Piazza Tahrir nella valle del Po – Le lotte nel polo logistico di Piacenza


  04 / 11 / 2012

di CARLO PALLAVICINI

1. La logistica. La modificazione delle forme di mercato e, quindi, del rapporto tra domanda e offerta, tra consumi e produzione, che si è generata con il sopravanzare del postfordismo ha determinato la ricerca ossessiva di una riduzione di costi e tempi delle singole fasi del processo produttivo. Inoltre, ed è ciò che ci interessa maggiormente, essa ha orientato lo sguardo verso componenti apparentemente esterni alla produzione fordista. Ciò ha permesso lo sviluppo e l’affermazione della logistica intesa sia come nuovo ramo della “economia industriale”, sia come segmento di produzione di servizi all’interno dell’industria dei trasporti. Il termine logistica indica il sistema di gestione del flusso di sempre più complessi spostamenti di persone e merci incorporati all’interno del sistema produttivo. Nella realtà, tuttavia, la logistica risulta essere allo stesso tempo produttore e ri-produttore del processo di creazione di profitto, caratterizzato nella nostra fase storica da radicali mutamenti nell’organizzazione del lavoro.

Tutto ciò che definisce l’era dell’accumulazione flessibile, come l’impresa a rete o il decentramento produttivo, sarebbe impossibile senza la logistica, cioè senza la pianificazione di collegamenti fisici e informativi tra i nodi delle reti e un’efficace distribuzione delle merci. La logistica si presenta come un “riduttore” di ciò che intercorre tra produzione e consumo, come prestazione, bene effimero e “non conservabile” che scandisce i tempi di “vita” dei prodotti, in chiara contrapposizione con i grossi stoccaggi di scorte tipici delle economie di scala fordiste. Il grado di evoluzione del sistema logistico può essere un indicatore importante del livello tecnologico di un’impresa. L’esempio più calzante è quello dell’industria dell’abbigliamento, che sforna prodotti low tech ma li distribuisce con sistemi logistici high tech, ponendosi così all’interno dei settori innovativi (in modo meno marcato si può dire che ciò valga anche per i comodini di IKEA).

La logistica contribuisce alla riconfigurazione del territorio attraverso la specializzazione di alcune aree in zone d’insediamento privilegiato delle installazioni per la logistica (ad esempio magazzini-hub per lo stoccaggio e la distribuzione su un’area continentale o macro regionale). La pressione globale della competizione impone una scomposizione dei cicli produttivi che li indirizza a dislocare la produzione in aree a basso costo di manodopera e a condizioni di tipo normativo e fiscale meno stringenti (si pensi alla FIAT in Serbia). Questo schema è completato dalla migrazione dei centri di distribuzione, che si spostano in prossimità dei clienti finali. Si configura in questo modo una certa concentrazione dell’innovazione tecnologica nei punti di snodo dell’economia globale, cui consegue un significativo abbattimento dei costi derivante dall’ottimizzazione del capitale fisso, che dipende a sua volta dalla qualificazione degli addetti e, soprattutto, dalla qualità dell’organizzazione umana. In effetti, come va speso tempo d’investimento per trasformare il denaro iniziale in mezzi di produzione e forza-lavoro, così va dedicato tempo di vendita per le merci prodotte ed il tempo complessivo necessario a queste due attività supplementari alla produzione diretta, che si distinguono da essa perché improduttive di pluslavoro, è denominato da Marx tempo di circolazione. Sommandosi al tempo di produzione, il tutto costituisce il tempo di rotazione del capitale, che misura quanto tempo è necessario affinché un certo denaro anticipato alla produzione si trasformi in maggior denaro capace di ricominciare un altro ciclo di valorizzazione. Si comprende immediatamente come la lunghezza di questo tempo di rotazione condizioni il numero delle volte in cui un capitale può ripetere il suo percorso di valorizzazione entro una certa unità di tempo (Marx forniva l’esempio di un anno, oggi forse un giorno sarebbe un’unità di misura più consona). E si capisce altrettanto bene come la massa del plusvalore realizzabile, supponiamo, annualmente dipenda da questa sua velocità che è misurata dal coefficiente di rotazione. Come spiega esattamente Friedrich Engels in un intero capitolo da lui interpolato nel terzo libro del Capitale in merito al rapporto tra saggio del profitto e rotazione del capitale: posto che «la massa del plusvalore acquisita nel corso dell’anno è eguale alla massa del plusvalore acquistata in un periodo di rotazione del capitale variabile moltiplicata per il numero delle rotazioni compiute nell’anno», allora, «perché la formula del saggio annuo del profitto possa essere veramente esatta, dobbiamo sostituire al saggio semplice del plusvalore il suo saggio annuo, in altri termini il saggio del plusvalore deve essere moltiplicato per il numero delle rotazioni del capitale variabile nell’anno».

2. La conflittualità dei facchini. Le relazioni industriali nella logistica ricadono all’interno del lavoro cooperativo, attraverso il meccanismo di appalti nella gran parte dei casi al massimo ribasso. La legge di riferimento in materia di cooperazione rimane la 142/2001, che interpreta il rapporto mutualistico fra soci delle cooperative come prestazione di attività lavorative. Stando alla legge, i soci: a) concorrono alla gestione dell’impresa partecipando alla formazione degli organi sociali e della struttura di direzione, b) partecipano all’elaborazione di programmi di sviluppo, c) contribuiscono alla formazione del capitale sociale e partecipano al rischio d’impresa nonché ai risultati economici. La legge chiarisce anche che il socio ha con la cooperativa sia un rapporto associativo che un rapporto di lavoro vero e proprio (subordinato, autonomo o coordinato non occasionale), regolato dallo statuto interno in maniera non peggiorativa rispetto alla contrattazione collettiva nazionale.

Per arrivare al tema delle conflittualità nelle cooperative del settore logistica, può risultare significativa l’analisi dei dati raccolti dall’Osservatorio provinciale permanente sulla cooperazione di Parma: nel 2009 su 89 società controllate solo una era in regola; le sanzioni si aggiravano intorno ai 176mila euro, mentre nel 2010 sono stati raggiunti numeri da record: 490mila euro. Le cooperative sanzionate lavoravano nei settori di edilizia, facchinaggio, logistica e, seppur in misura minore, metalmeccanica.

Tale tendenza è confermata da uno sguardo più allargato sull’area della pianura padana, dove, inevitabilmente, stanno iniziando a manifestarsi fenomeni di lotta operaia che prendono spunto, ancor prima che da un richiamo all’applicazione o al miglioramento dei contratti, dall’esasperazione dei lavoratori immigrati derivante dai carichi di lavoro e dai maltrattamenti di cui sono spesso oggetto da parte di aziende e figure “responsabili” del personale.

Ma chi sono i giovani facchini che hanno prodotto le mobilitazioni degli ultimi anni (solo per citarne alcune: Esselunga di Pioltello, Il Gigante di Basiano, TNT, GLS e IKEA a Piacenza)? Al 95%, parliamo di manodopera immigrata, quindi facilmente ricattabile (agendo anche sulla leva del permesso di soggiorno) e spesso separata dal rispetto dei (pessimi) contratti anche dalla barriera linguistica. La maggioranza è araba: il richiamo alla primavera araba è perenne nelle mobilitazioni. L’immaginario da “guerra di liberazione” ha sedimentato in questi ragazzi. Non solo: così come affermatosi nella percezione di tanti giovani italiani, a maggior ragione nella manodopera immigrata non vi è identificazione con quel “patto sociale” fra le classi che storicamente aveva permesso “l’ingresso della classe operaia nello stato”, indebolendone al contempo la politica rivendicativa. Ciò che ne consegue è un non sentirsi vincolati alla prassi degli ultimi vent’anni nella conduzione delle vertenze, una maggior combattività che va di pari passo con il maggior tasso di sfruttamento, un richiamo alla lotta che riemerge nonostante tre decenni di arrendevolezza confederale.

In tutti i focolai di conflitto esplosi negli ultimi due anni si evidenzia la presenza di alcuni tratti caratterizzanti che mancavano in Italia da qualche decennio: innanzitutto l’egemonia del sindacalismo di base (SiCobas nel nord-ovest, ADL nel nord-est), intervenuto in un contesto totalmente dimenticato dai sindacati confederali. In secondo luogo, la scelta di una modalità di protesta molto diretta e direttamente incisiva sul fatturato d’azienda come il blocco all’ingresso delle merci. Infine, è da registrare una particolare recrudescenza nell’intervento delle forze dell’ordine, che ricorda le vicende classiche del movimento operaio che ha investito l’Italia negli anni ’60 e ’70, producendo un alto livello di conflittualità e purtroppo anche numerosi lutti fra gli operai scioperanti. Le violenze e gli arresti, pur creando smarrimento fra i lavoratori, non ottengono il risultato di una loro dispersione. Al contrario, e forse proprio per le particolarità illustrate poc’anzi, inizia a registrarsi una certa solidarietà attorno alla mobilitazione dei facchini.

3. IKEA e gli scontri di Piacenza. Arriviamo a IKEA e ai fatti del 2 novembre. Il polo logistico di Piacenza si sviluppa in una città che è naturalmente propensa all’insediamento logistico: la provincia di Piacenza presenta una collocazione geografica particolare nei confronti delle principali vie di comunicazione stradali, ferroviarie e fluviali (si tenga presente che quelle ferroviarie sono in fase di forte potenziamento), che le consente di svolgere una funzione di cerniera fra il sistema metropolitano milanese e centro-padano e quello ad industrializzazione molecolare dell’Emilia. I vantaggi di posizione non riguardano soltanto i collegamenti Nord–Sud, lungo l’asse della Via Emilia, ma anche Est–Ovest, in direzione della Liguria, del Piemonte, nonché, in prospettiva, della Francia meridionale e centrale da un lato, e di Verona, Mantova, Padova e l’Europa Orientale, dall’altro. La relativa vicinanza di un porto di rilievo internazionale come quello di Genova, costituisce un ulteriore importante vantaggio competitivo dato l’esaurirsi degli spazi retro portuali lungo la ristretta costa ligure, fattore che ha reso conveniente la creazione di centri di stoccaggio, smistamento e prima lavorazione delle merci in un’area relativamente distante ma vicina ai mercati di sbocco, quale quella piacentina.

IKEA si insedia a Piacenza nel 1999. La superficie a magazzino è di 312.000 MQ, acquisiti come proprietà diretta. Il numero dei dipendenti diretti è 269, cui si aggiungono gli addetti di cooperativa per un totale di 351 (totale addetti: 620). É difficile razionalizzare appieno quello che è accaduto la mattina del 2 novembre a Piacenza, ma non possiamo esimerci dal fare un tentativo.

Rewind: nei giorni precedenti i facchini di IKEA hanno picchettato e presidiato il magazzino della multinazionale svedese. Il motivo è la discriminazione sindacale di cui sono oggetto i lavoratori iscritti al SiCobas. Per 14 di loro si profilava il licenziamento. Una settimana di trattativa non ha ammorbidito né IKEA né il consorzio di cooperative CGS, a cui IKEA appalta il reclutamento di manodopera secondo la infame legge 142. Saltato ogni dialogo (per scelta dei datori), decidiamo di giocare la carta del tutto per tutto, l’unica speranza, da sempre, di ogni persona vessata dall’ingiustizia: la lotta. Alle 6 gli schieramenti sono in campo: reparti celere da Milano, polizia e carabinieri. Armi contro rabbia, vessazione contro dignità. Alle 9, le cose precipitano: le cooperative non tollerano il blocco all’ingresso dei camion (l’unico strumento efficace nelle lotte della logistica, come già appurato in passato), la polizia esegue. I lavoratori sono inermi a terra, abbracciati l’uno all’altro per non farsi spostare. Partono le prime manganellate, la polizia si accanisce in particolare contro tre facchini e contro due ragazze del NAP. La situazione rientra, si apre uno spiraglio: richiamato dalla gravità della situazione, arriva il sindaco Dosi. Elemento vicino alle cooperative, Dosi (sollecitato dai rappresentanti istituzionali di Rifondazione, il che, senza transigere dalla centralità assoluta dell’autodeterminazione delle lotte, dovrebbe comunque far riflettere sui possibili utilizzi che si possono fare della rappresentanza, in specie nelle piccole realtà dove può rivelarsi una funzione accessoria e propedeutica alle stesse) si vede obbligato a cercare una mediazione. Dopo le dichiarazioni imbarazzanti di supporto all’IKEA della settimana scorsa, possiamo dire che stamane ha avuto quantomeno il ruolo di essere riuscito a reperire il presidente del consorzio CGS. SI fissa l’appuntamento per le 3 del pomeriggio, sembra tornare la calma.

Qua, a nostro avviso, c’è stata una forzatura da parte della questura. Loro chiedevano di rimuovere il blocco fino all’incontro del pomeriggio. I lavoratori, sentendosi presi in giro da settimane ed esasperati, chiedevano di tenere il blocco fino all’inizio dell’incontro. Parte la seconda carica, ma questa volta è più grave. I lavoratori vengono manganellati duramente, parecchi studenti riportano ferite lacerocontuse. Veniamo spinti sulla strada principale, ma la polizia non è sazia. Piovono i lacrimogeni a grappolo. I compagni non mollano, cercano di difendersi come possono, inizia una lunga fuga. Blocchiamo le strade e percorriamo a ritroso il perimetro del magazzino. Un kilometro di corsa inseguiti dalla celere, fra mini-cariche e urla che rendono l’idea di certi elementi… “se fossimo negli anni ’30 vi manderemmo sotto un metro di terra!”. Non ci stupiamo, da chi si presenta a lavorare per lo stato con una catenina ornata da croce celtica. “Ne vuoi ancora merda rossa?”. E giù manganellate. Una vergogna, un livore ingiustificabili, anche a fronte del dramma umano di tanti lavoratori. Perché tanta foga? Perché le lotte degli ultimi due anni hanno sollevato un coperchio, sotto al quale ribolliva una situazione oggettivamente insostenibile. Vincere la vertenza a IKEA avrebbe un significato maggiore della semplice vittoria sindacale. Sarebbe il suggello a due anni di mobilitazioni e uno smacco per alcuni fra i più potenti “padroni della città”. Contrariamente, il “vecchio” sistema porrebbe un argine all’espansione a macchia d’olio di coscienza, lotte, diritti. Però, senza ancora avere una vittoria in tasca, possiamo dire che ancora una volta la lotta ha pagato. Il 2 novembre a quest’ora avevamo 14 licenziamenti e nessuna prospettiva. Ora siamo in trattativa. Sabato volantineremo in tutta Italia per smascherare l’effetto patinato della multinazionale tutta famiglia e home-comfort. E poi si prosegue. La lotta è dura, ed è di lunga durata.


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