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Obama dopo Osama

 

di RAFFAELE SCIORTINO

Il discorso di Obama del 19 maggio sul Medio Oriente[1] – a due anni da quello programmatico del Cairo – è utile per fare il punto della politica estera statunitense all’indomani dell’eliminazione di Osama bin Laden e nel mezzo dell’aggressione alla Libia. Non solo ne esce consolidato il nuovo approccio dell’amministrazione rispetto alla primavera araba.[2] Il discorso, letto alla luce dell’attuale passaggio della crisi e del riassetto geopolitico globale, fa luce sul tentativo degli States di riequilibrare l’intera visione strategica a medio-lungo termine e di concretizzare sul piano internazionale una exit strategy dal bushismo.

 

American revolution al Medio Oriente?

Il Wall Street Journal – non proprio la voce dei “progressisti” – ha ben sintetizzato il punto nodale scrivendo che di qui in avanti l’obiettivo americano è quello di “premiare” i fautori del cambiamento e non i difensori della stabilità.[3] “Voglio parlare del change in corso – ha detto il presidente – delle forze che lo stanno guidando e di come possiamo formulare una risposta… la questione per noi è: quale ruolo può giocare l’America”. L’analisi non è banale nè scontata al di là della ovvia timidezza o reticenza su singoli punti (l’Arabia Saudita non è citata una volta se non indirettamente a proposito del Bahrein). Per una potenza che, come Obama ricorda ai critici interni ed esterni, nella regione mediorientale si è finora limitata ad una politica che sostanzialmente ha preservato lo status quo a scapito delle riforme incorrendo per questo nella sfiducia delle popolazioni arabe e nella perdita di credibilità, il rischio è di perdere un’opportunità storica.

Su cosa far leva allora? Esattamente sugli stessi fattori che hanno aperto la nuova fase politica e geopolitica della regione (e non solo di quella), ovviamente detournandoli. Primo, il fatto che la sollevazione araba è post-islamista. “Quando abbiamo trovato bin Laden, l’agenda di al qaida era oramai vista dalla stragrande maggioranza come un vicolo cieco mentre le popolazioni del Medio Oriente e del Nord Africa avevano preso il futuro nelle loro mani”. Il che equivale a dire, non banalmente, che lo jihadismo pur avendo radici effettive ha perso perché non ha saputo costruire un messaggio universalista di emancipazione incardinato nell’autoattivizzazione delle masse oppresse. Dunque, la carta bin Laden, emblema della guerra al terrore/terrorismo, era oramai spuntata per gli States e si è trattato di giocarla un attimo prima che andasse completamente fuori corso.[4]

Secondo, si è chiuso lo spazio in cui leader corrotti riuscivano nella diversione del malessere interno verso nemici esterni (l’Occidente, Israele) manipolando le divisioni sociali e religiose interne a evitare una radicale pulizia dal basso. E qui il messaggio di Obama ad alleati e “amici” è di fare in fretta prima che le piazze arabe si riaffaccino sulle questioni internazionali forti di una base politica e sociale rinnovata, come ha ben segnalato la giornata della Nakba di quest’anno. Come?

Ecco il punto cruciale: non si può prescindere dall’autonomia della sollevazione. “Non è stata l’America a portare la gente in strada, è stata la gente stessa a lanciare questi movimenti e sarà la gente a determinarne l’esito finale”. Non a caso viene proposta una narrazione che ha la sua genealogia nella rivoluzione americana “fondata grazie alla ribellione contro un impero” – vero! solo che gli States hanno avuto tempo e spazio per fare della prima rivoluzione anticoloniale la base di un peculiare impero del compiuto capitalismo globale; difficile che questa “fortuna” capiti ad altri… – e nel movimento per i diritti civili. Ma l’elemento essenziale è che questa autonomia va riconosciuta e indirizzata sul terreno della vita concreta delle persone. “Dopo tutto, non è stata solo la politica a portare la gente in strada”. Obama mostra qui non solo di saper usare quando conviene un concetto di democrazia meno politicista e vuoto dei suoi sacerdoti occidentali. Ma di saperne cogliere la base reale in quella composizione sociale e generazionale che sta facendo da fulcro del rivolgimento in corso in quanto catalizzatrice dell’insieme delle spinte di classe delle società arabe. “In un’economia globale basata sulla conoscenza e sull’innovazione nessuna strategia di crescita può basarsi esclusivamente su quanto sgorga dal sottosuolo” ovvero sull’uso clientelare della rendita petrolifera.

È questo il segno del change su cui spingere per riconfermare la primacy statunitense nella regione e anzi riqualificarla nel nuovo contesto globale che la crisi sta plasmando. Apertura dei mercati e nuovi prestiti in risposta alle aspettative delle piazze; creazione di una nuova “classe media” fatta di individui in tanto liberi in quanto disponibili a farsi microimpresa; “aiuti” occidentali attraverso ong e programmi di base nell’ottica del “nuovo contratto sociale” propugnato dalla World Bank.[5] Insomma, l’arma del debito estero ma distribuito e popolarizzato a incunearsi nelle istanze di libertà e cambiamento della rivoluzione vampirizzandole. Dal punto di vista statunitense vorrebbe dire che l’arma con cui si cerca di neutralizzare la rivolta araba è la medesima con cui rilanciare il comando del dollaro, anche contro Europa e Cina (e gli altri paesi Bric). Yes, we can

 

Regime change dalla Libia alla Siria

In questo quadro vanno collocati i due tentativi di regime change stile Obama: quello più avanzato in corso in Libia e quello per ora solo accennato in Siria. Siamo, per così dire, al lato attivo di una politica che chiaramente è stata finora costretta a reagire piuttosto che non il contrario (vedi Egitto e Tunisia). La rivolta antigheddafiana di Bengasi, frutto dell’effetto contagio più che di manovre occidentali (che pure ci sono state) e però assai differente per composizione e prospettive dalla sollevazione tunisina e egiziana, rappresenta per Washington e l’Occidente un varco sia per rimettere piede militarmente nell’area e sequestrare de facto le risorse libiche (petrolio e fondi sovrani) sia più in generale per cauzionare dall’interno l’insorgenza araba.[6] Inoltre, la riuscita eliminazione/rimozione di Gheddafi – oltretutto senza opposizione interna ai paesi occidentali in una situazione che ricorda l’interventismo umanitario nei Balcani degli anni Novanta, ma anche nel silenzio o imbarazzo delle stesse piazze arabe – sarebbe un segnale di avvertimento inequivoco a Cina e Russia da un lato, a Venezuela e Iran dall’altro.

Non che tutto fili liscio per loro signori, a partire dalla forse inaspettata resistenza di Tripoli e dall’inconsistenza degli insorti della Cirenaica che oltretutto invocando le bombe Nato e facendo mattanza di libici e migranti dalla pelle nera[7] non stanno certo creandosi consenso, a dir poco. Non è un caso allora se a Washington si è già discusso, in una riunione al Dipartimento di stato di inizio maggio, dell’eventualità e delle modalità di un intervento di terra (Napolitano, la sponda obamiana in Italy ne sarà informato?).[8] Staremo a vedere. Il capolavoro obamiano sarebbe quello di lasciarlo fare agli europei con un appalto… multilateralista e raccoglierne i dividendi politici complessivi. E sappiamo come sulla sponda nord del Mediterraneo leader pagliacci e sedicenti europeisti dalla vocazione suicida non manchino.

In Siria la situazione è confusa, e la disinformatsjia dei media sta facendo un lavoro sporco – questa volta Al Jazeera in testa – ancor più che per la Libia.[9] Le piazze che si sono mosse, non (ancora?) a scala nazionale, paiono avere una componente proletaria ma per altri versi la matrice, e la locazione, filostatunitense dei blogger che per ora tirano le fila della protesta sono assai più evidenti. Ma, come si è già visto il quindici maggio, qualunque crisi politica si allarga lì immediatamente anche alla questione palestinese e ai rapporti con Israele, e Washington deve procedere con molta cautela. Nonostante la forte tentazione, tralaltro, di far saltare con Damasco il progetto turco di tessitura di nuove relazioni mediorientali basate sull’integrazione economica.[10]

Ma al piano complessivo che Obama sta faticosamente abbozzando rischia di frapporsi in maniera sempre più evidente (solo per la sua amministrazione?) quello che sta diventando il problema Israele. Un problema peculiare in quanto causato da un alleato in fondo indispensabile per la tenuta dell’ordine statunitense in Medio Oriente. Si chiede il New York Times: “quanto più duro vorrà essere Obama nello spingere per seri negoziati di pace tra israeliani e palestinesi?”[11] In termini più generali il problema è questo: Israele dovrebbe cedere qualcosa di sostanzioso se la risistemazione dell’area non deve sfuggire di mano al suo protettore, ma al tempo stesso non vuole nè può farlo, anzi punta sempre di più sulla guerra come dimensione di sopravvivenza, non tanto fisica quanto politica, dello “Stato ebraico”. Obama non riesce a disinnescare o anche solo ad attutire il conflitto (che per lui è maledettamente secondario) ma la lotta dei palestinesi, nonostante le estreme difficoltà in cui si sta dando, è lì a ricordarglielo.

 

Un passo a ovest, due a est

Ma intanto Washington si prepara a un passaggio complessivo di politica estera. Il recente cambio ai massimi vertici (Cia, Pentagono) che ha preceduto l’operazione di eliminazione di Osama, sapientemente costruita in quasi diretta nell’infosfera[12], annuncia nei fatti un cambiamento di segno nell’impegno militare in Afghanistan. Con bin Laden dead il (modesto) ritiro di truppe annunciato per il prossimo luglio, infatti, può essere fatto passare come l’inizio di una transition[13] complessiva sulla falsariga del modello irakeno mentre i negoziati diretti ad alto livello con i talebani sono già iniziati[14]. Non che si voglia rinunciare alle basi militari in Afghanistan o la situazione sia meno complessa, soprattutto al crescere delle tensioni col Pakistan.[15] Ma certamente Washington ha bisogno di tirare il fiato in termini di costi e di consenso politico interno alla guerra. Soprattutto ne ha bisogno proprio per concentrarsi là dove, come si è visto, si gioca al momento la possibilità di riconfigurare il proprio ruolo di perno degli assetti geopolitici nei turbinosi, e non scontati quanto a esiti, cambiamenti in corso: dal Nord Africa alla penisola arabica, alla Mezzaluna fertile.

Ma non è tutto. Il passaggio più importante che a medio-lungo termine sembra prospettarsi è quello a Oriente. La fine della strategia della guerra al terrore e il tentativo di arrivare ad una “transizione responsabile” in Afghanistan, coinvolgendo in qualche modo gli attori regionali e almeno per ora non portando i rapporti con Islamabad al punto di rottura, vanno visti nella prospettiva di focalizzazione sul vero epicentro degli interessi statunitensi: l’Asia Orientale e la Cina.[16] Sotto questa luce l’approccio obamiano alla sollevazione araba dovrebbe permettergli di fare un passo a ovest per farne poi due e più a est, direzione Pechino, forte della ritrovata centralità di Washington nelle relazioni internazionali di nuovo conio e, in particolare, dell’aver messo in seria difficoltà la Cina nella sua marcia fin qui apparentemetne trionfale in Africa e in Medio Oriente.

Il summit sino-americano che si è tenuto questo mese ha visto, secondo i commenti internazionali ben sintetizzati da La Stampa, “per la prima volta dall’insediamento di Barack Obama, Washington discute[re] con Pechino da una posizione di relativa forza e non di debolezza. Non perché la situazione economica degli Stati Uniti sia sostanzialmente migliorata… La preoccupazione della Cina è che la morte di Bin Laden permetta a Washington di scrollarsi più in fretta di dosso le sabbie dell’Afghanistan per dedicarsi alle vere priorità di questo secolo: le priorità sul versante asiatico, dall’Oceano Indiano verso l’Asia orientale”.[17] Il discorso andrà ripreso, ma per intanto anche sul piano economico le prospettive per la Cina non sono rosee se tiene la capacità finora mostrata dalla Federal Reserve di scaricare gli effetti della crisi globale attraverso una politica inflattiva del dollaro. Una politica che espone gli altri attori alla difficile alternativa tra l’esporsi alla speculazione internazionale o il varare politiche economiche restrittive. Pechino – per quanto più robusta di un’inqualificabile Europa squassata da divisioni, miopia politica e sudditanza atlantica – non ne rimarrà alla lunga esente a misura che non sarà in grado di riconvertire il proprio modello di sviluppo dipendente dai circuiti finanziari statunitensi e di coalizzare effettivamente il fronte alternativo dei BRICS.[18] Unica, magrissima consolazione: il vergognoso comportamento tenuto dal governo giapponese col disastro nucleare di Fukushima – immaginiamoci se lo avesse fatto la Cina quale sarebbe stata la reazione in Occidente – toglie in qualche modo a Washington l’asset di un alleato docile da spendere nell’area.

 

Tutto bene per gli States, allora? Niente affatto. Rimanendo al Nord Africa tre sono, in estrema sintesi, i nodi sul campo.

In primo luogo, gli eventi di questi mesi ci dicono che siamo di fronte ad una re-azione, certo non proprio improvvisata, di Washington più che ad una vera e propria Grand Strategy. Se quella di Obama è una tendenza che potrebbe rivelarsi in certa misura efficace, lo è più per la debolezza di “alleati” e avversari che non per forza intrinseca. Con gli Stati Uniti a giocare il ruolo di guardiani al momento ancora insostituibili di assetti geopolitici che le rivolte stanno rendendo sempre meno stabili. Anche perchè, e qui interviene il secondo nodo, il rilancio economico che viene proposto ha molto poco del piano Marshall e molto invece della finanziarizzazione predatrice da estendere a nuove aree geografiche e settori della vita. Attenzione: questo limite che si sta rivelando strutturale non vale solo all’estero, ma negli stessi States se è vero che quasi tre anni di incredibile immissione di moneta non hanno ricreato le condizioni per una ripresa reale degli investimenti e tanto meno dei consumi a credito. Il che rende difficile trovare un supporto convinto interno – ne è specchio il fallimento del change obamiano[19] – indispensabile per affrontare i rischi inevitabili del nuovo approccio di politica estera.

Infine, e soprattutto, non è affatto detto che la variabile indipendente delle rivolte si fermi all’attuale stadio, e ancor meno che si faccia scomporre rendendosi disponibile allo scambio tra libertà politiche e accettazione dei meccanismi del mercato. Che il terreno della democrazia, nelle forme di mobilitazione che abbiamo visto in Tunisia e Egitto, si presenti come comune alla rivoluzione e alla conservazione non è allora indice della già riuscita captazione della prima; al contrario rivela il carattere potenzialmente avanzato dello scontro all’incrocio tra l’estensione incredibile della condizione proletaria sussumibile alla finanza e l’istanza di riappropriazione della propria vita. Obama è avvertito.


[1] http://www.realclearpolitics.com/articles/2011/05/19/obamas_speech_on_the_middle_east_109920.html.

[2] http://www.infoaut.org/blog/global-crisis/item/359-disinnescare-la-sollevazione-obama-al-lavoro-con-un-occhio-al-%E2%80%9Cnuovo%E2%80%9D-medio-oriente e https://uninomade.org/disinnescare-la-sollevazione/.

[3]http://online.wsj.com/article/SB10001424052748704083904576333762136575614.html?mod=WSJEUROPE_hpp_MIDDLETopNews.

[4] http://it.peacereporter.net/articolo/28310/Una+carta+giocata+al+momento+giusto.

[5] Vedi il discorso dello scorso sei aprile del direttore della BM Robert Zoellick The Middle East and North Africa: A New Social Contract for Development in http://web.worldbank.org/WBSITE/EXTERNAL/NEWS/0,,contentMDK:22880264~pagePK:34370~piPK:42770~theSitePK:4607,00.html. Correttamente Manlio Dinucci nell’articolo Tunisia-Egitto laboratori neocoloniali, sul Manifesto del 22 maggio, scrive che gli Usa mirano a conquistare anche le piccole e medie imprese (in Egitto 160mila, cui si aggiungono 2,4 milioni di microimprese). Quello che non coglie è però il terreno di captazione giocato da Obama.

[6] http://www.infoaut.org/blog/prima-pagina/item/904-boomerang-libico-per-un-fragile-occidente. “La Libia conta non per il suo petrolio o l’ intrinseca rilevanza, conta perchè è un elemento chiave della turbinosa trasformazione del mondo arabo”, ha scritto Foreign Policy (http://lynch.foreignpolicy.com/posts/2011/03/21/keeping_libya_in_context).

[7] Scrive, e documenta, Gabriele Del Grande sul suo blog : “Da Benghazi a Tripoli, la guerra ha risvegliato un odio ancestrale mai sopito. L’odio razziale. Dei bianchi contro i neri. E così la volgata popolare ha accusato i mercenari africani di tutti gli orrendi crimini commessi dalle truppe di Gheddafi. E il resto l’ha fatto il delirio delle masse assetate di vendetta. Gente armata fino ai denti, che in più di un’occasione ha giustiziato a sangue freddo i militari fatti prigionieri, con un particolare accanimento contro i neri, sia da vivi che da morti. Per non parlare dei civili innocenti che sono stati letteralmente linciati dalle folle perché sospettati di essere mercenari africani e tutto questo solo perché erano neri” (http://fortresseurope.blogspot.com/2011/05/rivoluzionari-e-razzisti-le-stragi-dei.html#more).

[8] http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-04-28/difesa-panetta-petraeus-063808.shtml?uuid=AaffeVSD. Il ministro egli esteri russo Lavrov ha apertamente parlato di preparativi in corso da parte della Nato (http://www.atimes.com/atimes/Central_Asia/ME10Ag01.html).

[9] Non sono in grado di valutare, ma trovo comunque interessanti, articoli come questo: http://www.conbagaglioleggero.com/2011/05/la-siria-vista-dalla-siria/. Quanto ad Al Jazeera il discorso è complesso e va inquadrato nella valenza tutta politica del lavoro di questo network nel costruire lo spazio pubblico arabo, all’incrocio fra nuovo panarabismo neoborghese, liberismo economico e rapporto “dialettico” con l’Occidente (l’emiro del Qatar è strettamente legato alle forniture militari francesi e partecipa all’intervento Nato contro la Libia). Certo è che lo spazio mediatico arabo inizia a palesarsi anch’esso sempre più come terreno tutt’altro che neutrale: i prossimi passaggi rivoluzionari dovranno prenderne atto. Vedi anche di M. El Oifi, Al Jazeera un palcoscenico politico vicario, Le Monde Diplomatique, maggio 2011.

[10] http://www.medarabnews.com/2011/05/10/le-rivolte-nel-mondo-arabo-mettono-in-pericolo-la-ritrovata-influenza-turca/.

[11] http://www.nytimes.com/2011/05/20/opinion/20fri1.html?_r=1&ref=opinion. Vedi anche: http://www.nytimes.com/2011/05/20/world/middleeast/20policy.html?_r=1&hp.

[12] http://infofreeflow.noblogs.org/post/2011/05/04/la-spettacolare-morte-di-osama/#more-460.

[13] http://articles.latimes.com/2011/may/01/opinion/la-oe-mcmanus-column-afghanistan-20110501.

[14] http://www.washingtonpost.com/world/national-security/us-speeds-up-direct-talks-with-taliban/2011/05/16/AFh1AE5G_story.html. Nelle parole di Hillary Clinton sulla morte di bin Laden: “Il nostro messaggio ai talebani resta lo stesso ma oggi ha ancora più risonanza. Non potete aspettarvi che ce ne andiamo. Non potete sconfiggerci. Ma potete fare la scelta di abbandonare al Qaida e partecipare a un negoziato politico pacifico” (http://www.newyorker.com/online/blogs/newsdesk/2011/05/after-bin-laden-a-new-foreign-policy.html).

[15] I toni sulla stampa Usa sono oramai durissimi verso le “connivenze jihadiste” del Pakistan. Da ultimo ci si sono messi Thomas Friedman che chiede una shock-therapy, e Salomon Rushdie che definisce il Pakistan uno “stato terrorista”. Nei circoli strategici si discute se continuare o meno negli aiuti economici: http://www.cfr.org/pakistan/should-us-continue-aid-pakistan/p25015. Intanto la Cina ha appena venduto cinquanta caccia a Islamabad: http://www.nytimes.com/2011/05/20/world/asia/20pakistan.html?_r=1. Attenzione: dietro l’offensiva, per ora, mediatica contro il Pakistan traspare in controluce un altro obiettivo, il regime saudita.

[16] http://www.realclearworld.com/articles/2011/05/06/after_bin_laden_us_will_look_east_99510.html.

[17]http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8719&ID_sezione=29&sezione=.

[18] Per una valutazione differente a partire dal summit cinese dei paesi BRIC più il Sud-Africa del 14 aprile scorso vedi http://www.thefiscaltimes.com/Columns/2011/04/20/Developing-Countries-Plan-to-Challenge-US-Dollar.aspx.

 

 

 

 

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