando, nel maggio scorso, migliaia di persone hanno scelto di non recarsi alle urne, e di occupare piuttosto strade e piazze per costruirvi forme differenti di partecipazione, di organizzazione comunitaria, di vita. Un processo spinto poi nel suo divenire globale dalle straordinarie immagini dell’occupazione del ponte di Brooklyn e poi di ‘Liberty Place’. È questa l’unica genealogia possibile del 15 ottobre e il fatto che in Italia la costruzione della mobilitazione abbia seguito canali e modalità differenti era sufficiente a far intuire che qui sarebbe andata diversamente: il percorso di convocazione del corteo costituisce l’anomalia italiana del 15-O tanto quanto la violenza di piazza. Certamente i fuochi romani stridono con il profilo che la mobilitazione ha assunto a livello globale, esattamente quanto lo fanno coordinamenti e giochi egemonici fra le strutture. Esattamente quanto qualsiasi ipotesi di alternativa sovranista come risposta alla crisi stona con gli slogan e la storia del 15-O, quanto l’idea dei ‘servizi d’ordine’ con il movimento degli indignados. Solo l’orizzonte globale del pensiero e dell’iniziativa politica dispiega la possibile efficacia di questa protesta, conferisce senso compiuto a parole d’ordine come il ‘diritto all’insolvenza’ e restituisce compiutamente la prospettiva di istanze che cominciano ad alludere in modo diretto a un esodo possibile dal mercato capitalista e dal comando di Stati nazionali tanto impotenti sul piano delle politiche economiche quanto attivi nel farsi esecutori di tagli e promotori di repressione. Si tratta allora anzitutto di rilanciare il portato di una mobilitazione che, nella crisi, critica direttamente il carattere separato della politica, e che di fronte alla necessità di intraprendere azioni collettive non più soltanto contro lo sfruttamento del lavoro, ma a partire dalla condizione di povertà, non dice più che ‘un altro mondo è possibile’, ma immagina e pratica immediatamente pratiche comunitarie di resistenza e sottrazione al dominio del mercato e al comando dello Stato: lo abbiamo visto nelle acampadas, negli ospedali e negli asili autogestiti in Spagna, così come in Val Susa e al Teatro Valle in Italia. Si tratta, qui ed ora, di aprire la possibilità di organizzare il comune.

 

Chiarire anzitutto e senza dubbio, di fronte alla trasversale canea giustizialista, da quale parte ci si colloca, esprimere solidarietà agli arrestati e indignazione verso inquietanti forme di ‘autorganizzazione della delazione’ (che ben raccontano lo spirito maggioritario di ambiti politico-giornalistici che continuano a spacciare la crisi come responsabilità di Berlusconi), sono gesti che non esimono tuttavia da una riflessione schietta che riconosca nel 15-O romano anche una grande occasione perduta. L’obbiettivo mancato di far esprimere compiutamente alla maggior parte del corteo il suo portato conflittuale, la diffusa voglia di una partecipazione che andasse al di là di una semplice sfilata, la possibilità insomma di ‘criticare praticamente’ la forma-corteo e far sì che il 15 ottobre non si esaurisse in se stesso, ma dichiarasse immediatamente la propria ‘permanenza’, secondo lo spirito che anima questo movimento globale, dentro e contro il carattere ‘permanente’ della crisi. Questa possibilità è stata in qualche modo espropriata da un doppio movimento. Se infatti la dinamica dei ‘riot’ può aver contribuito a questo esito, esso ha le proprie radici ben piantate nel fatto che il corteo è stato, dalla sua indizione, piegato al tentativo di farne momento di rappresentazione dei conflitti in opinione pubblica, un corteo blindato dentro il recinto di un percorso che impediva qualsiasi forma di azione diretta di massa perché chirurgicamente svuotato di ogni obbiettivo sensato. È stato questo uno degli errori più gravi. Sarebbe ingenuo non riconoscere in ciò che è accaduto durante e dopo il corteo anche una sorta di reazione a questa blindatura. Una reazione però – diciamolo – a sua volta politicista, che ha l’esito di confinare la diffusa disponibilità a comportamenti conflittuali dentro l’angusto ambito di beghe fra aree e strutture, di ricondurla a ‘linguaggi’ e forme ben conosciute ma forse non all’altezza del tempo presente. La tenace resistenza di Piazza san Giovanni si è così consumata in un reiterato scontro con i blindati incapace di rivolgere la propria rabbia verso le molte istituzioni finanziarie globali presenti a Roma, che avrebbero probabilmente conferito un carattere assai più moltitudinario allo scontro.

 

Un cenno infine al tema della violenza. È bene su questo terreno anzitutto demolire la sterile partizione binaria dei tifosi dell’insurrezione e degli apologeti della politica costruttiva. Come impariamo dalla rivolta delle banlieues del 2005 e da quella inglese dell’agosto scorso, non si tratta di tifare per, né tantomeno di organizzare le rivolte. Esse semplicemente accadono. Lo fanno quando i termini dell’indignazione accedono alla dimensione dell’‘indicibile’: quando cioè i termini del problema sono posti in modo tale che la violenza diviene il linguaggio che più avvicina la forma della parola politica, l’unico linguaggio in grado di esprimere l’esperienza materiale dell’abisso che separa bisogni ed esigenze reali dall’apparato di forme e categorie con cui si organizza l’agire politico codificato, istituzionale e non. È proprio l’obsolescenza di queste forme e categorie a far sì che la violenza collettiva sia divenuta una caratteristica strutturale della metropoli contemporanea, in cui tumulti e rivolte sembrano spesso aver preso il posto dell’organizzazione in conflitto. È esattamente questo ‘contagio’ con la realtà metropolitana a determinare le forme-corteo che abbiamo visto il 14 dicembre e il 15 ottobre. Di fronte ad esse si può porsi il problema di indagare una caratteristica che sembra appartenere sempre più al nostro tempo, oppure leggervi solo profili di marginalità da recuperare alla società e alla politica, attraverso forme e strumenti che però – purtroppo o per fortuna, non è questo il punto – non reggono più alla configurazione compiutamente post-moderna degli scenari sociali metropolitani. Accanto a questo ‘soltanto adesso’ della metropoli contemporanea, nei saccheggi londinesi c’è il ‘da sempre’ degli assalti ai forni che hanno accompagnato la costruzione dei moderni mercati europei. Così come nel 15 ottobre c’è il ‘da sempre’ dei termini usati da tutto l’arco costituzionale per condannare gli scontri: ‘selvaggi fuori/contro la politica/società’, ‘barbari’, esattamente la stessa retorica che ha condannato a sanguinosa repressione ogni rivolta dei poveri fino al momento in cui il discorso del movimento operaio è intervenuto a mettervi ordine, dispiegando quello che Balibar definisce un processo di ‘civilizzazione della violenza’. Dobbiamo oggi domandarci se la prospettiva che abbiamo di fronte non sia – più o meno – altrettanto complessa (ma la ri-politicizzazione del lavoro operaio non può evidentemente essere il dispositivo con cui affrontarla), e la condivisa necessità di abitare un terreno costituente non può diventare paraocchi per non vedere quanto sia lunga la strada da percorrere. Quanto le pratiche teoriche destituenti siano talvolta terreno obbligato per liberare e inventare gli spazi di una politica costituente del comune.

 

 

 

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