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Per non rimanere a mani vuote: prassi-teoria, costruzione di una coscienza collettiva

 

di FRANCESCA DE ROSA e VALERIA RUSSO

Riflessioni sul movimento No gas e sulle lotte per i beni comuni in provincia di Caserta

Tutti questi processi di lotta che si sono innescati nella nostra provincia e in particolare nell’area dell’agrocaleno hanno favorito il costituirsi di una serie di esperienze pratiche, atte a garantire la formazione di una memoria e di una coscienza collettiva. L’importanza di creare coscienza per noi è avvenuta attraverso le pratiche sperimentate lungo gli anni che hanno contraddistinto la lotta sul territorio,  riuscendo a trovare momenti di coesione collettiva dal basso e in autonomia, completamente sciolte dalla componente istituzionale che si è palesata soltanto come elemento disgregante[1]. Potremmo dire quindi che è attraverso la memoria e la coscienza collettiva che intendiamo alimentare    quella cassetta degli attrezzi che trae linfa proprio dalla pratica quotidiana che, in questo caso, ha messo in evidenza la necessità di una prassi non  disgiunta da un livello teorico.

La nostra visione, proveniente dalla realtà post-rurale, si basa soprattutto su questa dualistica dinamica in cui siamo inseriti di periferica – centralità e l’importanza di preservare la memoria collettiva risiede, appunto, in quel processo ciclico di prassi-teoria-prassi che vede nell’attacco al territorio l’esigenza di autorganizzarsi e contribuire alla continua formazione di coscienza attraverso il riscontro reale e l’intercettazione del soggetto, fattori che rappresentano per noi formule di agibilità politica. In definitiva, per smontare i processi di assoggettamento a cui siamo stati e tuttora siamo sottoposti è necessario, per  decostruire e contrastare il potere imposto dall’alto, partire dal basso andando ad analizzare le forme di resistenza opposte alle differenti declinazioni del capitalismo , o meglio utilizzare queste forme di resistenza come un catalizzatore chimico capace di far emergere le relazioni che manovrano dall’alto.

Nella fattispecie, la complessa vicenda della centrale a turbogas di Sparanise[2]   costituisce un esempio pratico di due lotte dislocate territorialmente ma congiunte nell’opposizione alle politiche affaristiche che si esprimono, nel caso specifico, tra i rapporti imprenditoriali tra l’HERA, multy-utility di cui il comune di Modena detiene una quota partecipativa, e SCR, società della famiglia Cosentino,del comune dell’agrocaleno. Piuttosto che analizzare il potere da una visione di razionalità interna, ci interessa analizzare le relazioni di potere attraverso l’antagonismo delle strategie.

In riferimento,quindi, ai beni comuni crediamo necessario sottolineare che per noi, il bene comune assume consistenza nel momento in cui esiste una lotta per la sua difesa infatti, la coscienza dell’esistenza del bene comune e della riappropriazione di esso è un processo indotto dalla serie di attacchi subiti nel corso degli anni.  E’ allora che le comunità,  nella loro totalità e non in una componente marginale, mutano il loro atteggiamento, cercando da un lato di svincolarsi dalla costruzione vittimista e subalterna all’accanimento del capitale, e dall’altro di attivarsi in un processo di rivendicazione dei propri diritti costruendo una realtà altra da quella preposta e calata dall’alto.

La moltitudine disgregata nella fittizia divisione sociale, si ricompone e riprende in termini materiali i beni della collettività utilizzandoli per i fini della comunità, in maniera nettamente separata dalle modalità assunte dai prototipi istituzionali e associativi quali Libera, e nello specifico del nostro territorio, Icaro, la quale, soprattutto nell’area di Torre Ortello, ha operato in una totale estraneità alle esigenze collettive , perpetuando la macchina capitalistica.

Il concetto di ritorno alle comunità di  “bene confiscato”  nella nostra terra, ha rispecchiato la sua vera natura solo in occasione del presidio, unico momento in cui la popolazione tutta, nella sua trasversalità, ha vissuto quell’appezzamento di terra come luogo di democrazia, dal basso, orizzontale, punto focale di autorganizzazione.

Da allora quei posti sono stati solo propaganda di associazioni, che affidando la gestione di quelle terre a cooperative, totalmente inglobate nel sistema capitalistico, non hanno riconsegnato nulla alla comunità se non la solita e vuota legalità istituzionale.

Dalle parti nostre come già è stato ampiamente relazionato fino ad ora, il capitalismo armato trova spazio proprio in quelle forme di legalità istituzionalizzata che vedono il nostro territorio in perenne attacco per le comunità ma soprattutto un concentrarsi di capitale nelle mani di pochi e una totale indifferenza per le esigenze reali della collettività. È in questo modo che il potere viene esercitato come tecnica di assuefazione del soggetto allo status quo nel senso che, per dirla in chiave Foucaltiana[3], classifica gli individui in categorie, li marca attraverso la loro propria individualità , li fissa alla loro identità, impone loro una legge di verità che essi devono riconoscere e che gli altri devono riconoscere in loro.

È un tipo di potere che trasforma gli individui in soggetti con una duplice valenza che vede l’assoggettamento o verso sé stessi o verso gli altri, funzione comunque di una forma di potere che soggioga.

Con i processi di lotta si è andato a demolire questo stato di assuefazione che, per quanto sia stato spontaneo, si è riusciti a canalizzarlo in forme autorganizzative e che hanno dimostrato come sia possibile praticare forme di resistenza in netta contrapposizione con quelle imposte dal capitalismo armato.

Oltre al tipo di riappropriazione avuta con Torre Ortello in quella determinata fase storica, ricondotta principalmente in termini di occupazione fisica, crediamo che sia importante parlarne anche in un ottica di riappropriazione nel senso di piegare l’accumulo che dovrebbe essere utilizzato per la costruzione di impianti e di discariche a favore della collettività, un esempio potrebbe essere la bonifica dei territori già martoriati.

Ingiustizia sociale e razzismo ambientale

È proprio attraverso l’inchiesta fatta con la mappa del danno[4] che, in una visione allargata a tutta l’area provinciale, abbiamo avuto modo di renderci conto non solo del quadro allarmante che ne è uscito fuori ma soprattutto di come ci sia una forte incidenza su determinate zone geografiche ed un vero e proprio accanimento di speculazione ambientale.

Tali considerazioni prendono sussistenza dal prendere atto che il territorio della provincia di Caserta accoglie un numero elevatissimo di impianti di distruzione ambientale, in continua proliferazione, come previsto dal piano regionale rifiuti e quello provinciale, nella logica di volerli dislocare, martoriando senza tregua, sempre le stesse zone.

L’evincersi di un totale accanimento ambientale – portato avanti con la solita scusante dell’emergenza rifiuti e del continuo stato di emergenzialità in cui veniamo inseriti da oltre 20 anni sia in quadro regionale che territoriale –  è visibile in uno sguardo, anche disattento, di come la collocazione di tali strutture si concentri in determinati territori che già di per sé vivono situazioni di  disagio sociale, di sottomissione e/o sfruttamento ma soprattutto sono la reale   mangiatoia per  la politica corrotta e la criminalità organizzata.

Lontani dalla creazione dello stereotipo di Gomorra che Saviano, scrittore di paventata ed epica diaspora, ha creato, ci soffermeremo – come soggetti che tra le mille difficoltà in questo  territorio  vivono e lottano quotidianamente – sulla sperimentazione del capitale che il nostro territorio si trova a vivere come cavia da laboratorio per gli interessi economici e politici del malaffare azzardando la totale coincidenza di disastri ed in generale ingiustizie ambientali con la discriminazione sociale e il razzismo ambientale, inserendo la dicotomia tra Nord e Sud, ,come Nord che produce ricchezza industriale e Sud che ne smaltisce i rifiuti producendo ulteriore ricchezza.

Le ingiustizie sociali e quelle ambientali non solo hanno origini comuni, ma si alimentano reciprocamente. È proprio questa logica che, da un lato forgia condizioni di degradazione crescente per  molti e, dall’altro lato, propizia lucro abusivo per  pochi eletti e la sottomissione ad un modello di sviluppo sempre più di esclusione fa in modo che le autorità e gli enti preposti, optino per la connivenza o per l’omissione a discapito della preservazione  ambientale e di chi vive il territorio, favorendo la speculazione imprenditoriale.

Le istituzioni giuridiche, economiche politiche o militari rinforzano l’ingiustizia ambientale e influiscono nell’utilizzo locale della terra, in base a norme ambientali a favore degli stabilimenti industriali e a discapito della salute di coloro che ci vivono e delle terre stesse, chi paga e chi ne trae i benefici sono il Calibano e il Prospero di questa reale tragedia.

Il  disastro generalizzato perpetuato nella provincia di Caserta, come dicevamo pocanzi, vede  in determinati comuni la volontà di istallare ecomostri o la possibilità di deturpare, senza alcun problema, il territorio, ad esempio: la discarica di Maruzzella, tra San Tammaro e Casal di Principe che su 21 dipendenti ne vede cinque morti per cancro e quattro operati per la stessa malattia, pile di mmonnezza e laghi di percolato, per giunta basta attraversare la strada e le pile sono quelle delle eco balle di  Ferrandelle, altra discarica (su un terreno confiscato al clan Schiavone) , Taverna del re con sei milioni di eco balle praticamente non protette, Pignataro che ha visto diverse minacce come la volontà di inserire una  discarica sul terreno Cento moggia, un’altra discarica provinciale nella zona di Torre Ortello, la centrale turbogas di Sparanise a 5 km  dalla Biopower altro impianto costruito ma mai entrato in funzione sul territorio di Pignataro. Ed ancora, la volontà di costruire un’altra turbogas nel comune di Presenzano ed un gassificatore nel comune di Capua, un digestore anaerobico tra San Tammaro e Santa Maria Capua Vetere, insomma un campo minato a cui si aggiungono discariche abusivi, percolato, roghi tossici,  una lista interminabile di mostri che sviano puntualmente il problema dei rifiuti e che pongono i cittadini di questo territorio in una posizione di subire puntualmente ingiustizie.

Va anche detto che  tale discriminazione non solo si vede nel rilevamento delle zone dove inserire gli impianti ma soprattutto nelle mancate bonifiche che puntualmente non vengono fatte e spesso tendono ad occultare le reali situazioni di inquinamento di tali zone. Un caso evidente ne è l’incendio dell’Ilside a Bellona[5] dove, sebbene i fatti lasciavano presupporre un inquinamento delle zone vicine al rogo, nello stesso tempo pochi sono stati i dati che sono emersi riguardanti la reale situazione che ne è conseguita.

Si tratta di un accanimento quello che si vive nel casertano, dove la sperimentazione del capitale trova sempre spazio, dove non è vero che non  si produce ricchezza, tutt’altro, i processi di accumulo si danno attraverso patti scellerati,che vorrebbero la comunità nella condizione di subire passivamente.

È per questo motivo che si rende sempre difficile contrastare questi meccanismi: vengono ribaltati, quindi, i concetti di cosa possa ritenersi legale e cosa meno, e dove l’unica risposta che ne può trovare beneficio è quella delle pratiche di lotta reale dove i cittadini, scendano in campo in prima persona per evitare ulteriori abusi territoriali.

E’ innegabile che su questi territori se da un lato è visibile il danneggiamento ambientale, dall’altro è visibile un’alta concentrazione di fasce sociali disagiate ma principalmente considerate inferiori rispetto agli interessi delle amministrazioni locali e di un’elevata collusione tra stato e criminalità organizzata. C’è una applicazione disuguale delle leggi, spesso fatte a misura di chi le applica e per nulla dirette alla reale democrazia, che legittimano l’esposizione umana a sostanze pericolose, non a caso l’aumento dei tumori sul nostro territorio ne sono la prova, sovvenziona la distruzione ecologica, aumenta i rischi ambientali, prende insomma decisioni e pianifica l’uso del territorio sotto un’ottica dell’interesse che sia esso economico, politico o di usurpazione.

È in questi termini che è visibile una vera e propria stigmatizzazione sociale, attraverso la creazione di  differenze discriminatorie e in cui la deturpazione del territorio coincide con un vero e proprio razzismo ambientale.

L’area del litorale domitio ad esempio, vede un’alta concentrazione di migranti e di disagio generalizzato, dove lo sfruttamento e la schiavitù nell’economia locale sono in totale connivenza con un altissimo tasso di inquinamento    delle risorse naturali con sversamenti di liquami abusivi, materiale radioattivo, come ad esempio nell’Hyppokamos,   notissimo complesso ricreativo di Castel Volturno – dove per 17 anni è rimasto  nascosto sotto il cemento, in cui i Tir carichi di rifiuti pericolosi (in particolare scarti della lavorazione dell’alluminio e dell’ammoniaca) arrivavano a Castelvolturno dalle regioni del nord e di notte scaricavano nell’enorme invaso proprio a ridosso della pineta. Come se non bastasse, l’inquinamento dei Regi Lagni specie nella zona tra la foce del Volturno e il lago Patria, il disastro della centrale elettronucleare del Garigliano i cui effetti sono presenti ancora oggi, si registrano concentrati in questa zona dove è palese che chi tesse la tela degli affari politici da intraprendere è la camorra a braccetto con la politica che non si interessa minimamente della salute degli abitanti.

È a partire dalla teorizzazione che R. Bullard, fa di razzismo ambientale[6] come – qualsiasi politica, pratica o direttiva che pregiudichi, in diverse forme, volontarie o involontarie, le persone, i gruppi o le comunità per motivi di razza o colore, idea  associata alle politiche pubbliche e alle pratiche industriali indirizzate a favorire le imprese imponendo alti costi per le persone appartenenti ad una determinata comunità o alle persone di colore – che crediamo ci siano molte caratteristiche che vedano nella provincia di Caserta i presupposti per parlare di tale discriminazione, non solo rilegando la questione razziale al mero colore della pelle ma trovando la totale espressione proprio nella stratificazione che vede disuguali trattamenti per le comunità, superficiali controlli, spesso fittizi, nella valutazione e nella gestione di rischi e del reale impatto ambientale,  favorendo una categorizzazione delle persone secondo la razza, lo status sociale e il potere, maggiore esposizione di talune popolazioni nelle abitazioni, nelle scuole, nei quartieri, stratificazione di luoghi come i quartieri periferici, le zone rurali, le aree non incorporate e anche del lavoro (maggiori garanzie per alcuni lavori, minori garanzie per altri)[7].

Difatti, i lavoratori vengono spesso esposti a pericoli agro tossici per chi lavora le terre, ad accettare salari e condizioni di lavoro inferiori alla media, o nelle industrie dove le garanzie spesso sono inesistenti e dove si viene spesso sottoposti ad una totale esposizione ad agenti chimici dannosi.

La scelta della collocazione del sito e l’uso del territorio in definitiva avvengono su parametri discriminatori, e le comunità, come detto precedentemente, vengono troppo spesso esclude dai processi decisionali.   Per dirla alla Bullard, le decisioni che vengono prese in campo ambientale molte volte riflettono gli accordi di potere della società predominante e delle sue istituzioni, questo discrimina le minoranze mentre offre vantaggi e privilegi per le imprese e gli alti nomi della politica. Siamo in continua esplorazione, come diretta conseguenza dell’esplorazione delle nostre terre, soffriamo un colonialismo industriale sotto la falsa riga dello sviluppo e una stigmatizzazione sociale che ci vede sempre privi di qualsiasi garanzia, che sia essa sul lavoro, sulla salute e sul diritto naturale di vivere il proprio territorio; è a tutte queste mancate forme di democrazia che opponiamo la lotta nei movimenti, attraverso la riappropriazione dei territori – contro l’instaurazione di impianti di distruzione ambientale, democrazia reale e partecipata.

Dal micro al macro: specificità ed interconnessione delle lotte

Le varie situazioni di sfruttamento che si manifestano sul nostro territorio ci hanno permesso in definitiva di mettere per iscritto non solo una narrazione di quello che è avvenuto ma soprattutto un continuo interrogarci su quali siano stati  i reali momenti di democrazia partecipativa in un ottica autonoma; ovviamente in più di un decennio gli attacchi al territorio sono stati continui e di sicuro ne vedremo degli altri, ma le nostre risposte stanno nel tentativo, non sempre riuscito, di trovare comunque una lettura spendibile,  attuale ed attuabile nelle pratiche.

Avviandoci verso la conclusione, come afferma Boaventura de Sousa Santos[8] intendendo il sud non in termini geografici, ma come metafora per indicare chi più subisce gli effetti del capitalismo, partendo dall’esperienza cognitiva, bisogna arrivare a  quelle forme di sapere  non  disciplinari, non prodotte nelle «istituzioni>>, creando un linguaggio comune dal basso e in contrapposizione a quello dell’immaginario dall’alto. E nell’affrontare le problematiche relative al Sud, prima di inserirci in un’ottica generale ed univoca riteniamo che in un quadro di macrocosmi  esista una infinità di microcosmi tutti infinitamente distinti tra di loro e se questa differenza spazio-temporale richiama la differenza all’interno del Sud,  la dimensione dei conflitti globali si impone sempre più nell’esigenza e nella caratterizzazione delle condizioni politiche specifiche, trovando infine, un interconnessione con le altre lotte, che non si rinchiuda in un momento di “intrattenimento intellettuale” ma che abbia l’unica funzione di far convergere tutti i movimenti sociali in un’unica direzione.

E con questi presupposti che volgiamo lo sguardo oltre i confini del micro, in particolare alla vicenda dell’Ilva di Taranto, dove la produzione capitalistica si è dimostrata incompatibile con la salute e la difesa dei beni comuni, dove ancora una volta lo stato di bioprecarietà accresciuto dalla crisi crescente e dalle manovre di austerity attuate dalla governance nazionale e transazionale, dove l’impossibilità di avere il lavoro e le garanzie sulla propria salute sia degli operai che degli abitanti dell’area, hanno portato a fare emergere tutte le contraddizioni dell’ottica laburista. Resta quindi assodato che scongiurare nuovi episodi sulla stessa impronta di Taranto è possibile soltanto se venga rifiutato il culto del Lavoro e dello Stato officiato in primis dalla Sinistra istituzionale. Va, inoltre, accresciuto e consolidato un welfare state (reddito indiretto) e la possibilità che ogni individuo ( e non cittadino ) ne attinga  in termini di incondizionatezza ed universalità.

Nulla di nuovo, semplicemente ordire i fili delle nostre esperienze, per rendere praticabile e praticare conflitti, per non rimanere a mani vuote.

 


[1] http://temporosso.org/2012/04/13/laboratorio-caleno-la-vitalita-dei-movimenti-e-il-nulla-delle-istituzioni/

[2] http://retecalenabenicomuni.org/2012/08/02/sparanise-cronologia-di-un-disastro/

[3]Dreyfus H.L. e Rabinow P., La ricerca di Foucault, postfazione 1, Foucault M., il soggetto e il potere, perché studiare il potere: questione del soggetto, ed. ponte alle grazie,firenze,  1989, p.237-256.

[4] http://retecalenabenicomuni.org/documenti/

[5] http://temporosso.org/2012/04/18/rogo-di-rifiuti-a-bellona-ennessimo-disastro-per-lagro-caleno/

[6] http://www.ejrc.cau.edu/ejinthe21century.htm

[7] Por Robert Bullard – Sociólogo e Diretor do Environmental Justice Resource Center Fonte: Revista Eco 21, ano XV, Nº 98, janeiro/2005.

[8] SOUSA SANTOS B,  MENENES M.P. (a cura di),Epistemologias do Sul, Revista Crítica de Ciências Sociais, 80, Março 2008: p.5-10.

 

 

 

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