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Noterelle sulle elezioni politiche

 

di ALESSANDRO ARIENZO

Il risultato delle elezioni del 25 e 26 febbraio non è un passaggio epocale ma una “catastrofe” politica. Non uno tsunami, di quelli che spazzano via caste o classi dirigenti invecchiate e digerite, ma un repentino e radicale passaggio di stato di cui ci parlano la fisica e la termodinamica. Uno scarto, quindi, che porta a un nuovo punto di sintesi fenomeni profondi, strutturali e di lungo periodo.

Interpretare la discontinuità segnata da queste elezioni, in particolare dal successo del “Movimento 5 Stelle”, con espressioni quali “populismo”, anti-europeismo, oppure “disaffezione”, “ingovernabilità”, “antipolitica” può servire a vendere qualche articolo, può tacitare inquietudini col ricorso a facili slogan, può servire a ricondurre quanto accade alle scaramucce della diplomazia politica. Ma non dice nulla di sensato su quanto accaduto. Allo stesso modo, ha poco senso ridurre l’esplosione del M5s al mero successo “cesaristico e mediatico” di Beppe Grillo oppure al voto di protesta, effimero ed evanescente, di un paese stanco e prono alle sirene delle rivoluzioni facili del 2.0. Siamo invece ai limiti dell’idiozia quando si allude ad una sorta di indottrinamento di massa operato dalla “Scientology/Casaleggio”.

In fin dei conti, è proprio leggere gli esiti elettorali a partire dal risultato del M5s che è fuorviante. Questo risultato, per quanto importante e indicativo, è parte di sommovimenti più ampi che investono l’intero arco politico parlamentare ed extraparlamentare e che sono di portata più ampia e complessa dell’imporsi del movimento 5 stelle come primo partito alla Camera. Un risultato elettirale, peraltro, che potrebbe anche rivelarsi effimero e di breve durata.

Se guardiamo invece all’insieme dei risultati, mi pare che sia il convergere di indici diversi a restituire il senso di quanto accaduto: il crollo del consenso per Pdl-Lega e PD; la quasi scomparsa dei partiti di una sinistra più o meno radicale da Sel al Rifondazione; la parallela quasi scomparsa del cattolicesimo politico; le dimensioni modeste in cui restano i partiti della destra sociale e fascista; l’inconsistenza del ruolo politico svolto dal mondo sindacale e confindustriale nelle dinamiche elettorali.

Riflettere sull’insieme di questi indici, piuttosto che “pesare” il successo del M5s, ci permette di porre in questione innanzitutto la tenuta della rappresentanza politica dentro e fuori il sistema dei partiti e le procedure del governo rappresentativo. E quindi sul processo di crisi della forma novecentesca del partito politico, in Italia, sulla messa in discussione del valore delle principali separazioni (cleavages) che le erano tipiche: lavoro – capitale; laici – cattolici; destra – sinistra. Mi pare evidente che l’orizzonte non è quello di “prendere parte”, se con prendere parte si intende l’essere pro o contro i grillini, celebrare Renzi o il caimano, il tristo mietitore europeo o anche compiangere la buona volontà del fallito smacchiatore piacentino o del barbudo magistrato siciliano. L’urgenza è invece dotarci di elementi tematici per rispondere alle domande, quella sì urgenti e angoscianti, del “che fare” e del “fare cosa per andare dove?” e “con chi”.

Si tratta, allora, di cogliere quanto emerge dalle vicende elettorali; cogliere nel pallottoliere delle urne gli indici di tensioni profonde che devono essere interpretate perché nel dato elettorale emergono questioni di ben più ampio respiro.

Il dato elettorale. In primo luogo, il risultato conferma il lento e progressivo ritrarsi dal momento elettorale degli italiani. In questa tornata elettorale ha votato il 75,20 percento degli aventi diritto a fronte dell’80,50 per cento delle precedenti elezioni. La percentuale, forse, più bassa nella storia repubblicana e che prosegue un trend costante e ininterrotto. Un quadro quale Pd, Pdl e Lega, da soli, perdono oltre 11 milioni di elettori rispetto alla precedente tornata elettorale. Un tracollo insomma, ed a dispetto di qualche incauta affermazione di vittoria – soprattutto a destra – il segnale di uno svuotamento profondo del bacino elettorale di tutti i partiti fatta eccezione del M5s.

Tuttavia, per bene intendere questo dato, è necessario ricordare che l’Italia resta uno tra i paesi democratici nei quali è più alta la percentuale dei votanti in rapporto agli aventi diritto. Sostenere, quindi, che queste elezioni sancirebbero la definitiva crisi della rappresentanza politica in Italia è fuorviante, se con questa affermazione si descrive la rappresentanza come mera partecipazione – quindi consenso – al momento elettorale. Da questo punto di vista, invece, l’Italia resta anomala nel quadro delle democrazie liberali per aver conservato un tasso di astensione inferiori al 25%. Fatte salve la disaffezione, la disillusione, il disinteresse, lo scetticismo verso la capacità della classe dirigente che ha allontanato ormai un quarto dei cittadini italiani dal voto, la crisi della rappresentanza non è in questi numeri. Piuttosto, ci sarebbe da indagare i processi di lungo periodo che portano il dato tendenziale dei non votanti in l’Italia – fino ad oggi eccezione – nella norma (nella fisiologia) dell’astensionismo elettorale che segna tutte le principali democrazie liberali. Una condizione sistemica che non può essere sbrigativamente ridotta alla disaffezione dei cittadini e non può neppure essere esclusivamente ricondotta alla scarsità o ai limiti dell’offerta in un mercato politico sempre più rigido.

Quale rappresentanza è in crisi? Se non è nei numeri, la cosiddetta crisi della rappresentanza è allora nel dato che le procedure e i percorsi del governo rappresentativo e le dinamiche del sistema dei partiti sembrano essere sempre meno in grado di esprimere – nel passaggio elettorale e nelle relazioni di scambio che lo precedono e lo seguono – gli interessi e le articolazioni vive della società italiana.

Intanto per ragioni strettamente procedurali: la spinta ad una governabilità ricercata per mezzo di un sistema elettorale forzatamente maggioritario e bipolare si scontra con le divisioni storiche ed irriducibili della società e della politica italiane che reagiscono ad un processo di mera riduzione aritmetica. Tagliando le ali più estreme del panorama politico si schiaccia al centro l’offerta politica rendendola, però, sempre più insignificante e quindi permettendo distribuzioni elettorali sempre più fluttuanti ed evanescenti. In tal senso, l’imposizione di governabilità attraverso il filtro del sistema elettorale, piuttosto che semplificare il quadro politico diviene moltiplicatore di processi centrifughi e caotici. Peraltro, l’insieme di bipolarismo (seppure, certo, all’italiana), principio maggioritario e liste bloccate ha dato vita ad un perfetto strumento di “inaridimento” del ceto politico. Un ceto che si clona rompe quelle funzioni di legittimazione e costruzione del consenso che gli permettono di reggere nel lungo periodo, destinandosi, da solo, all’evaporazione. Da questo punto di vista, l’opzione di votare Grillo per dare un contributo all’ingovernabilità – la posizione espressa col suo consueto acume da Bifo – è insensata: sia perché, l’ingovernabilità non è la vittoria dell’ingovernabile – il caos e le emergenze sono le modalità di funzionamento del capitalismo finanziarizzato come ci ricorda Girolamo di Michele – sia perché lo strumento dell’ingovernabilità politica non è il voto al M5S (vero è che di caos ne ha portato) ma si è rivelato essere il bipolarismo stesso che ha scavato nel solco della separazione tra sistema politico e corpo sociale. Sia chiaro, la restaurazione di un sistema proporzionale renderebbe forse un pochino più ricca l’“offerta politica” ma lascerebbe inevasa la questione di fondo: in definitiva ciò che rende effettivamente plurale l’offerta politica sono le opzioni politiche, non le liste, i corpi e gli interessi sociali concreti che li muovono, non i pacchetti di voti.

In secondo luogo, è il complesso del sistema dei partiti che, indipendentemente dall’architettura elettorale, non è più in grado di mediare interessi, bisogni, traiettorie ideali che provengono dai singoli e dai gruppi. Il tracollo di riferimenti ideali forti, l’assenza di “visioni” e percorsi “identitari” sempre più sostituiti da processi identificativi (ossia leaderistici) creano un vuoto crescente di proposta e di sintesi politica. E il crescente individualismo di una società che si arrocca su nuclei familistici, corporativi e piccoli interessi si adatta ad un “mercato politico” che assume sempre più le forme dell’intrattenimento: da Berlusconi a Grillo la continuità dello showbiz politico appare evidente. La crisi della rappresentanza è allora poco significativa nei numeri perché è tutta dentro i processi di accentuazione elitistica delle democrazie liberali “post-ideologiche”. Il sistema democratico-liberale, svaporato il conflitto con l’ipotesi comunista, ricerca un crescente astensionismo che è funzionale alla cessione volontaria da parte dei singoli di potere politico. Quell’eccesso di autorizzazione politica che proprio i percorsi della governabilità hanno costruito a partire dalla spinta della Trilaterale del 1977.

Assunti i limiti strutturali della rappresentanza politica e delle procedure del governo rappresentativo, il punto di partenza della nostra azione non può che essere un più generale vuoto di “rappresentazione politica” che coinvolge anche i movimenti. Quella incapacità di portare ad espressione organizzata – seppure multiforme, acentrica, disseminata, conflittuale – le insorgenze e le fratture che attraversano, ed hanno storicamente sempre attraversato, la società italiana. Il nostro dramma non è allora “rappresentare il comune”, ossia riportare il comune nei moduli della rappresentanza politica, ma darne una rappresentazione politica: dare una rappresentazione politica alle insorgenze, alla ricerca di forme di vita singolari e collettive, alla ricerca di istituzioni per l’autogoverno capaci di mettere a valore collettivo la potenza e la libertà del lavoro vivo e della cooperazione.

Grillo e i movimenti. Infatti, in questo contesto la ricchezza delle vite e dei percorsi singolari e collettivi sfugge alla rappresentanza, si sottrae ad essa. Quando questa ricchezza emerge, lo fa in maniera tanto effervescente quanto evanescente nelle forme delle occupazioni diffuse, dell’impegno politico-sociale e dell’attivismo militante. Nella gran parte dei casi non riesce ad andare oltre l’immediatezza dell’evento, oltre una presenza che si dà nel conflitto, ma che non riesce ad andare oltre questo. Pur riuscendo però a spostare carsicamente i confini della politica – significativo è l’imporsi del tema del reddito di cittadinanza nell’attuale agenda, ma un segnale si era avuto col referendum sull’acqua pubblica – questa ricchezza fatica a trovare forme organizzate di composizione politica, di durata consapevole, di progettazione di un’alternativa. Da questo punto di vista è forse vero quanto affermato da WuMing, Grillo cresce sulle macerie dei movimenti, in particolare sulle macerie (e sulle miserie) dei movimenti studenteschi, dei precari, dei disoccupati. Incapaci di offrire, come, almeno in apparenza, ha fatto il M5s, uno spazio “inclusivo”, una prospettiva (remota nell’attuazione ma presente nella rappresentazione) di “governo” e non resistenziale, una speranza di successo. E tuttavia, quale sia il verso di questo spazio inclusivo composto da Grillo resta una questione problematica aperta e in buona sostanza destinata a rimanere indecisa.

I grillini sono di destra o di sinistra?. Certamente il M5s non è di sinistra, e certamente non è “anti-politica”. Il M5s ha semmai mostrato l’istanza di un ritorno all’organizzazione e all’azione politica che l’Italia non vedeva dai primi anni della Lega, da quell’attivismo che la portò a radicarsi in un territorio – circoscritto al Nord Italia – con pratiche che sembravano quasi essere mutuate dalla storia del vecchio partito comunista. La questione della composizione sociale del M5s è forse poco rilevante, perché destinata a rimanere indeterminata. Infatti, questo movimento mi pare raccolga più che gli interessi, le spinte ideali di un mondo composito fatto di ceto medio, di ceto medio proletarizzato, di proletariato e precariato diffuso, così come di piccoli imprenditori e professionisti. Il M5s non è un movimento “di classe”, posto che si riesca oggi a demarcare le linee di confine tra le classi fuori da poco utili opposizioni binarie, ed è chiaramente inter-classita nella sua composizione.

Il nucleo militante è quindi espressione di un’intelligenza diffusa e di un cognitariato “giovanile” (cioè di 20-40 enni) che non è molto diverso da quello che sostiene, ad esempio, la rete dei militanti di partiti come Sel o Rifondazione. Semmai, esso si caratterizza nell’essere più indistinto nelle prospettive politiche – e per questo più inclusivo – e per l’esaltazione di uno spazio politico “procedurale” e comunicativo (la democrazia di internet come prassi della deliberazione pubblica mediatizzata). Più interessante mi pare il dato che il M5s contesti in maniera esplicita e radica la “logica degli esperti politici”, degli amministratori o dei politici di professione, in sostanza quel principio di distinzione tra governanti e governati che segna la storia del governo rappresentativo moderno e tutto sommato della stessa sinistra. Ad una rete di militanti ampia, forse non molto più larga di quella di altri partiti, si affianca invece un’area politica di riferimento indistinta che abbraccia la pensionata, il dipendente pubblico, l’insegnante di scuola ed il lavoratore precario, lo studente, il piccolo imprenditore o il commerciante. Un’area accomunata dalla percezione del proprio crescente “impoverimento” – prevalentemente letto come prodotto di ipertassazione e vampirismo bancario/finanziario – ed una “nuova questione” morale come aspirazione a una nuova etica pubblica. Anche quest’ultima appare, comunque, una spinta ambivalente, che oscilla tra cattura legalitaria e consapevole gioco del conflitto politico su un piano tradizionalmente poco “di sinistra” ma decisivo in Italia, quello della “corruzione”.

In effetti, la microfisica della corruzione che segna questo paese è da sempre funzione e strumento dell’accumulazione finanziaria, di consolidamento delle rendite, e strumento di disciplina politica e imposizione di consenso. Tra gli errori della “sinistra radicale”, aver compreso forse troppo tardi quanto importante fosse questo piano.

Infine, il riferirsi ad un popolo come se fosse un cumulo di richieste inevase (come nella proposta teorica di Ernesto Laclau) è forse la sola accezione nella quale è possibile descrivere come “populista” questo movimento. Al di fuori di questa accezione ristretta, mutuata da una certa filosofia politica, quella di populismo rimane una categoria buona solo per la polemica, ed inadatta a distinguere le qualità specifiche di un qualche movimento politico. Il M5s e Grillo non hanno a riferimento un popolo inteso in maniera identitaria, nazionale e territoriale. Questo movimento si muove, piuttosto, dentro la precarizzazione diffusa (si veda il volume di Grillo sugli “schiavi moderni”) e dentro l’individualismo competitivo – di qui la retorica del merito e della meritocrazia – che al centro pone il cittadino – diciamo pure il singolo – ma è anche capace di esprimere tensioni solidaristiche, ambientaliste e altermondialiste, comunitariste e mutualiste raccolte (strumentalmente?, personalmente non credo) dall’incontro coi movimenti, le reti informali dei network, il privato sociale.

Berlusconismo e anti-berlusconismo. Grillo ha quindi riempito con intelligenza, in questa fase, un vuoto di senso e di orizzonte politico dopo un quasi ventennio in cui la conflittualità ritualizzata al berlusconismo ha garantito la stabilizzazione conservativa del paese. Lo scontro berlusconiani-antiberlusconiani ha offerto dal ‘94 una sostanziale governabilità in maniera non troppo dissimile da quanto la vecchia democrazia cristiana era stata in grado di fare, a dispetto dell’apparente succedersi vorticoso dei governi. Del resto, la conservazione funziona tanto quanto è in grado di esprimersi in maniera dinamica ed elastica, e lo spazio Berlusconi era funzionale – una volta ricondotta al dominio carismatico del leader la stessa Lega – ad una divisione di compiti tra il campo dei riformatori di centro-destra e dei riformisti di centro-sinistra.

É probabile che questa dinamica sia definitivamente tramontata e che lo stesso Berlusconi sia ormai ad un passo dalla dipartita politica: ad ipotecare la sua durata – tuttavia – non sono gli esiti delle elezioni tanto disastrosi nei numeri quanto vicini ad una vittoria elettorale. E neppure la fittissima trama degli interessi, degli scambi occulti, delle tessiture identitarie che ancora ne regge il consenso e i pacchetti di voti; ma la zoè, il corpo ormai plastico del Caimano, che è ormai un corpo invecchiato, tirato al limite della sua epidermide.

Il mondo cattolico e la nuova pastorale. Le trasformazioni culturali della società italiana, la tenuta degli interessi di corpo che è maggioritaria nel paese, le rigidità di un sistema politico forzatamente bipolare, sono tutti fattori che rendono anche conto di uno dei più importanti – e meno discussi – risultati delle recenti elezioni: l’inconsistenza di un cattolicesimo politico mai come questa volta apparentemente polverizzato e disperso. Una polverizzazione che non è semplicemente il portato dell’assenza di un “partito cattolico” dovuto a un certo sistema elettorale e all’inedita alleanza Fini, Casini, Monti. Le ragioni sono di più lungo corso, e sono connesse a una capacità di presa diretta e di disseminazione del mondo cattolico che non guarda più tanto al vertice politico – assunta la sua relativa irrilevanza e la crisi della rappresentanza politica – per consolidare le proprie prese di posizione. Ma torna a lavorare “per strada”, pastoralmente, per rispondere a quella che è forse la principale sfida del presente per il mondo cattolico e clericale: la sfida del “relativismo”. Una sfida che necessità certamente il presidio dei vertici politici – meglio controllati stando dentro tutti gli schieramenti – ma che impegna piuttosto le canoniche, gli oratori, il privato sociale, l’assistenza, lo stesso intrattenimento televisivo con le sue fiction pretesche per costruire consenso e fidelizzazione. E che ha visto in Monti il tentativo – fallito – di tenere insieme gli interessi della grande finanza con la moderazione cattolica delle ricadute sociali delle politiche neo-liberali. Il governo Monti è stato anche e forse soprattutto questo: la sperimentazione fallita (e come poteva essere altrimenti) di un neoliberismo dal volto “cristiano”, di una certa idea moderata di una generica “economia sociale di mercato” intesa come rigore di spesa, centralizzazione amministrativa, spinte alla liberalizzazione del mercato del lavoro e del welfare.

Le “nuove” vecchie destre. Ebbene sì, non sfondano neppure le destre sociali e radicali. Le tensioni xenofobe, razziste, omofobe e fasciste nel nostro paese in questi decenni sono state fatte proprie dall’arco politico istituzionale in particolare della Lega e del Pdl, nonché da aree clericali del Pd. Pertanto, sciolte in un più generale astio verso un malgoverno che ha surclassato la paura del diverso con altri temi: la meritocrazia, il fannullonismo, la casta. La presa dei partitini di destra resta quindi minoritaria, forse nei limiti della fisiologia della vita politica italiana. Tuttavia, la via greca e il rischio “della destra che avanza” non e’ scongiurato: il M5s ha accolto aree prossime alla destra razzista e fascista, e la cosiddetta destra radicale resta fortemente presente nelle aree metropolitane. L’attuale condizione di blocco politico e la crescente crisi economico-sociale può sempre precipitare “a destra” riportando la questione sicuritativa e nazionalista al centro delle preoccupazioni degli italiani.

E la sinistra? L’altro vero elemento catastrofico in questo passaggio elettorale è che il “lavoro”, comunque esso lo si intenda, non è in grado di darsi una forma politica. La scomparsa (definitiva?) della sinistra di classe in Italia – sia nelle sue forme partitiche che in quelle sindacali –  si affianca al parallelo tracollo della stessa sinistra lavorista e social-democratica. In questa fase non solo l’arco politico che dal Pd arriva alla lista Ingroia, ma l’intero arco sindacale dai confederali alle organizzazioni sindacali di base hanno mostrato la loro sostanziale assenza nel processo politico che ha preceduto le elezioni. Mi pare drammaticamente evidente che “il nuovo”, se il nuovo emerge, non e’ qui. E se è vero che il corpo vivo del M5s esprime la forza e l’irriducibilità del lavoro vivo, come ha scritto Benedetto Vecchi sul Manifesto, è pure vero che esso non si riconosce come tale; richiamandosi piuttosto al protagonismo della “parte dei senza parte” tradita dai partiti, al democra/civismo orizzontale dei cittadini in armi contro la casta. Il M5s è certamente parte del conflitto tra capitale e lavoro, e ne coglie “a pelle” la capacità distruttiva nella percezione della proletarizzazione, ma ne ignora – talvolta ne nega – invece la portata costitutiva e potenzialmente costituente.

L’ austerity non è sconfitta: è più forte che mai. La sconfitta di Monti segna in sostanza l’inconsistenza dell’opzione politica neoliberale nel nostro paese, e non un qualche preteso anti-europeismo populista grillino o berlusconiano. É vero, all’accrescersi dell’austerity – delle sue ricadute negative – cresce il fronte delle opposizioni a queste politiche. Il risultato elettorale italiano è anche parte di questa generale ma indistinta opposizione alle logiche che hanno orientato fin qui la classe dirigente europea.

Nelle loro note sul sito del collettivo uninomade, Andrea Fumagalli e Cristina Morini chiariscono bene il senso di quanto accaduto: “la conferma dell’impossibilità di una governance tutta politico-istituzionale della crisi. La crisi europea aveva da tempo evidenziato tale incapacità e impossibilità, già all’indomani dello scoppio della crisi greca nel lontano 2010. Ciò che si confonde è la crisi della governance politica con quella della governance economico-finanziaria”. Lo abbiamo detto altrove, la nuova governance commissaria è immune alle sofferenze della politica, le sfrutta se può. E il plauso – a quanto pare – di Jim O’Neill della Goldman Sachs alla rivoluzione Grillina trova in questo passaggio il suo senso: non importa quale forma politica, non interessa quale programma mettono in campo, il M5s è novità e rottura. E la nuova governance economico-finanziaria vive del management della crisi. Questo è il vero rischio del presente: nel vuoto politico-istituzionale che potrebbe aprirsi posso darsi ragioni e opportunità per un nuovo e più radicale commissariamento dell’Italia. Che Napolitano fosse in Germania durante le elezioni non è il segnale di una disattenzione o del vassallaggio del presidente della repubblica all’aquila imperiale, ma è il segnale del rischio dell’azzeramento della politica italiana.

Di qui due esiti possibili. Una nuova democrazia dell’emergenza che sostenga ipotesi di governi di larghe intese: il rapporto dei servizi segreti al parlamento sul pericolo terrorista e sulle possibili tensioni sociali si affianca, allora, alla retorica della responsabilità e dei governi “di salute pubblica”. O una presa ancora più diretta della rete dei poteri europei come messa a tutela, commissariamento, della politica italiana attraverso le maglie delle diplomazie finanziarie europee e di governi tecnici. In un contesto, peraltro, nel quale l’austerity è sia il frutto di orientamenti ideali dell’élite politico-economica europea, sia il prodotto del conflitto tra le aree produttive del continente che vede al centro le scelte – e le indecisioni o gli intessi di stato – della politica economica tedesca.

Benedetto Vecchi ha espresso con chiarezza che la “cartina di tornasole” del posizionamento politico del M5s è sulla capacità di governare e modificare i rapporti di forza tra capitale e lavoro vivo. In realtà questa è la cartina di tornasole anche delle nostre scelte. Si possono nutrire enormi dubbi che questa nuova stagione politica si collochi espressamente dalla parte del lavoro vivo piuttosto che del capitale, certamente è necessario cogliere la sfida senza che le prospettive future nascano dalle ipoteche teoriche e organizzative del passato.

La questione politica decisiva non può allora essere quella di incrociare tatticamente, o anche sulla base di una qualche visione strategica, il M5s per farne la punta avanzata del lavoro vivo in armi. É invece plausibile che anche questo fenomeno, digerita la novità e ricomposta la frattura che esso ha segnato, divenga parte della più tradizionale conservazione politica italiana anche se in forme nuove e rinnovate. La questione politica di fondo resta quella del contrato tra rappresentanza e rappresentazione politica del lavoro vivo e delle nuove singolarità che lo compongono nel passaggio, questo sì epocale, che vede chiudersi il novecento anche in Italia.

 

 

 

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