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Per un governo decoloniale. Malcolm X e gli Indigènes de la république

 

di MATTHIEU RENAULT

Su Bouteldja, H., Khiari, S. Nous sommes les Indigènes de la république. Paris : Amsterdam, 2012 ; Khiari, S. Malcolm X. Stratège de la dignité noire. Paris : Amsterdam, 2013.

“I colonizzati dall’interno”: una questione di strategia

Quando qualche mese fa è stata annunciata l’imminente pubblicazione di un saggio su Malcolm X ad opera di Sadri Khiari (da ora in avanti MX) per le Éditions Amsterdam, ci è immediatamente sembrato opportuno mettere a confronto questo testo con le tesi e le posizioni espresse dal movimento, nato nel 2005 e trasformatosi in partito nel 2010, degli Indigènes de la république (PIR), di cui il nostro autore è uno dei membri fondatori, nonché una delle sue firme più importanti, e su cui, nell’autunno del 2012, era stata già pubblicata dalla stessa casa editrice una raccolta di articoli e di interventi, accompagnati da una lunga intervista, con il titolo Nous sommes les Indigènes de la république (da ora in poi abbreviato NSIR). La questione più importante da sollevare ci sembrava la seguente: in che misura e in quale maniera i movimenti radicali neri americani costituivano una fonte di ispirazione e di riflessione per il PIR? Porre tale questione, semplice e all’apparenza scontata, ci sembrava tuttavia essere un modo di dare un po’ di respiro al pesante dibattito che circondava gli Indigènes de la république liberando, anche solo momentaneamente, la questione della “Francia postcoloniale” dalla prospettiva e dal lessico attraverso cui è generalmente formulata e in parte rinchiusa.

A tale domanda, la raccolta degli Indigènes forniva già degli elementi di risposta, sebbene allora si trattasse principalmente di prendersi gioco dell’appropriazione gauchiste, così come era già avvenuto in Francia per movimenti come quello delle “Pantere nere” (percepito esclusivamente come «organizzazione marxista-leninista e simpatizzante maoista»), piuttosto che di rintracciare una filiazione positiva o di indicare delle affinità elettive. Resta che questa pista sembrava molto promettente. Ora, non possiamo fare a meno di confessare che, in un primo momento, la lettura del Malcolm X di Sadri Khiari ci ha lasciati perplessi riguardo alla fondatezza di tale quesito; non tanto perché ne avrebbe rivelato la vacuità, ma al contrario perché la correlazione era così manifesta e così esplicita che pretendere di svelare delle “relazioni nascoste” era semplicemente assurdo. Khiari lo sostiene del resto già nella sua introduzione:

«In effetti sono convinto che l’esperienza del movimento nero americano e, più in particolare, le lezioni e le questioni che ne ha tratto Malcolm, possono essere di grande interesse proprio per le nostre battaglie in Francia. Molto di più dell’esperienza delle lotte anticoloniali nelle ex colonie. Con i neri americani noi condividiamo una storia e un presente, una storia che è sempre il nostro presente […]. Noi siamo dei “colonizzati dall’interno”, degli indigeni della repubblica (des indigènes de la république), come diciamo noi in Francia» (MX, pp. 13-14).

Come aggiunge Khiari, vi è «identità sostanziale – nel senso forte del termine – tra i Neri americani e le popolazioni che vengono dall’immigrazione […]. Se questo libro fallisce nel far percepire questa omologia, è di conseguenza un cattivo libro» (MX, pp. 13-14). Instaurare un dialogo tra le situazioni e le battaglie politiche del «mondo nero americano» e del «neo-indigenato francese», è questo l’obiettivo che Khiari si pone lungo tutto questo suo lavoro – e rispetto a ciò si può ben dire “missione compiuta”. Per quel che ci riguarda, ci potremmo pure fermare qui per evitare di cadere in seguito nella parafrasi.

Ma se dovessimo pur tuttavia ritenere utile di dire qualcosa in più, troveremmo che il libro di Khiari non è soltanto uno studio delle «problematiche strategiche» sviluppate da Malcolm X (strategie che si potrebbe tutt’al più «mettere a confronto» con quelle adottate dal PIR), ma che partecipa esso stesso, per così dire come momento teorico, allo sforzo di costruzione di una strategia politica. Da questo punto di vista, se questa interpretazione è profondamente nutrita e informata delle esperienze di lotta e di riflessione condotte dal 2005 dagli Indigènes de la république, essa può essere concepita anche come un “passo in avanti” nello sviluppo della strategia decoloniale del PIR. Ora, ci sembra che questo passo in avanti sia determinato dall’approfondimento e dall’acuirsi di un problema divenuto fondamentale (almeno) dalla trasformazione del movimento degli Indigènes de la république in partito. Questo problema non è altro che il problema del potere, problema eminentemente politico che non può non disturbare e disorientare chi preferisce affrontare gli Indigènes solo sui terreni della cultura, del postcoloniale e della razza… per potere più agevolmente rimproverargli il loro “culturalismo”, il loro “postcolonialismo” e il loro “razzialismo”. È proprio questa problematizzazione del potere che ci proponiamo qui di indagare per aprire un’altra riflessione, e non certamente per chiuderla, cosa che ci riporterà alla nostra domanda iniziale nella misura in cui rendere conto delle strategie politiche di Malcolm X significa per Khiari analizzare come sono state pensate le condizioni di formazione di un potere nero (Black Power) al fine di contribuire così alle riflessioni strategiche sull’emergenza e l’organizzazione di un potere indigeno (decoloniale).

La razza è il potere

Il problema del potere non è in realtà mai stato assente dalle preoccupazioni degli Indigènes de la république. Al contrario, dalla nascita del movimento, gli Indigènes in un certo senso non hanno mai smesso di affermare che «la razza è il potere», formula ambivalente che abbiamo coniato e che ci proponiamo adesso di esplicitare. Se la razza è il potere, è soprattutto perché le razze non sono nient’altro che l’effetto di un rapporto di forze, di una relazione di potere; come agli Indigènes piace ricordare, sono delle razze sociali. Quando Sartre affermava che da più di sessant’anni «è l’antisemitismo che produce l’ebreo», questo significava per lui (e più generalmente per quelli che, all’indomani della Seconda Guerra mondiale, si apprestavano, sotto l’egida dell’UNESCO, a partecipare alla lotta contro il razzismo) che «non vi è alcuna razza, ma solo razzismo». Quel che sostengono gli Indigènes, che corrisponde a quella che era la posizione di Fanon, è che vi è del razzismo proprio perché c’è la razza. Certo, la «spaccatura razziale» non presuppone i termini che divide, ma li produce in tutto e per tutto; il suo modo di produzione è la razzializzazione, la quale non può mancare di riguardare in egual modo i due termini della spaccatura, cosicché non vi è alcuna ragione di agitarsi se gli Indigènes utilizzano la categoria “Bianchi” qualora si consideri legittimo che essi parlino pure di “Arabi” e di “Neri” – come se si dicesse (e talvolta del resto lo si sottintende): «sì, parliamo di proletari, ma non pronunciamo mai la parola “borghese”» (rischierebbe di shockare). Si potrebbe persino arrivare ad affermare che, per gli Indigènes de la république, le razze sono il rapporto razziale del potere stesso; visto che, almeno sulla carta, la soluzione non sarebbe complicata: eliminate questo rapporto di potere, e il problema della razza sparirà da solo; cosa che implica, negativamente, che là dove c’è razzismo non si può pretendere che esso sia puramente “gratuito”, libero da ogni privilegio sociale. Che non ci siano razze se non all’interno dei rapporti di potere è ugualmente testimoniato dalla prospettiva di resistenza degli Indigènes: «Per il PIR, la razza esiste, le razze sociali esistono. La prova è che esse lottano» (NSIR, p. 379).

Che altro dire se non che piuttosto di indugiare all’infinito sui meandri dell’immaginario razziale (NSIR, pp. 282-306), sull’ambivalenza delle rappresentazioni del Nero, dell’Arabo, del (post-)colonizzato attraverso la storia, è ben più urgente interrogare e combattere i rapporti ineguali di potere che costituiscono le loro condizioni di esistenza? Il problema degli approcci «spirituali» nei confronti della razza risiede nel fatto che, pur concedendo senza grande difficoltà che le categorie razziali e i loro attributi affondino le loro radici in esperienze molto concrete di dominazione (schiavitù e colonizzazione, per dirla in modo semplice), tali approcci tuttavia presuppongono generalmente che queste categorie siano successivamente suscettibili di avere una vita indipendente, di crescere e di riprodursi autonomamente, in modo tale che la principale posta in gioco diventa quella di lottare contro queste «false idee», lotta che deve essa stessa situarsi su un piano essenzialmente ideale. Ora, dire che la razza sia (l’effetto di) un rapporto di potere significa semplicemente assumere la prospettiva opposta a questo approccio; significa affermare la primordiale materialità della razza, una materialità che, bisogna ancora ricordarlo, non ha nulla di biologico-corporeo e di per se stessa non è nient’altro che conflitto; una materialità che, in controcorrente rispetto alle idées reçues, disloca il problema della razza su un terreno che a priori è molto più sgombro da ogni fantasma razziale rispetto a quello che investono le critiche della “razza immaginaria”.

Il problema consiste sicuramente nel fatto che disfare i rapporti razziali di potere (distruggerli, invertirli, sovvertirli, poco importa in questo frangente la formulazione esatta) è un compito per lo meno complesso e di ampio respiro. Si tratta del fatto che questi rapporti di potere sono intrinsecamente dei rapporti tra poteri; più precisamente, essi sono, in un primo tempo (che può durare molto a lungo) dei rapporti tra un potere, il potere bianco, e un non-potere (indigeno); dei rapporti dunque di dominazione in un senso molto classico, e a dire il vero poco in voga negli ambienti accademici. Ma che cos’è il potere bianco e come si esercita? Gli Indigènes fanno a gara per ripeterlo: il potere bianco, è l’insieme dei privilegi di status garantiti ai Bianchi in quanto Bianchi e tali da assicurare loro una superiorità (economica, politica, culturale, ecc.) sui non-Bianchi. È un potere che produce la supremazia bianca riproducendone indefinitamente la gerarchia razziale (NSIR, p. 274). È un potere che, infine, non si perpetua se non nella misura in cui esso s’incarna nelle strutture politiche, le quali non sono nient’altro che strutture statali, da qui la necessità di sostituire all’antirazzismo «moralista e umanista», che riconduce immancabilmente il razzismo a un problema individuale di «mentalità», un antirazzismo politico in lotta contro quel che bisogna davvero chiamare un razzismo di Stato.

Non crediamo tuttavia che, venendo meno il potere razziale, ognuno si getterebbe tra le braccia del suo prossimo con uno spirito di riconciliazione libero da ogni risentimento. No, ci sarebbe certamente ancora, e per un lungo periodo di tempo, ogni sorta di pregiudizio e di stereotipo, forse del rancore e dell’odio; ma non si tratterebbe più di razzismo in senso proprio. Perché? Semplicemente perché parlare di «razzismo senza potere» è una contradictio in adjecto. E perché la nozione di razzismo antibianco è priva di ogni tipo di senso:

«Quando un Arabo dice “I bianchi sono tutti dei bastardi”, lo si considera come razzismo allo stesso titolo di quando un Bianco che dice “Tutti gli arabi sono dei bastardi”. Questa comparazione mostra fino a che punto la gerarchizzazione tra Bianchi e non-Bianchi sia celata. Con tutta evidenza, essi non sono per nulla uguali poiché con i primi sta la potenza politica dello Stato e con gli altri la sola forza delle sue sparute resistenze e arrabbiature. Per questa ragione non può esistere un razzismo antibianco» (NSIR, p. 342).

Sadri Khiari non manca di proseguire questa analisi nella sua interpretazione di Malcolm X, che più d’una volta ha dovuto subire le accuse di razzismo antibianco. Certo, egli non ha mai cercato di mascherare «l’odio verso i Bianchi» che l’animava, comunque non lo difendeva certo con «l’incoraggiare alcun tipo di razzismo anti-Bianco» (MX, p. 42): «Malcolm sa che interpretare secondo le stesse categorie, il discorso dell’oppressore e il discorso dell’oppresso, anche quando si assomigliano come due gocce d’acqua, ha un significato solo dal punto di vista dell’oppressore» (MX, p. 43). Se vi è un razzismo nero contro cui bisogna lottare è piuttosto quello che produce «l’odio nero del Nero», l’odio del dominato «verso se stesso e i suoi simili», un odio che deriva dalla «mediazione d’un potere reale, quello che il Bianco esercita su di lui» (MX, p. 47). Come afferma lo stesso Malcolm X, l’odio del Bianco di per sé non è altro che «la reazione di un essere umano che cerca di difendersi e di proteggersi» (MX, p. 43); è la reazione di un uomo che cerca di divincolarsi maledicendo chi cerca di prenderlo (MX, p. 45): «Mi piacerebbe sapere – egli continua – in che modo l’uomo bianco, che ha tra le sue mani il sangue del popolo nero, possa avere l’audacia di chiedere ai Neri se essi lo odiano. È veramente esagerato»  (MX, p. 43).

Da questo punto di vista, secondo Malcolm X, l’odio verso il Bianco è, a tutti gli effetti, proprio di un «potere di resistenza», un contro-potere opposto al potere bianco, fosse pure «contaminato, come ogni contro-potere, dallo stesso potere contro il quale si oppone» (MX, p. 45). Dovendo restare prudenti e non convertire le affinità (tra le posizioni degli Indigènes de la république e le interpretazioni proposte in Malcolm X) in identità, resta tuttavia che il passaggio da una negazione critica della nozione di razzismo antibianco – rigettata in quanto non-senso – verso l’affermazione di un (contro-)potere dell’odio – che in Malcolm X assurge a vera e propria «utopia di liberazione» (MX, p. 49) – si rivela decisiva nella riflessione strategica portata avanti dagli Indigènes in vista della costituzione di un potere decoloniale.

Il potere (di agire) indigeno: a proposito dell’autonomia

Non è dunque sufficiente dire che le “relazioni razziali” sono il prodotto di rapporti di potere; bisogna aggiungere, che dal punto di vista degli Indigènes, la lotta delle razze sociali è immediatamente una lotta per il potere. Questa lotta non è tuttavia una lotta per la conquista di un potere concepito semplicemente come qualche cosa che si ha o che non si ha, qualche cosa che sarebbe data e definita in anticipo e che “basterebbe” prendere (allo stato attuale) ed esercitare. Non ci può essere alcuna questione in una situazione in cui «il carattere essenziale dell’indigenato è l’essere spossessato di ogni potere politico: è l’esclusione dal campo politico, dai suoi meccanismi, dalla definizione delle sue norme e delle sue istituzioni» (NSIR, p. 224). Per coloro che ne sono fondamentalmente privati, il potere è innanzitutto qualcosa che bisogna creare per così dire ex nihilo, che bisogna costruire, che bisogna pure (re)inventare in funzione dei rapporti di forza effettivi. Per gli Indigènes non si tratta certo di rifiutare le configurazioni embrionali di questa forma di “agency”, dovessero pure assumere la forma dell’odio, con la motivazione che i gruppi il cui potere è già istituito (anche quando essi non sono “al potere”) le giudicherebbero non convenienti.

Quindi è come processo, o più esattamente come una potenza che può crescere o diminuire, che deve essere concepito il potere indigeno. Molto di più che sostantivo, questo potere è innanzitutto verbo; la strategia del PIR è in un certo senso retta da un interrogativo che è centrale: «noi cosa possiamo?». La risposta a tale domanda non può essere fornita senza la rivendicazione e l’espressione di un potere di agire a proprio nome, che si rappresenta in primo luogo come potere di parlare, potere di dir-si, potere di nominar-si. Com’è testimoniato dall’Appello del movimento: «Noi siamo gli Indigènes de la république!» e come è ugualmente testimoniato dal percorso di Malcolm X che, dopo aver aderito alla Nation of Islam (NOI), si libera del cognome ereditato dal padrone bianco per adottare la «famosa “X” anonima, il nome di chi non ha nome»  (MX, p. 25); una «cura per l’auto-designazione» che per lui riguarda nondimeno «i Neri come entità collettiva»: ripudiando il termine «Negri» (Negroes), che riserva a quelli che chiama «Oncle Tom», Malcolm X vi contrappone quello di «Neri» (Blacks) prima di rimpiazzarlo a sua volta con quello di Afro-americani (Afro-Americans). Ora, quello che sostanzialmente è qui in gioco, e più generalmente quello che è in gioco in questo desiderio di conoscer-si e/per riconoscer-si, è la ricerca di una dignità che è al cuore del progetto politico di Malcolm X e che si identifica con lo stesso potere nero:

«La dignità nera è nel cuore delle masse nere, come lo è nelle loro azioni. È condizione della resistenza nera quanto ne è anche motivo e fine. La dignità è il motore dell’azione, è uno scopo che si raggiunge nell’azione, è lo scopo dell’azione […]. Volendo riassumere in una frase cosa si proponeva Malcolm X, si potrebbe dire: la dignità è il potere nero» (MX, p. 37).

Questa dignità in quanto potere, si trova nondimeno al cuore delle preoccupazioni e delle rivendicazioni degli Indigènes de la république: «quello che ci contraddistingue è la nostra determinazione a restare sul terreno politico e su quello della dignità umana» (NSIR, p. 313). Che questo però non tragga in inganno, visto che questa dignità non è, nei termini di Fanon, «la dignità della “persona umana”» astrattamente considerata (un’astrazione che, singolarmente, è rivestita del colore bianco). La dignità umana degli Indigènes, la loro «eguale dignità», deve innanzitutto essere una dignità indigena, una dignità che si afferma anche a partire da quel che il razzismo si accanisce maggiormente a svalutare e a demonizzare; in tal senso, questo costituisce in grande misura il perché l’islamofobia sia ai nostri giorni l’arma più temibile del razzismo, e l’islam sia diventato a pieno titolo un elemento centrale nella ricerca della dignità.

Se gli Indigènes si rivelano così intransigenti verso l’«anti-razzismo universale» (il «tradizionale anti-razzismo della sinistra») e le strategie integrazioniste che lo accompagnano come il proprio doppio, è proprio perché questi hanno agito incessantemente per contenere il potere degli “indigeni”. L’esempio più tangibile è certamente quello del famoso slogan di SOS Racisme: «Non toccare il mio amico» (Touche pas à mon pote): «esso mette in scena un Bianco che parla a un altro Bianco. È un Bianco-non-razzista che parla a un Bianco razzista dicendogli: “Non toccare il mio amico arabo o il mio amico nero”. In questa discussione l’“indigeno” è colui che non è attore della propria vita» (NSIR, p. 128). Aggiungiamo che se la situazione dovesse degenerare, questo «amico» potrebbe forse sostenere colui che lo difende… ma che non si azzardi a prendere iniziative di autodifesa, non gli si perdonerebbe di essere capace di determinare, egli stesso, cosa sia meglio per lui. Alla stessa maniera, senza negare in alcun modo l’importanza della lotta dei sans-papiers, gli Indigènes non esitano così a sottolineare che il loro successo non è estraneo al fatto che questa lotta riguarda una popolazione caratterizzata da un’estrema “vulnerabilità”, la quale, avendo poca altra scelta, si trova ad accettare le condizioni definite da chi li difende.

Quello che gli Indigènes rimproverano alla sinistra e all’estrema sinistra francese è dunque di non essere mai arrivate a superare l’atteggiamento paternalistico che fa degli “indigeni” delle “vittime”, di non avere mai accettato che essi possano essere a pieno titolo dei soggetti politici; è insomma di aver operato un assai problematico silenziamento delle lotte “indigene” indipendenti. «Se volete battervi, ci viene detto, fatelo nel perimetro della grande casa della sinistra. Non arriveremo ad aggiungere che a sinistra ci hanno sempre riservato le stanze della servitù» (NSIR, p. 351). Da qui si arriva alla questione fondamentale dell’autonomia delle lotte indigene che è inscindibilmente autonomia del PIR rispetto al «campo politico bianco»:

«Si tratta di un’autonomia politica che bisogna comprendere come autonomia della problematica portata avanti dal movimento in quel che essa riflette della singolarità delle discriminazioni che subiscono i post-colonizzati. L’autonomia rinvia dunque all’oppressione specifica che unifica queste popolazioni e surdetermina i loro rapporti con gli altri antagonismi che li attraversano nella stessa misura in cui essi spaccano la società nel suo insieme» (NSIR, p. 73).

Diciamo così, l’autonomia è allo stesso tempo condizione di possibilità ed espressione del potere indigeno in quanto potere di agire collettivo: «la nostra autonomia consiste nel rivendicare innanzitutto e soprattutto le nostre proprie lotte» (NSIR, p. 36). «Autonomia» significa dunque niente di meno che la «conquista da parte degli indigeni della loro liberà di pensiero, di decisione e di azione» (NSIR, p. 254). A questo riguardo, le accuse di «separatismo» che sono regolarmente (e assai ripetitivamente) arrivate a opporsi a una tale esigenza di autonomia sono però portatrici di una logica fallace: confondono la possibilità (il potere) e il fatto. Questo perché l’autonomia non è nient’altro che il potere di determinarsi da sé, il potere di “separarsi”… ma anche il potere di non farlo. L’autonomia, non è la negazione dell’alleanza, è il suo limite (NSIR, p. 35).

È esattamente proprio quello che dice Malcolm X ai tempi in cui la parola «separatismo» aveva un significato molto più concreto di oggi, quando essa non è che un sostituto della nozione vaga e politicamente strumentalizzata di «comunitarismo». Quello che in un primo momento aveva difeso Malcolm X, come membro della NOI, è una strategia separatista nel senso della conquista di un territorio proprio sotto la forma di uno Stato separato all’interno degli Stati Uniti (una separazione la cui idea era stata ugualmente sostenuta dal Partito Comunista americano). Se la separazione non è mai realmente stata «pensata come una prospettiva che si tratterebbe davvero di realizzare» (MX, p. 76), resta che questa prospettiva si è comunque rivelata fondamentale per la genesi del «principio dell’autonomia politica nera». In effetti, è lo sforzo per risolvere le aporie di separatismo, senza rinunciare alla sua ispirazione liberatrice, che permette [a Malcolm] di oltrepassarlo» (MX, p. 77). La soluzione, la «strategia alternativa al separatismo», è per lui la formazione di un «potere politico autonomo»: «un potere nero nel contesto stesso degli Stati Uniti». Ne risulta la seguente definizione di indipendenza: «Quando siete indipendenti da qualcuno, potete separarvi da lui. Se non potete separarvi da loro vuol dire che non siete indipendenti da loro». E Khiari da ciò conclude, con delle parole che valgono nondimeno per gli Indigènes de la république: essere indipendenti, essere autonomi, significa molto semplicemente «prendere possesso del proprio destino collettivo» (MX, p. 78).

Conclusione : un governo decoloniale

A partire da queste «premesse», e solo a partire da esse, può aprirsi l’orizzonte di una conquista del potere nel senso oggi più comune: «noi non vogliamo più essere al di fuori della politica, noi non vogliamo più che si decida a posto nostro, noi vogliamo prendere parte al potere per impegnare questo paese in una politica decoloniale» (NSIR, p. 260). Prendere parte al potere, questa è la posta in gioco che ha presieduto alla trasformazione del movimento degli Indigènes de la république in partito politico. Da allora si tratta di «andare alla conquista […] di un potere da cui siamo esclusi» (NSIR, p. 307), di «essere parte in causa del potere» (NSIR, p. 321), di essere «nel cuore stesso del potere» (NSIR, p. 323), di «costruire una forza politica organizzata, rappresentativa, potente, in grado di avere accesso al potere» (NSIR, p. 319). In altri termini, si tratta di stare all’interno del potere costituendovi un «contro-potere autonomo» che rompa con i «processi di riproduzione dei rapporti razziali» (NSIR, p. 395) ; essere dentro il potere per sostituire al «potere di riproduzione della gerarchia razziale» un « potere che, al contrario, distruggerebbe questa gerarchizzazione razziale» (NSIR, p. 274) ; essere all’interno del potere per decolonizzare il potere. Ma questo non può realizzarsi da solo, visto che l’orizzonte di riferimento non può non essere il seguente: «autonomia politica e organizzativa indigena, alleanza con le forze non indigene che integrino la questione decoloniale con quella antirazzista» (NSIR, p. 362). L’obiettivo degli Indigènes de la république è in definitiva quello della formazione di un governo decoloniale (NSIR, p. 320).

* Traduzione di Orazio Irrera. Pubblicato originariamente in ContreTemps Web.

 

 

 

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