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Nuova temporalità dei movimenti e democrazia radicale

 

di ANTONIO NEGRI

0. Reinventare la democrazia? Sempre più massicciamente i cittadini se lo chiedono, in particolare in paesi dove la democrazia sembra essere in pericolo: questo timore, in Ungheria per esempio, dove oggi ci troviamo, sta in cima ad ogni pensiero. Ma di quale democrazia parliamo? Spinoza aveva distinto la “democrazia assoluta” (così l’aveva chiamata) dalla democrazia come forma di governo che si accoppiava all’aristocrazia ed alla monarchia. Democrazia assoluta cioè una “democrazia del molteplice”, non riducibile a quelle forme di potere che sempre lo definiscono come “uno”. Non a caso Bodin dichiarava, dal suo punto di vista, che tutte le forme del governo sono monarchiche, perché ogni governo – per esser tale – non può che essere governo dell’uno. Il che è falso – come è falsa l’intera tradizione moderna che concepisce il potere come una totalità ed un trascendentale – da Hobbes a Hegel, da Rousseau a Schmitt. Non c’è contratto, neppure un’autorità, preventivo, necessario per formare la società ed il suo ordine. Ma, al contrario, come appunto già Spinoza intuiva, la società politica nasce dal desiderio della moltitudine: un desiderio singolare che si sforza – conatus – di essere costruttivo ed efficace; un desiderio collettivo – cupiditas – che media gli interessi in lotta e gli affetti e le consuetudini in direzione di un insieme istituzionale; ed infine un’immaginazione che costruisce un comune nel quale ragione e desiderio si collegano – amor. C’è un’intera corrente di pensiero che attraversa la modernità (Machiavelli, Spinoza, Marx) che ci assicura di questa verità.

1. Chi abbia vissuto il dopoguerra conosce le lotte operaie nel fordismo – ma può anche facilmente portare il suo ricordo alle lotte operaie del periodo precedente (prima cioè dell’affermazione del keynesismo): al soviettismo, all’ideologia dei consigli, ecc.. In Ungheria si ha presente come queste proposte politiche operaie siano state centrali ed attive nella costruzione di un modello di democrazia operaia, sia nel 1918 sia, soprattutto, nel 1956. Possiamo qui riconoscere il rapporto fra la composizione tecnica del proletariato (intendiamo con ciò il rapporto che la classe operaia ha con le macchine, il condizionamento che ne subisce e le tensioni che in tal modo impone al sistema industriale) e la sua composizione politica: questo rapporto è stato fondamentale nel determinare le forme di organizzazione che il proletariato si è dato. Alla base dei consigli operai di fabbrica, che estendevano la loro proposta e il loro potere su tutta la società politica, stava allora (negli episodi ungheresi ricordati) la classe operaia professionale e la produzione della marxiana “grande fabbrica”. Dalla Luxemburg a Gramsci, dai “consigliaristi” degli anni venti ai rivoluzionari degli anni del secondo dopoguerra, questo modello di autogestione operaia delle fabbriche e della società ripete il suo fascino che continuamente riemerge nelle lotte.

2. Nel secondo dopoguerra si afferma la “democrazia sociale”. La costituzione italiana, nel suo primo articolo, afferma che la repubblica è fondata sul lavoro. Lasciamo stare l’ipocrisia dei costituenti: assumiamone l’intenzione ideologica. Con ciò si voleva semplicemente reinventare il “pubblico”, rimotivare lo Stato, socialdemocratizzare il capitale. È in fondo già più di un secolo, da Bismarck e dalla Terza repubblica francese, che lo Stato sociale sta realizzandosi nella storia politica. Keynes e Beveridge lo hanno consacrato attorno alla seconda guerra mondiale. L’“operaio massa” del taylorismo e del fordismo diventa così centrale in questa società. Nuove temporalità sono costituite all’interno dei processi macchinici del fordismo: sono le temporalità, ormai divenute del tutto esplicite, della “giornata lavorativa” classica (tre per otto/ventiquattro: sonno, lavoro, famiglia). La pianificazione sovietica e le “ideologie del piano” occidentali qui si incrociano. Sembrava che l’età d’oro fosse tornata, dicono i padroni e i socialdemocratici, che il progresso e i Lumi trionfassero.

E invece è tempo di crisi, di una crisi che diventa più grande, più forte e soprattutto più pericolosa di quanto il capitalismo avesse mai conosciuto. Volendo democratizzare il capitale, volendo qualificare in maniera riformista la forza-lavoro (capitale variabile) e porla – quindi – in una proporzione dinamicamente commisurata rispetto al capitale costante, la governance capitalistica fallisce. La soggettività di classe supera quel che i capitalisti sono disposti a concedere. Gli operai cominciano ad appropriarsi della temporalità, sottraendola alla misura capitalista, per quanto dinamicamente trasformabile essa si mostri. Il tempo operaio è ormai out of joint. La crisi si definisce come una situazione nella quale un accumulo di richieste peraltro legittime divengono impossibili da soddisfare. Di conseguenza Huntington e la Trilaterale capitalista (Usa, Giappone, Europa), dai primi anni settanta, avvertono che bisogna ormai rompere la temporalità valorizzante che lega la produzione ai bisogni sociali, alla riproduzione della classe operaia (educazione, sanità, abitazione, ecc.). È allora che comincia a configurarsi una nuova riforma: non si tratta più semplicemente di valorizzare il lavoro di fabbrica ma soprattutto di valorizzare il “lavoro sociale”, le relazioni sociali, di mettere a frutto (profitto) la costituzione comune della società e della forza-lavoro; insomma, di giocare la valorizzazione dentro l’incommensurabilità del “tallone” temporale, dello standard produttivo, conquistata dalla lotta dell’operaio-massa.

3. Dentro la crisi degli anni settanta la “composizione tecnica” della forza-lavoro si modifica dunque profondamente. Come abbiamo già accennato, il capitale estende i processi di valorizzazione all’intera società. A questo scopo insiste sulla trasformazione, lenta ma continua, del lavoro materiale in lavoro immateriale. Sviluppa inoltre le condizioni perché il “lavoro cognitivo” divenga egemone all’interno dei processi produttivi. In secondo luogo, mette in produzione il tessuto “biopolitico” della società. A questo fine, sviluppa lo sfruttamento esternalizzando il lavoro dalla fabbrica, precarizzandolo, sussumendolo dalla sua diffusione sociale e captandone la cooperazione. Questi due processi (cognitivizzazione del lavoro e sua socializzazione) costituiscono il grande passaggio cui abbiamo recentemente e definitivamente assistito. Qui è ormai la stessa produzione di soggettività operaia che è dal capitale richiesta come essenziale base di valorizzazione. Inutile sottolineare a questo punto in che radicale maniera le temporalità, gli standard temporali del lavoro siano state modificati da questa mutazione: se la vita è messa al lavoro, la temporalità non è più una misura ma l’involucro liquido nel quale i lavoratori producono.

Ecco dunque allora che la “finanziarizzazione” si pone come unico orizzonte di captazione e di misura del lavoro sociale in questo nuovo modo di produrre. Se la finanza (e solo essa) costruisce ed impone la misura del lavoro sociale, se essa investe la vita e le forme di vita, e le configura dentro la misura monetaria, è chiaro che “profitto” e “salario” ormai si danno nella forma della “rendita” o del “debito”. Ed è anche chiaro (per chi vuol vedere) che, operando in questo modo, la finanza invade la sfera della regolazione pubblica della società più di quanto, nella storia del capitalismo, fosse mai avvenuto. Ne viene la progressiva patrimonializzazione in forma privata del pubblico, del “dominio” pubblico, così come della capacità di regolazione. Lo “Stato provvidenza”, il Welfare State, è privatizzato, la sovranità è patrimonializzata, nella misura totale nella quale la vita dei cittadini è messa in produzione. Fino al paradosso finale che la struttura del Welfare (scuola, salute, riproduzione demografica, ecc.) e della cooperazione sociale (comunicazione, cultura, trasporti, ecc.) divengono il campo di accumulazione/valorizzazione del capitale.

4. Sappiamo tuttavia che raramente le ciambelle manufatte dal padrone riescono con una buona definizione del buco. Il capitale infatti, come ogni istituzione politica (perché il capitale è un’istituzione politica, come Marx, sulla scia del concetto di potere elaborato da Machiavelli e da Spinoza, ha stabilito, e come Foucault ha ribadito), è un rapporto – in quanto potere esso è il risultato di un’“azione sull’azione di un altro”, di un comando contro una resistenza, dell’azione del capitale fisso contro la classe operaia e/o il proletariato. Dunque, se ad ogni azione corrisponde una reazione e se nel capitalismo socializzato il capitale si presenta come “biopotere”, la resistenza proletaria è biopolitica e gioca, nello scontro, il potenziale irreducibile dell’“eccedenza” conoscitiva e cooperativa – svolgendolo in termini costituenti. Questa serie di affermazioni va evidentemente sviluppata; non è qui il luogo per farlo (ma nella tradizione del pensiero operaista, questi concetti sono già stati più volte costruiti e dimostrati nella pratica). Si aggiunga tuttavia che, sempre da un punto di vista fenomenologico, il potenziale di resistenza mostra una (pur relativa, ma) costante “autonomia”. Il sapere, infatti, non è costruito e/o prodotto unilateralmente dal capitale nei soggetti cognitivi, nei lavoratori immateriali – essi autonomamente (nella maggior parte dei casi) si formano autonomamente – e quanto più la forza-lavoro cognitiva è precarizzata, tanto più essa può (e forse sa) presentarsi come “indipendente”. Notiamo allora semplicemente che il dato della nuova composizione tecnica del proletariato cognitivo può comportare una nuova potenzialità politica. Non è detto che essa si realizzi – ma se questo avvenisse, la rottura che la forza-lavoro cognitiva determina per il solo fatto di non essere costruita nella rarità, nella scarsità, nella necessità del comando capitalistico (come avveniva nella scocietà-fabbrica) ma di formarsi autonomamente – in autonomia, con potenza eccedente (come sempre è l’intelligenza) fino a strutture indipendenti – potrebbe determinare la definitiva spaccatura dell’Uno, del potere capitalista. In questo caso, la pulsione verso la pluralità si darebbe in maniera irresistibile nei confronti di un capitalismo – scopertosi “biopotere” – che tende sistematicamente a costituirsi come unità.

Tratteniamoci tuttavia ora sulle nuove figure dello sfruttamento. Ci si permetta qui di qualificarne quattro: l’uomo indebitato, l’uomo mediatizzato, l’uomo securizzato, l’uomo rappresentato. In ciascuno di questi casi ci troviamo di fronte ad una forma del controllo capitalista che nello stesso tempo determina nuove condizioni di lotta e di composizione politica. L’uomo indebitato è immerso in una gabbia monetaria che condiziona ogni aspetto della sua operatività sociale. È predeterminato ad una sorta di schiavitù che ne condiziona la sua vita intera. Ma è all’interno di questa oppressione che egli scopre la necessaria congiunzione della sua attività con quella degli altri. È un senso di giustizia, è l’indignazione per una misura irrazionale che gli è imposta, ad apparire come l’opposto dell’indebitamento: essere indebitati è essere trattenuti in maniera subordinata e servile dentro una gabbia monetaria – che è anche, tuttavia, il territorio della “cooperazione” produttiva. Nel segno dell’indignazione e della solidarietà,  l’uomo indebitato può dunque riscattarsi e, con se stesso, liberare anche l’altro. L’uomo mediatizzato è colui che viene sottoposto all’alienazione permanente nella comunicazione – onnipresente sulla vita e nella produzione. Come una scimmia viene fatto reagire agli stimoli dell’attenzione e del controllo mediatico. Ma anche in questo caso, esiste una possibilità di ribellione che sta nella sovversione della struttura stessa dell’assoggettamento. È la libertà della conoscenza, dell’invenzione e – nel modo di produrre cognitivo – dell’eccedenza del sapere che qui si esprime. L’uomo securizzato è quello sottoposto alla paura dell’altro: il modo capitalistico di produzione deve produrre un universo hobbesiano per costringere ogni lavoratore a riconoscersi come soggetto di un comando che, trascendendolo, lo rassicura. Appena ci si ribella, si deve essere ricondotti dalla paura alla “servitù volontaria”. Distruggere la paura diviene qui la base stessa della libertà e della costruzione solidale nel rapporto tra produttori. L’uomo rappresentato è infine colui al quale viene sottratta la possibilità di esprimersi politicamente, di esprimere cioè la sua volontà e la sua conoscenza del rapporto sociale, di dirigerlo “verso la felicità”. La “rappresentanza politica” oggi, ovvero la democrazia rappresentativa stessa, sono uno strumento di dominio formato ed assoggettato dal denaro, dalla ricchezza, dall’1% contro il 99%. La rappresentanza politica è stata ridotta a patrimonio del capitale. Rivoltarsi contro questa sudditanza rappresentativa al denaro dei potenti ed alle misure della ricchezza significa riscoprire che libertà, uguaglianza e solidarietà vivono su un terreno “comune” che è quello della vita costruita dai lavoratori, da quelli che producono e che vogliono essere, appunto, liberi ed eguali.

5. Dentro questo quadro, torniamo a considerare il nostro tema: nuova temporalità dei movimenti e democrazia radicale. Osservando i movimenti del 2011 si può notare come essi abbiano sviluppato una temporalità specifica. Chi abbia seguito la storia dei movimenti sociali e politici in Occidente dal secondo dopoguerra e soprattutto dopo il ’68, ha notato tuttavia come essi spesso (quasi sempre) siano nati in forma reattiva, al seguito dunque di eventi e/o di accidenti storici imprevisti. Lo sviluppo di questi movimenti si è poi normalmente dato sul ritmo della risposta alle decisioni del potere. Le mosse del potere hanno quasi sempre anticipato quelle dei movimenti democratici. I movimenti del 2011 mostrano invece un’accentuata indipendenza ed autonomia nella gestione del proprio sviluppo, nella gradazione della loro potenza costituente. Questi movimenti mostrano caratteristiche nuove, sia nella definizione della temporalità che nella determinazione della propria collocazione spaziale. Sorge l’ipotesi che “un’ontologia dinamica dell’essere sociale” possa qui proporsi in forme originali e radicali.

6. Tempo autonomo. Quando per esempio si insiste sulla temporalità lunga ed espansiva della “primavera araba” potrebbe sembrare che si introduca surrettiziamente una concezione del tempo differente dall’accelerazione insurrezionale degli eventi che normalmente definisce l’inizio di ogni lotta.  Ma non è così: il processo di decisione in assemblee aperte, orizzontali, che caratterizza tutti gli “accampamenti” del 2011, è anch’esso molto lento. Dovrebbero dunque il tempo lento e la longue durée dei processi istituzionali esser qui privilegiati sugli eventi insurrezionali, come Tocqueville aveva suggerito? Non lo pensiamo proprio. Quel che è interessante e nuovo in queste lotte non è la loro lentezza o velocità, ma piuttosto l’autonomia politica con la quale esse gestiscono la propria temporalità. Ciò segna una enorme differenza dai ritmi rigidi o isterici dei movimenti alter-globali, che seguivano i meetings dei summit governativi all’inizio di questo secolo. Di contro, nel ciclo di lotte 2011, velocità, lentezza, profonde intensità ed accelerazioni superficiali sono combinate e mischiate. In ciascun momento il tempo è strappato alla programmazione imposta da pressioni esterne e da stagioni elettorali, e stabilisce piuttosto il suo proprio calendario e i suoi ritmi di sviluppo. Questa nozione di temporalità autonoma ci aiuta a chiarire perché noi pretendiamo che questi movimenti si presentino come alternativi. Una alternativa infatti non è una azione, una proposta oppure un discorso semplicemente opposto al programma del potere ma è piuttosto un nuovo dispositivo, radicato su un punto di vista asimmetrico. Questo punto di vista sta altrove. La sua autonomia rende coerenti i ritmi di una propria temporalità e in questa prospettiva produce nuova soggettività, lotte e principi costituenti.

Le determinazioni temporali di un’azione costituente fluttuano tra latenza  e rapidità in relazione anche ad altri fattori. La cosa più importante è quanto ogni azione costituente possa essere contagiosa, meglio, epidemica. Domandare la libertà di fronte ad un potere dittatoriale, per esempio, introduce e diffonde l’idea di una eguale distribuzione della ricchezza – come avvenuto in Tunisia ed Egitto; porre il desiderio della democrazia contro le strutture tradizionali della rappresentanza politica solleva anche il bisogno di partecipazione di trasparenza, come in Spagna; protestare contro le diseguaglianze create dal controllo finanziario conduce anche a domandare un’organizzazione democratica del comune ed il libero accesso ad esso, come negli Stati Uniti; e così di seguito. Le temporalità sono veloci o lente, nella misura dell’intensità virale di comunicazione delle idee e dei desideri che, in ciascun caso, istituiscono sintesi singolari. Non c’è, evidentemente, “autonomia del politico”, in senso schmittiano, qui; le decisioni costituenti degli accampamenti si formano attraverso costruzioni complesse e negoziazione di conoscenze. Non c’è nessun leader o Comitato centrale che decide. Il metodo diviene essenziale, quanto lo è il discorso programmatico: gli indignati spagnoli e gli occupanti di Wall Street combinano nel loro discorso e nella loro azione la critica delle forme politiche rappresentative e la protesta contro la diseguaglianza sociale e il dominio finanziario.

7. Un’ontologia plurale del politico. Le lotte del 2011 sono avvenute in luoghi molto diversi e i loro protagonisti hanno forme di vita molto differenti: perché, allora, noi consideriamo queste lotte come parte di uno stesso ciclo? È innanzitutto evidente che queste lotte si confrontano ad un medesimo nemico, caratterizzato dal suo potere sul debito, sui media, sui regimi di sicurezza e sul sistema corrotto della rappresentanza politica. Tuttavia il primo punto da sottolineare è che le pratiche, le strategie e gli obiettivi, sebbene differenti, sono stati capaci di connettersi e di combinare diverse lotte plurali in un progetto singolare, di creare un terreno comune. Il collante che mette insieme può essere inizialmente linguistico, cooperativo e basato sui network. Ma questo comune linguaggio si allarga presto attraverso processi decisionali orizzontali. Ciò richiede un’autonomia temporale. Ciò comincia spesso da piccole comunità o da gruppi di quartiere (a Tel Aviv gli indignados israeliani riproducevano lo spirito e la forma politica della tradizione kibbutzin)… Questi movimenti hanno cercato di trovare supporto ed ispirazione nei modelli federalisti. Piccoli gruppi e comunità si collegano l’un l’altro e creano progetti comuni senza rinunciare alle proprie differenze: il federalismo costituisce così un motore di ricomposizione. Certo, ben pochi elementi della teoria dello Stato e della sovranità federalista permangono qui;  c’è piuttosto il residuo delle passioni e dell’intelligenza di una logica federale di associazione. Non a caso, d’altra parte molte delle armi sviluppate contro questi movimenti sono animate dal progetto di rompere le connessioni di queste logiche federaliste. L’estremismo religioso serve spesso per dividere i movimenti nei paesi arabi; forme di repressione vendicativa e razzista sono state usate per dividere gli insorti in Gran Bretagna; e in Nord America, in Spagna e altrove in Europa, le provocazioni poliziesche puntano a spingere le proteste non violente verso la violenza in modo da creare divisioni.

E tuttavia la politica sta qui conquistando, attraverso questi movimenti, un’ontologia plurale. Un vero pluralismo delle lotte emerge da tradizioni differenti ed esprime differenti obiettivi combinati in una logica federativa e cooperativa – al fine di creare un modello di democrazia costituente nel quale le differenze siano capaci di interagire e di costruire nuove istituzioni – come voleva Spinoza, dal basso ma con grande potenza effettuale.  Contro il capitale globale, contro la dittatura della finanza, contro i biopoteri che distruggono la terra, e per un accesso libero al e all’autogestione del comune. La prossima tappa dei movimenti consisterà allora non solo nel vivere nuove relazioni umane, ma nel partecipare dal basso alla costruzione di nuove istituzioni. Se fino a qui abbiamo costruito la “politica della pluralità” ora dovremo mettere in moto la “macchina ontologica” della pluralità stessa. Un’ontologia plurale del politico è stata messa in azione, dal 2011 ad oggi, dall’incontro e dalla ricomposizione di soggettività militanti.

Ma perché racconto queste cose a voi, amici e compagni ungheresi – che in altri tempi avete inventato queste forme di lotta e che nell’a-venire certamente le ricostruirete alla ricerca della libertà e dell’eguaglianza? Per dirla con Georgy Lukacs, la democrazia è sempre una sovversione del tempo.

* Conferenza tenuta a Budapest, Institut Français, 25 maggio 2012.

 

 

 

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