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Per il diritto alla bancarotta

 

di BURANELLO

il denaro non fa la felicità, soprattutto quando è poco (Peppino DeFilippo)-I-

premesse

Il nostro compito, quindi, consiste nell’assimilare noi stessi la tecnica, nel divenire noi stessi padroni della produzione. Solo in questo vi è la garanzia che i nostri piani saranno eseguiti. La cosa si capisce non è facile, ma è perfettamente attuabile con la scienza, l’esperienza tecnica, il sapere, sono tutte cose che si possono acquistare; oggi non le abbiamo domani le avremo. L’essenziale è avere una appassionata volontà bolscevica di rendersi padroni della tecnica di produzione…… a  volte si domanda se non sarebbe possibile ridurre il ritmo, moderare il movimento. No, non è possibile compagni…. ridurre il ritmo significa ritardare, e i ritardatari sono battuti. NOI NON VOGLIAMO ESSERE BATTUTI (G. Stalin, sui compiti dei dirigenti dell’industria, discorso alla I conferenza dei dirigenti dell’industria socialista dell’Unione Sovietica, 4 febbraio 1931).

Così si vinse a Stalingrado.

 

Con questa prosperità generale in cui le forze produttive della società borghese si sviluppano con tutto il rigoglio che è consentito entro i limiti dei rapporti borghesi, non si può sperare in una vera rivoluzione. Una tale rivoluzione è possibile solo nei periodi in cui questi due fattori, le forze produttive moderne e le forze di produzione borghese, vengono tra loro in contraddizione. I diversi litigi a cui si abbandonano ora e in cui si compromettono reciprocamente i rappresentanti delle singole frazioni del partito dell’ordine sul continente, ben lungi dal fornire l’occasione a nuove rivoluzioni, sono al contrario possibili soltanto perché la base della situazione è per il momento così sicura, e così borghese. Su di essa tutti i tentativi della reazione di frenare l’evoluzione borghese si spennano tanto sicuramente quanto l’indignazione morale e tutti i proclami infiammati dei democratici. Una nuova rivoluzione è possibile solo in conseguenza di una nuova crisi»(dalla Nuova Gazzetta Renana, V-VI fascicolo, in Opere Compl., vol. X, pag. 522).

Parafrasando i tre porcellini “chi ha paura della crisi cattiva”?

 

Ora siamo avvolti in una crisi sistemica, il capitale è crisi che genera, addomestica, gode.

Ora non solo abbiamo acquistato la scienza, l’esperienza tecnica, il sapere, ora siamo noi la scienza, il sapere, la tecnica.

Ora, però, dopo la convenzione internettiana, i mutui subprime, le carte di credito, noi siamo anche la bolla definitiva.

 

“Da un punto di vista capitalistico la soluzione alla crisi consiste SOLO nella possibilità di fare ripartire una nuova convezione finanziaria in gradi di ricreare una nuova bolla speculativa… ad essere in gioco è un’ulteriore finanziarizzazione delle politiche di welfare ossia l’accelerazione della finanziarizzazione della previdenza, della saluta, dell’istruzione. Ma nella rete potrebbero cadere anche le politiche pubbliche legate agli ammortizzatori sociali, alla distribuzione diretta di reddito e alle attività relazionali di cura ed assistenza. Nel modello antropogenetico emergente, è il bios che le borse pretendono di quotare” (Fumagalli- Lucarelli, introduzione a “dall’euforia al panico” di Andrè Orlean).

 

Appare quindi indispensabile agire sul modo di riproduzione del capitale operando proprio dove questo tende le sue reti nella speranza che qualcosa di quanto riesce a sottrarre alla (nostra) vita ci venga restituito [meglio, non sia espropriato..." infatti oggi non più vero (non è più soltanto) che se l'espropriazione significa qualcosa è che la nostra vita è diventata cosa... (come cantava Gianfranco Manfredi) l’espropriazione è la nostra condizione di vita di cui siamo espropriati].

 

 

-II-

farsi impresa, fare come l’impresa

 

All’emanazione della nuova disciplina delle società, c’è chi disse che “il nuovo diritto societario marcia e vuole marciare dietro la bandiera dell’autonomia privata“.

Nella norma si legge il contratto associativo in termini di autoregolamentazione, il che avviene nell’ambito di un’ampia lettura dell’art. 41 C. per cui nell’ambito della libertà di iniziativa economica viene ricompresa anche la libertà di autorganizzazione dell’impresa collettiva (alla faccia di chi con un lustro di ritardo, magari dopo avere gradito la riforma ora grida alla costituzione tradita).

La tipizzazione affievolita che emerge chiaramente con riferimento alla disciplina della srl, è presente anche in quella della spa, attraverso la riduzione dell’area occupata dalle norme inderogabili e quindi accentuazione dell’autonomia, tendenziale apertura alle applicazioni di regole proprie della disciplina generale del contratto.

Indice del trionfo del (maledetto, per quanto si vedrà) sinallagma, vedasi la disciplina della nullità delle delibere assembleari che ha demolito il regime proprio della nullità insanabile e assoluta con conseguente impugnabilità e rilevabilità ex officio senza limiti di tempo, disciplina che viene invece riservata esclusivamente alle delibere che modificano l’oggetto sociale prevedendo attività illecite o impossibili. Il regime della sanabilità della delibera anche nell’ipotesi di illiceità del suo oggetto (purchè non riferita all’oggetto sociale) tanto che la nuova disciplina della nullità delle delibere assembleari  con oggetto illecito può portare una definitiva sanatoria della nullità di clausole illecite (anche nel caso si tratti di norme poste a tutela dei terzi come quelle sull’integrità del capitale sociale e sulla responsabilità dell’amministratore verso i creditori sociali).

A proposito di tali questioni valente autore concludeva la propria analisi deducendo che “il legislatore consapevole della scarsa o difficile praticabilità dei rimedi giudiziari così come di quelli paragiudiziari, non va alla ricerca di sistemi procedurali che possono risultare più agili o adeguati, nè detta norme esplicite per la risoluzione del contratto. Sembra prenderne atto e dettare una norma di diritto sostanziale che crea un contropotere privato che apre spazi alla negoziazione….il sistema di risoluzione del conflitto è dettato da una norma di diritto sostanziale, e questa regola non mira ad una risoluzione conforme a giustizia, non penalizza comportamenti scorretti premiando quelli corretti, rimanda ad un decisorio supremo che è il mercato stesso (Rovelli, un diritto per l’economia. bilancio di una stagione di riforme. una scelta di degiurisdizionalizzazione ? pg 37 ss.).

 

Si è quindi parlato di un ulteriore abbandono della giurisdizione da parte dei soggetti coinvolti nei conflitti (Taruffo, adeguamenti delle tecniche di composizione dei conflitti di interessi, in Riv. Trim. Dir. Proc Civ., 1999, 791).

 

Tramonto dello stato, dissoluzione della legge, quindi.

 

Nel nome del mercato (meglio sarebbe, per favorire l’esistenza dell’allora insorgente capitalismo finanziario) si è anche rivalutata l’impresa decotta.

Nella disciplina pre riforma della legge fallimentare, accanto alla tutela privatistica si poteva individuare una matrice di carattere pubblicistico; la considerazione di un interesse superiore ma avvertito come coincidente con quello della tutela giurisdizionale del diritto di credito perché veniva a consistere nella soppressione ed esplusione dal mercato di un’impresa inefficiente, che non crea ma distrugge ricchezza.

A partire dagli anni 70 in presenza di una grave crisi dell’economia e al verificarsi di dissesti la rilevanza dei cui effetti non si esauriva all’interno dei soggetti legati da un rapporto obbligatorio con l’imprenditore in dissesto questa “armoniosa convergenza” di pubblico e privato veniva meno.

 

A partire della cd legge prodi (sempre lui) del 1979, per la prima volta la gerarchia degli interessi è ribaltata e non già per mano della giurisprudenza sollecitata dalle circostanze caso per caso ad un alternativo delle procedure concorsuali (si verificò anche questo, ma con l’occhio rivolto dai giudici di allora alla tutela del posto di lavoro”) bensì dal legislatore stesso e quindi con valenza generale ed astratta e con riflessi sistematici sull’intera normativa concorsuale. Di qui la ricerca attraverso il susseguirsi di interventi normativi sulle condizioni che possono legittimare il perseguimento del salvataggio dell’impresa; di quelle cioè in presenza delle quali l’impotenza patrimoniale dell’imprenditore a far fronte alle proprie obbligazioni non coincide con l’impotenza dell’impresa a permanere nel ciclo economico.

 

Si è compreso che l’equazione imprenditore insolvente impresa incapace di produrre reddito è fallace.

Tantoppiù che “la teoria economica ci ricorda che la finanza non può contribuire se non in misura modesta ad crescere il risparmio aggregato in via diretta. Il suo apporto principale allo sviluppo economico è indiretto: consiste nell’indirizzare gli investimenti verso gli impieghi socialmente più utili cioè quelli che assicurano la produttività più elevata a parità di rischio e di durata” (Violi, Mercato dei derivati, controllo monetario e stabilità finanziarie, Bologna, 2000).

Se l’impresa ha un EBIT positivo rispetto al capitale investito e tuttavia il costo del debito supera l’ammontare del suo rendimento, sicché la perdita ha eroso completamente l’investimento di rischio, il soggetto che esercita l’impresa potrà incorrere in insolvenza ma l’impresa in sè crea ancora ricchezza (si tratta di vedere a vantaggio di chi e quanta “vita” è succhiata per l’estrazione della ricchezza residuale, ma questo è un altro discorso che al capitale non importa).

 

Il capitale, la sua parte pulsante, è come il maiale, non si butta via niente.

Tutto ciò che (impropriamente si potrebbe dire, produce ricchezza) può essere valorizzato è inglobato, per tale ragione è tanto eroso quanto tutelato.

Le PMI, carnefici di tanti precari, sanno come si fa.

Via libera a Palazzo Chigi all’accordo per la moratoria sui debiti delle PMI. L’intesa allunga di altri sei mesi, il tempo per il rimborso dei prestiti previsto nell’avviso comune che era stato siglato nel pieno della crisi, il 3 agosto 2009 e cui hanno fatto ricorso 190.000 aziende per un valore complessivo di 56 miliardi….a copertura del rischio tassi ci sarà il fondo di garanzia….. Tremonti ha anche indicato il nuovo ruolo di partner per le imprese impegnate sui mercati internazionali che giocherà la Cassa Depositi e Prestiti (ma siamo noi, ndr) da Il SOLE 24 Ore, 17.02.2011.

 

Se ciò vale per l’impresa deve essere fatto valere anche e ancor più  da e per l’essere umano.

Le singolarità che costuiscono la moltitudine generano ricchezza con la loro stessa vita. Esse operano come imprese individuali senza scopo di lucro (che non sia la mera sussistenza) a favore del capitale.

Non si può uscire dallo stato di cose esistente se non vivendo la condizione di impresa mononucleare (un pò come Totò one man band con batteria, tromba, chitarra..).

L’uomo impresa deve vivere la propria condizione fino in fondo al solo fine del superamento di questa esistenza e dell’estinzione dell’impresa.

 

-III-

il denaro è come il letame, inutile se non è sparso

(Francis Bacon, Saggi: sulle sedizioni e le agitazioni)

 

Gli unici danneggiati dalla crisi -i cd. strati più deboli della popolazione che vedono ridotta la disponibilità delle banche a consentire loro l’accesso al credito e al contempo subiscono la ricaduta della socializzazione delle perdite causate dalla crisi stessa- sono anche gli unici che non fruiscono di alcuna agevolazione dal fatto di essere parte essenziale nella creazione della rendita e, ciò che è più grave, neppure lo pretendono.

 

Al contrario bisogna necessariamente imporre all’interno del movimento precario le condizioni per l’ inizio di un processo volto alla generazione di una norma moltitudinaria: il “diritto alla solvenza” delle singolarità che la compongono (nel senso che chi vive per ciò solo, dovrà essere considerato sempre solvibile).

 

Occorre istituzionalizzare il libero e illimitato accesso al credito (in analogia a quanto preteso dal capitale).

 

Con una precisazione.

La pretesa della moltitudine è di partecipare alla ricchezza che produce, ricchezza che il capitale unicamente erode.

La moltitudine attraversa e condiziona il mondo della rendita.

Retrocedere parte delle utilità sottratte attraverso la cosciente e volontaria insolvenza è atto immediatamente produttivo di un nuovo welfare.

La singolarità nomadi che si riappropriano della ricchezza e dei saperi invertono la dinamica redistributiva, fanno pagare la crisi a chi l’ha causata, ripensano in oggi una nuova forma di welfare sociale e comune (tesi X de la crisi dell’economia globale).

Ecco il senso del “farsi impresa”, imporre una lex mercatoria dell’uomo impresa che vuole farsi  moltitudine.

Ciò trascende l’indiscriminato accesso al credito (che il capitale deve essere costretto, in misura sempre maggiore, ad accordare ai precari come alle imprese) e la conseguente giusta insolvenza, per assurgere ad atto normativo poiché dipinge e induce la crisi quale sistema di governance e la moltiplica.

 

Se lo sfruttamento del comune si presenta come rendita finanziaria, carpire quanto più è possibile da questo meccanismo è istituire comune.

Allora, le singolarità che si fanno moltitudine non possono che darsi quale avvio di normazione il desiderio di partecipare alla ricchezza.

 

 

-IV-

insolvenza e sciopero precario

 

Nel corso dei Secondi Stati Generali del Precariato, ho respirato come il, forse più grave, limite ai miracoli del Santo, ossia l’incapacità di riconoscersi e farsi riconoscere sia in via di superamento.

Tante singolarità si sono in quei giorni frammiste e, pur non confuse o obliterate, coniugate in qualcosa che sapeva di moltitudine.

In particolare, fondamentale (e fondativa) è parsa l’emersione del desiderio di sperimentare lo sciopero precario: nuove forme di sconcertante rifiuto si sono ad esperienze collettive recuperatorie del “miglior” passato.

Anche al fine di dare qualche contenuto allo sciopero così evocato mi pare che portare quale rivendicazione quella del diritto all’insolvenza sia essenziale affinché il precario si riconosca per quello che è, non un limite alla propria realizzazione, ma il già esistente soggetto creatore di razionalità e ricchezza in un mondo di miseria proprietaria.

 

Ma come contraddire con modi nuovi ed adeguati un capitale sempre più “precario” ed autonimizzato?

Come professarsi precari e ottenere anche il pur minimo riconoscimento, attuale e svincolato dalle pastoie sindacali e consociative?

La vulgata mainstream sul precariato non è poi lontana dal vero: se sei precario non ti danno un mutuo, se ti licenziano non hai garanzie, se ti lamenti di cacciano….

Tutti d’accordo, dalla CONFINDUSTRIA a Nikki (Vendola, non Sudden, almeno quello si gettava dal palco ad ogni concerto).

 

E allora?

Privatizzare la FIAT?

Resistere, resistere, resistere (contro la crisi) in una corsa al ribasso cercando di mantenere quello che non si ha mai avuto se non per origine e fortuna?

Evocare merito (per tutti) e lavoro (sempre meno e sempre più duro)?

Bisogna ritornare ancora una volta alla fine degli anni ‘70, ad una recensione di Lester Bangs, laddove si evocava quando Karl Malden (sulle strade di san francisco ma anche un tram che si chiama desiderio) pubblicizzò american express.

Per la prima volta la pubblicità era volta non al bene da acquistarsi ma a consentire l’acquisto.

Si vendeva il credito in sé, la pubblicità del denaro (feticcio per antonomasia) disvelava il vero volto del nascente capitalismo finanziario-cognitivo.

L’oggetto del desiderio, specifico e di volta in volta precisato (frigorifero, auto, cane, moglie) cedeva il passo al desiderio di possedere (cosa, non importava più di tanto).

Anche da noi la cosa non passò inosservata (chi c’era si ricorderà le serenate del TG 2 e dell’UNITA’ sui poteri taumaturgici della borsa di Milano, quella di Craxi e Borghini).

 

Il diritto tracciò il solco, la giurisprudenza lo difese.

Mentre con la scusa dell’orrido sinallagma le conquiste legislative del movimento operaio erano smantellate da giudici (rossi si, ma solo di vergogna) e parlamenti, la figura del consumatore emergeva da flutti della ristrutturazione del sistema produttivo.

Il diritto, quale sistema per mettere in contatto i possessori di merci, trovava un nuovo soggetto cui riferirsi.

L’operaio, il contadino, l’impiegato che il capitale faticava a riconoscere quali erano, trasfusi nell’omogeneizzante novella categoria, apparivano chiaro e limpido centro di imputazione di diritti (meglio di un unico assorbente diritto, quello di spendere).

La tutela accordata al consumatore crebbe a dismisura, eliminando ostacoli a che gli uomini fossero (solo) tali, senza più distinzioni di censo, razza, sesso….

Chi entrava in un negozio ed acquistava, era degno di tutela, cosicchè l’acquistare divenne essenza del soggetto.

Tutto ciò persiste a tutt’oggi, nelle città dove i sindaci vietano le panchine e di sedersi in pubblico se non per “consumare” (concetto usato sin da tempi non sospetti dai baristi: ancora oggi in alcuni bar c’è scritto “consumazione obbligatoria”).

 

Lo svilupparsi dell’economia della conoscenza ingigantì l’effetto, modellando la vita delle persone.

Al consumo si riduce la vita dell’uomo indebitato, che ramingo invoca credito.

Il precario è una piccola impresa, fortemente indebitata per mantenere un carrozzone che lo costringe a lavorare sempre di più con la conseguenza che il debito si amplifica anziché ridursi perché il lavoro COSTA anziché produrre reddito.

Il precario è immerso nella rendita (altrui) dalla quale tracimano poche gocce di benessere che subito dissipa per creare nuove bolle con tanti ringraziamenti da parte del capitale.

 

Unico modo per farsi riconoscere dal capitale è  quello di assumere quali cardini del proprio agire il credito e il consumo (e sui questi innestare lo sciopero precario).

 

Il capitale ha necessità delle persone per esistere; lo fa divorando le vite e le ricchezze di tutti indistintamente; ma per fare ciò ha necessità che qualcosa resti (o comunque pervenga) alle persone stesse.

Una prima immediata pretesa che il precario potrebbe attivare è quindi quella di reclamare “rendita”, ovvero il diritto ad esistere perché l’esistenza del precario perpetua il capitale.

Tanto si è detto dell’uomo che si fa impresa (come il socialista che si faceva, forse, stato).

Ebbene, se l’uomo è un’impresa (e come tale soggetto alle regole del mercato, flessibile, dislocabile, globale) gli si debbono accordare le garanzie dell’impresa.

 

Di seguito elenco alcune pretese che potrebbero essere evocate in immediato nel corso di uno sciopero precario, Ho detto pretese e non rivendicazioni in quanto tale ultimo termine mi rammenta la dolente invocazione di giustizia ad un sovrano (o a un giudice) che dispone della legge, qui il diritto (e quindi il correlativo dovere di subire la richiesta) non deve essere attribuito, esiste già nelle singolarità che nella loro effettiva consistenza si pongono come generatrici di se stesse e quindi di rendita.

 

  1. in caso di crisi conclamata, come la presente, il precario deve esigere una moratoria per il pagamento di ogni costo sostenuto per la propria mera esistenza (casa, scuola, sanità).

 

2.  La richiesta dovrà essere rivolta all’ente pubblico al fine del sostentamento (una sorta di cassa integrazione ad personam, indipendentemente dalla natura del lavoro svolto e dall’impresa, ente a favore del quale si esercita), ma soprattutto alle banche. [Sospendere il pagamento delle rate dei finanziamenti è favorevole tanto al singolo quanto alle banche che possono ritenere a bilancio il valore del finanziamento senza dovere ricorrere a svalutazioni prudenziali e soprattutto senza il rischio di dover ricorrere all’esproprio che oltrecchè costoso, ben difficilmente porterebbe al recupero integrale del credito];

 

  1. si dovrà, poi, richiedere la costituzione di una cassa di rifinanziamento ipotecario delle singolarità, con la giustificazione che  è infatti l’unica misura tecnica per ridare un prezzo ai titoli derivati che oggi intasano il sistema bancario mondiale (Marazzi, finanza bruciata, 125);

 

4. al precario dovrà essere consentito di portare allo sconto le fatture che emetterà nei confronti del padrone (con ciò sensibilizzando quest’ultimo, e potendo godere di una entrata immediata a fronte di un pagamento previsto a 60/90 gg);

 

  1. per il caso in cui il padrone, faccia parte di una “filiera” e uno tra i soggetti partecipanti alla stessa divenga insolvente, al singolo dovranno essere applicate le stesse agevolazioni concesse alle imprese;

 

6.  in particolare il singolo debitore non dovrà essere segnalato alle società di valutazione della capacità creditizia e gli sarà riconosciuta una rateizzazione di almeno 48 mesi per il ripiano di ogni pendenza;

 

  1. al precario dovrà essere estesa la legislazione sull’insolvenza, tendente non all’eliminazione del debitore quale elemento indegno ma alla valorizzazione dello stesso e della sua idoneità a partecipare al proseguimento dell’esistenza del capitale;

 

  1. inoltre, la dichiarazione dello stato di insolvenza dovrà inibire il ricorso dei creditori a sistemi di esecuzione individuale, a favore di una gestione a favore della massa;

 

9.  in ragione della “produttività” immediata ed ontologica del precario, dovrà essere inibito al creditore portatore di un interesse confliggente con la prosecuzione del processo produttivo esistente (ad esempio condominio, fornitore di beni di consumo, padrone che abbia anticipato mensilità o TFR) di porre in essere iniziative che distolgano il precario dal proprio assetto biopolitico; il soddisfacimento della ridetta tipologia di creditore dovrà essere subordinata da un lato alla sopravvivenza del precario, dall’altro al previo pagamento degli enti erogatori del credito.

 

Se fino a oggi l’accesso a un bene comune ha preso la forma del debito privato da oggi in poi è legittimo concepire e rivendicare lo stesso diritto nella forma della rendita sociale. La rendita sociale è la forma che nel capitalismo finanziario assume la ridistribuzione del reddito il modo in cui la  società riconosce a tutti il diritto di vivere dignitosamente. in quanto tale la rendita sociale è declinabile in più campi in particolare quello della formazione e dell’accesso alla conoscenza nella forma del diritto a un reddito di studio (Marazzi, cit. 126 ss.).

 

E poi come ricorda Emma Marcegaglia parafrasando Benedetto XVI, nel campo privato, finanza etica vuol dire essere capaci di dare credito a soggetti ai quali, con teorie dello sconto basate esclusivamente su criteri patrimoniali -di Basilea 2 e Basilea 3 domani, per intenderci- invece lo si negherebbe. Soggetti che hanno serietà e capacità di pagare gli interessi non solo sugli impieghi concessi ma che attraverso essi estendono ulteriormente la capacità di creare reddito e produzione, consumi e investimenti.

Forse che i precari non “estendono ulteriormente la capacità di creare reddito e produzione”?

 

 

 

 

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