Prime note per una inchiesta politica nel Mezzogiorno


  09 / 02 / 2012

di FRANCESCO MARIA PEZZULLI

Come articolare una inchiesta politica nel Mezzogiorno? Come far si che il momento conoscitivo non sia disgiunto da quello politico? Risposte preconfezionate non ce ne sono, il tema è quanto mai spinoso. Le note che seguono sono state elaborate nell’ambito del seminario di ricerca “New welfare per un Sud Comune”, tenutosi a Cosenza tra dicembre 2011 e febbraio 2012, che ha affrontato i temi chiave dello sviluppo capitalistico finanziario e delle potenzialità di lotta che si danno nel nuovo assetto. Il tema dell’inchiesta, approfondito criticamente durante una giornata dei lavori, è stato costante nel dibattito che ha percorso l’intero seminario. Una domanda rivoltaci più di una volta è stata la seguente: se l’inchiesta rappresenta un ambito dove sono tenuti assieme “produzione di sapere”, “produzione di soggettività” e “organizzazione politica”, quali potenzialità potrà mai questa esprimere in un territorio come il Mezzogiorno che da oltre mezzo secolo – esclusion fatta per i tumulti recenti – è refrattario all’azione collettiva ed alla lotta politica?

Dicevamo che non abbiamo risposte preconfezionate, quello che sappiamo però è che l’unica risposta possibile non è di tipo logico, ma pratico. Solo immergendoci nel lavoro d’inchiesta, facendogli muovere i primi passi, è possibile trarre risposte conseguenti: negarsi prima dell’esperienza è un atto di fede o una convinzione conservatrice. Per arrivare a Messene, come ricorda il vecchio sul ciglio della strada di Esopo, bisogna prima d’ogni considerazione iniziare a camminare.

Le note appresso riportate vogliono essere un incipit per il cammino, un riferimento iniziale per chi intende cimentarsi operativamente in un’inchiesta politica nel Mezzogiorno.

 

I. Il Mezzogiorno è globalizzato e neofeudale. Nella globalizzazione si usa dire tutto cambia ed assume un nuovo significato, ed anche il Mezzogiorno non fa eccezione a questa regola. Il Mezzogiorno è globalizzato in quanto inglobato in trame finanziarie, produttive e politiche che influiscono direttamente sulla vita dei meridionali.  Questo non significa che i “luoghi” non abbiano importanza in termini di influenza e di azione politica, solamente che non hanno nulla di “originario”, nessuna eredità culturale che li rende esterni ai processi politici sovranazionali. In altri termini, non esiste un Mezzogiorno “altro” dal capitalismo, esiste un capitalismo che “produce” le località meridionali, che ne ridisegna i poteri reali, le gerarchie, le identità e le differenze. I luoghi, e soprattutto i soggetti che li abitano, sono storicamente “modellati” e “ri-costruiti” da processi politici imposti a livello globale che, a seconda delle specificità contestuali, incontrano maggiori o minori resistenze. Bisogna evitare di cedere al fascino delle eredità culturali dei luoghi che abitano soggetti.

Il Mezzogiorno è “neofeudale”… quante volte è stato ripetuto! Nel primo meridionalismo si è parlato di neofeudalesimo per indicare lo stato feudale dei rapporti agrari nel sud al momento dell’unità nazionale. Nei decenni successivi, fino ad oggi, il concetto è stato più volte ripreso per indicare nuovi rapporti, tipi e modalità di dipendenza personale. Passare in rassegna le similitudini neofeudali dei poteri locali dal periodo unitario è utile perché offre un quadro di riferimento storico all’inchiesta politica che, di converso, si occupa prioritariamente dei cambiamenti intervenuti nel “potere di normalizzazione sociale” delle reti locali. Da questo punto di vista, l’attenzione va spostata sulle specificità del “processo di rifeudalizzazione” tipico della fase politica che stiamo vivendo; processo attorno al quale, come sottolinea Negri, «si costruisce un nuovo processo di valorizzazione che si giova della nuova base tecnologica (informatica, telematica, eccetera) e di una nuova forza lavoro mobile e flessibile e (a un tempo) matura e riflessiva, e soprattutto altamente cooperativa – allo scopo di frammentarla, gerarchizzarla, sottoporla al dispotismo della misura del capitale. “Rifeudalizzare” quello che è divenuto sempre più “comune”». Su questo punto è bene intendersi: per comune non intendiamo semplicemente i beni comuni naturali come l’acqua o i frutti della terra, anch’essi in tempi recenti sotto attacco del nuovo regime finanziario. Con la parola comune intendiamo soprattutto il fondamento dell’odierna produzione sociale che è sempre più caratterizzata dai saperi, dalle informazioni, dagli affetti e dalla cooperazione umana, dimensioni sociali senza le quali sarebbe oggi impossibile ottenere «la ricchezza comune del mondo materiale».

La concezione dalla quale muoviamo con l’inchiesta politica nel Mezzogiorno, dunque, è relativa alle determinanti capitalistiche del passaggio storico che stiamo vivendo. Rintracciare divari e differenze, da questa angolazione, significa rilevare le diverse intensità con cui il capitalismo finanziario si impone nei diversi territori. Questo nuovo processo d’accumulazione in corso riconosce il comune come fondamento della produzione sociale della ricchezza e lotta in ogni modo per espropriarne le potenzialità e le risorse, ossia per farlo rientrare nei canoni dell’appropriazione privata.

 

II. Nel periodo di formazione del capitalismo industriale la stagione di rifeudalizzazione della società e dei costumi fu una reazione energica delle classi feudali alle trasformazioni generatesi nel corso dell’accumulazione originaria. Anche nel regno di Napoli, tra il XVI e il XVII secolo, lo sviluppo mercantile del feudo culmina nel processo di rifeudalizzazione, che ricostringe i rapporti terrieri ed agrari di origine mercantile, o già capitalistici, nel quadro delle forme giuridiche feudali (il fedecommesso, il maggiorasco, la commenda, eccetera). Tutto ciò provocò, come ha efficacemente descritto Sereni, «una grande guerra contadina del Mezzogiorno». In ogni momento chiave dello sviluppo capitalistico il processo d’accumulazione ha significato impoverimento dei lavoratori, costretti alla precarietà e all’emigrazione, e legittimazione di nuovi rapporti sociali e di potere. Oggi, grazie allo stato d’eccezione che la crisi del debito e la minaccia del default hanno determinato, la rifeudalizzazione si presenta, a un tempo, come ideologia dell’austerity e attacco al comune, come distruzione del welfare e precarizzazione della forza lavoro, come privatizzazione di beni comuni naturali e indebitamento crescente di singoli e famiglie.

Il processo di rifeudalizzazione nel Mezzogiorno può essere letto, in generale, da una duplice angolazione: come risultato del processo di finanziarizzazione economica e come del processo di localizzazione delle soggettività.

Su quest’ultimo versante importanti indicazioni metodologiche le ricaviamo da Foucault e Appadurai. Il primo perché inquadra il potere come qualcosa di peculiare all’assoggettamento delle singolarità e ci permette, in tal modo, di individuare gli operatori di dominazione specifici all’interno di un relazione sociale di potere. «Si tratta di mostrare – scrive in un corso del 1976 – come siano le relazioni di assoggettamento a fabbricare dei soggetti». Appadurai, invece, perché inquadra questa fabbricazione dei soggetti nella tematica della “conoscenza locale”, che viene a sua volta definita come «produzione di soggetti locali affidabili e allo stesso tempo produzione di vicinati affidabili entro i quali quei soggetti possono essere riconosciuti e organizzati». La rifeudalizzazione, dunque, a partire da quanto ci hanno insegnato questi autori è un processo biopolitico finalizzato alla legittimazione sociale e alla riproduzione di regole e valori che agli occhi, al cuore e al cervello dei soggetti locali, devono apparire naturali, immodificabili ed eterni. Contro questa ideologia, e soprattutto contro le pratiche che la sostengono, l’inchiesta politica deve compiere la sua narrazione del Mezzogiorno neofeudale. Deve individuare come si producono soggetti locali affidabili, dal momento in cui la comprensione delle modalità e delle tecniche di “localizzazione” (assoggettamento) sono imprescindibili per definire azioni politiche efficaci e contrapporsi alla corruzione materiale e morale imposta dalle reti di potere.

Un terzo riferimento metodologico, di estrema importanza ai fini dell’inchiesta, è relativo ai lavori dell’officina teorica marxista e operaista che si formò in Italia dentro le lotte degli anni ’60 e ’70. Grazie al metodo del “Laboratorio Italia”, ed alla conricerca da questo sviluppata, vennero descritti gli aspetti salienti delle tendenze capitalistiche allora in corso e, soprattutto, si tentò di spingere in avanti tali tendenze, al fine di piegare e orientare dal basso le innovazioni che le lotte sociali e operaie imponevano al modo di produzione capitalistico. Quello che economisti e sociologi ci ripetono da un ventennio circa (e sul quale hanno costruito formidabili carriere universitarie e fortune personali) il laboratorio Italia l’aveva individuato sul nascere: il passaggio post fordista dell’industria, l’impatto sociale della rivoluzione informatica, il decentramento produttivo e la società dei servizi, la figura del lavoro immateriale come egemone del capitalismo che veniva, eccetera eccetera. Oggi è il momento in cui dobbiamo scassinare la cassaforte ed impossessarci dell’eredità teorico metodologica che queste analisi ci tramandano, dobbiamo iniziare a criticare e rielaborare al presente le categorie del Laboratorio Italia, per renderle adeguate alla comprensione e sovversione del capitalismo finanziario e biopolitico imperante.

 

III. La forza delle reti locali di potere è stata celebrata come notevole, vertiginosa e insuperabile. Gli aspetti arcaici, tradizionali e violenti fanno da sfondo all’opera dei media che, allo stesso tempo, ne additano l’ignominia e ne celebrano la potenza. I riferimenti sono noti: l’incredibile potere economico delle mafie (per alcuni la più grande impresa italiana con 90 miliardi di utile annui), il massimo livello di impunità e corruzione nella gestione politica della cosa pubblica e cosi via per un lungo elenco. Eppure, una ricostruzione meno ortodossa, ci permetterebbe di cogliere evidenti segni di debolezza delle reti locali di potere, ci permetterebbe di rilevare i sintomi regressivi dell’attuale situazione in cui versano.

I deficit di governance sono deficit delle capacità gestionali delle clientele da parte delle reti locali di potere.

Come ai tempi dei “piani” d’industrializzazione, lo stato e i suoi poteri locali produssero uno specifico “sistema meridionale”, nell’attuale stagione finanziaria del capitalismo, la crisi e le politiche europee degli “obiettivi 1”, stanno riscrivendo le nuove gerarchie e funzioni politiche del Mezzogiorno. Già nei primi anni ’90, con la fine dell’intervento straordinario, il sistema clientelare è stato costretto ad innalzare le barriere d’ingresso, le reti locali si sono dovute riorganizzare in molte funzioni e attività, hanno ricalibrato determinate azioni al fine di ridurre le complessità che il nuovo corso presentava.

Se comparato con il Mezzogiorno democristiano – quando le reti clientelari riuscivano a coniugare interessi locali e nazionali con maggiori garanzie – quello attuale appare molto più incerto. Possiamo dire che, in periodo di crisi, anche lo  scambio clientelare diviene precario. Il fatto di non avere più una “Cassa” e un sistema di trasferimento collaudato ha generato problemi sconosciuti a chi, formatosi su consolidate pratiche corruttive (atte a sancire il patto di sudditanza), si trova adesso imbrigliato nei vincoli all’utilizzo dei fondi europei per le aree obiettivo 1.

Nell’attuale situazione le reti locali di potere reagiscono simultaneamente a monte e a valle del processo di trasformazione: integrandosi (legalizzandosi) nei circuiti finanziari tramite la circolazione di capitali e ripiegandosi su se stesse nel Mezzogiorno, tramite la riproposizione di tradizionali tecniche di cooptazione, comando, scambio e affiliazione.

L’inchiesta politica deve individuare lo “stato di salute” delle reti locali di potere a partire dai deficit di governance di queste ultime, al fine di cogliere le criticità insite nel sistema di scambio clientelare e su queste intraprendere percorsi politici in grado di accrescerne i malesseri ed accelerarne l’agonia.

 

IV La mobilità della forza lavoro è uno dei tratti distintivi del Mezzogiorno globalizzato e neofeudale. Da paese di emigrazione l’Italia è oggi anche patria di immigrati: quasi 5 milioni di residenti, più di 600 mila nel Mezzogiorno. Negli ultimi otto anni sono triplicati in tutta Italia, quadruplicati in alcune regioni del Mezzogiorno come la Calabria (da 9 a 37 ogni 1000 residenti). Ovviamente la realtà, che non contempla solo i residenti, è ben superiore alle statistiche ufficiali. In concreto si tratta di lavoratrici e lavoratori dell’Est europeo, le prime prevalentemente nei servizi di cura e assistenza, i secondi prevalentemente nell’edilizia e nei più diversi servizi del precariato industriale; di lavoratrici e lavoratori del sud est asiatico, anche questi prevalentemente nei servizi di assistenza e cura; di lavoratori cinesi nella manifattura e nel commercio; di lavoratori nord africani nell’agricoltura, super sfruttati nelle campagne alla maniera antica quando era un «bisogno tenerli sempre col piè alla gola, acciocché, mai alzando la lor testa, stiano sicuri di non esser oppressi e malmenati». Le rivolte immigrate di questi ultimi anni segnalano il passaggio globale e neofeudale compiuto dal Mezzogiorno e incentivano, tra l’altro, l’azione politica di gruppi e movimenti. A tal proposito il racconto di Mario, un compagno di Rosarno, è significativo di come «nel 2003 tornò la notte, erano loro ad aver vinto, noi eravamo i comunisti e in quel periodo divenne la peggiore delle offese. Ci chiudemmo nelle nostre case, ci rifugiammo nel privato, nelle nostre attività, vivevamo in apnea… sono stati quegli uomini venuti dall’africa a restituirci il coraggio, la comunità africana ha saputo alzare la testa, è ripartito tutto grazie a loro, nel gennaio del 2010 c’è stata la seconda rivolta poi tanta attenzione sul nostro paese».

Le migrazioni intellettuali di giovani meridionali sono l’altra faccia del Mezzogiorno globalizzato e neofeudale, potremmo dire che sono la conseguenza di soggetti globali in contesti neofeudali. Tra diplomati e laureati ne partono ogni anno all’incirca 50 mila. Molti di questi sono in fuga dalla sudditanza alle reti locali di potere. Il rifiuto dei codici e delle pratiche sociali dei contesti di provenienza è tutt’uno con la scelta di cambiare rotta, di essere indisponibili e dunque di sottrarsi alle relazioni sovrane vigenti . Viste dal Mezzogiorno, i laureati in fuga non generano particolari problemi al mezzogiorno neofeudale: non sono stati espulsi dai contesti di provenienza dopo una stagione conflittuale, sono semplicemente partiti, hanno preferito – di contro al proverbio – di lasciare la strada vecchia per la strada nuova. Dinanzi al rischio di “localizzarsi”, di adattarsi allo stato di cose presenti e rimanere imbrigliati nelle reti locali, i giovani meridionali non hanno avuto alcun dubbio. La fuga dal Mezzogiorno è indotta dal desiderio di un’altra vita e può essere letta anche come diserzione dal comando. Detto ciò è necessario riconoscere, grazie al contributo fondamentale di Serafini e Ferrari Bravo, che «andarsene è si negare la propria forza lavoro al padrone, ma è anche negare se stessi a una possibile organizzazione politica, è affermare la propria disperazione nella possibilità di costruire una forza politica proletaria efficace, chi emigra sono si i più giovani ma anche i più coscienti, i più suscettibili di attività politica e organizzativa. Chi emigra sono i possibili quadri politici, i giovani più dotati di iniziativa e coraggio». Non è un caso che il dibattito è oscillato dall’esaltazione delle potenzialità rivoluzionarie dei giovani meridionali in fuga alla loro responsabilità circa il protrarsi della questione meridionale «e la mancata sovversione dell’ordine delle cose presenti». Dal punto di vista dell’inchiesta politica l’esperienza dei giovani laureati è significativa di un processo di sottrazione, che suggerisce una pratica politica da replicare all’interno dei diversi contesti meridionali: evacuare dalle reti di potere, essere indisponibili ai compromessi clientelari.

Le esperienze dei lavoratori immigrati ed emigrati sono decisive per ridefinire una politica dentro e contro il Mezzogiorno globalizzato e neofeudale. Ovviamente sono esperienze fondamentali anche per l’inchiesta politica che, tra i suoi obiettivi, ha quello di favorire la disobbedienza ai codici locali, l’indisponibilità delle giovani generazioni a lasciarsi localizzare dalle reti di potere.

 

 


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