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Quando la macchina dei Santi si mette in marcia (when the Saint Precarious go marching in)

 

di ANDREA FUMAGALLI e CRISTINA MORINI

Come si sa, non c’è servitù che, a ben guardare, non sia volontaria. La prima lezione che è stata appresa e il cui significato deve cominciare a preoccupare seriamente tutti i guardiani della flessibilità e della produttività che per qualche decennio ci sono stati messi alle calcagna – imprese, governi e sindacati, giornalisti e opinionisti, professori e banche, mercati azionari, misuratori del debito e del benessere – è questa: il tempo dell’obbedienza è finito.

Non basterà organizzare, l’ennesima volta, un girotondo, una colorata sfilata cittadina, per convincerci ad aspettare e ad affidare le nostre “istanze” all’inconcludente centro sinistra o a una nuova segreteria sindacale. L’autonoma costruzione del processo degli Stati Generali della precarietà, arrivato in meno di un anno già alla sua terza edizione – l’ultima delle quali si è tenuta a Roma dal 15 al 17 aprile scorsi – è l’esempio concreto della raggiunta maturità del movimento precario rispetto all’elaborazione sul tema della frammentazione del lavoro. Questo processo ha aperto, altrettanto naturalmente, il tempo della necessità della ricomposizione.

Non vogliamo bloccarci ancora a discettare dell“introiezione del conflitto” della generazione precaria, né disperderci in lamenti affini. Non è l’alienazione il punto su cui concentrarsi adesso. Non neghiamo che esista, ma non ci accontentiamo di raccontare la dispersione, dispositivo che cronicizza un malessere volutamente tenuto vivido attraverso leggi e accordi pensati e siglati al solo scopo di alimentare la nostra soggezione, individuale e collettiva. Gli Stati Generali di Roma hanno definitivamente archiviato la definizione di precarietà come negazione rispetto a tutto ciò che non si ha (tempo, welfare, diritti). Essa è viceversa, così come l’abbiamo vista in azione, potenza costitutiva del comune perché la precarietà è anche, in sé, la potenza stessa dell’essere umano – “finché ci siamo”. “I got life, mother”, canta George Berger, salendo in piedi sulla tavola imbandita della festa nel film Hair (1979). La vita, l’intelligenza, la libertà, i saperi, la capacità di tessere, di creare, di “fare” nel corso dell’esistenza, valgono. E si è capito che tutto questo è solo nostro, anche se per poco. E tanto più che è per poco, va partecipato e usato per qualcosa che valga davvero. Non va regalato ai ricatti miserabili di un’impresa precarizzatrice più a lungo di così.

A Milano, in Italia, nel corso degli ultimi dieci anni ci sono stati centinaia di conflitti agiti da donne e uomini, precarizzati di tutti i colori e di tutte le nazionalità, in ogni contesto lavorativo, dall’editoria alla fabbrica metalmeccanica al call center. Li conosciamo, ci hanno insegnato molte cose, ci hanno cambiati. I giornali non ne hanno scritto? La categoria dei giornalisti, tra le più precarizzate d’Italia, è la meno adatta a parlare di precarietà e di conflitto precario, a meno di non farne retorica. Non sarà un caso.

Se tutto questo non si è trasformato, non è ancora sfociato, in conflitto di classe è perché oggi il concetto di classe è inadatto a nominare il corpo sociale composito del lavoro nel capitalismo cognitivo. Va trovato il modo per dare gambe multiformi, e diverse, alla stessa cosa di sempre. La dimensione relazionale e cognitiva propria del capitalismo cognitivo che informa di sé ogni recesso della società contemporanea è proprio ciò che si è messo in moto, con forza straordinaria, durante gli Stati generali della precarietà. Per diversi anni abbiamo accettato di essere disciplinati e trasformati in soggetti appagati dal fatto di essere produttivi e di consumare. Ed ecco infine rivelato ciò che siamo stati indotti a dimenticare, ovvero che “l’economia è una politica”. E che essa approfitta di noi e del nostro umano desiderio. Ma qui sta la scommessa dell’invenzione che, da ottobre fino ad aprile, abbiamo provato a sperimentare, mettendoci insieme e organizzando gli Stati Generali: nella concretezza, c’è venuta voglia di altro, di un altrove.

Sciopero!

I dati forniti dalla Rilevazione trimestrale della forza lavoro dell’Istat, ripresi anche dalla Banca d’Italia non più di qualche settimana fa, hanno quantificato in oltre 4 milioni il numero dei lavoratori precari. Si tratta certamente di un dato sottostimato se prendiamo in considerazione anche il lavoro in nero e tutti quei rapporti di lavoro autonomo, formalmente indipendenti ma di fatto eterodiretti, al cui interno si nascondono sacche di precarietà effettiva. In tale contesto, il peso del lavoro precario potrebbe addirittura raddoppiare, sino a interessare una platea di circa 9 milioni di persone su una forza lavoro di 23 milioni, circa il 40% del totale. Ma, come sappiamo bene, la condizione precaria oggi non può essere definita semplicemente sulla base della tipologia contrattuale, così come vorrebbero farci credere le statistiche ufficiali. La precarietà è una condizione che tracima nella vita degli uomini e delle donne di questo paese, anche in presenza di contratti di lavoro formalmente stabili. Le vicende della Fiat di Pomigliano e di Mirafiori ce lo hanno ampiamente dimostrato. Se poi osserviamo che più dei due terzi del lavoro è concentrato in imprese di piccole dimensioni, altamente flessibili, e che lo Stato è oggi uno dei principali datori di lavoro precario (scuola, sanità, servizi sociali), possiamo concludere che la precarietà è oggi la modalità non solo contrattuale ma effettiva e generale che definisce il rapporto capitale-lavoro.

La natura esistenziale, strutturale e generale della condizione precaria è quindi oggi il punto di partenza imprescindibile per analizzare la dinamica della composizione sociale del lavoro vivo. Ed è partendo da questo presupposto che, a Roma, durante gli Stati Generali della Precarietà 3.0 – che hanno visto la partecipazione di 11 città e lo svolgimento di 11 workshop – ci siamo sentiti forti abbastanza da voler provare a definire, indagare, proporre nuove forme di pratica politica per arrivare a indire uno sciopero precario nel prossimo autunno.

È necessario, tuttavia, rispondere ad alcuni interrogativi centrali, collegati al fatto che le precarietà (plurale: vita, affetti, territorio, welfare, socialità, casa) informano la nostra vita.

Un primo punto riguarda la definizione dello “sciopero precario”. Nella tradizione della lotta di classe, tramandataci dal secolo corso, lo sciopero ha rappresentato per antonomasia lo strumento principale delle rivendicazioni economiche e sociali delle classi subalterne nei confronti del comando del capitale. Nelle nostre realtà produttive (altrove nel mondo valgono considerazioni diverse), tale strumento appare spurio, poiché vengono a mancare le due condizioni che ne hanno costituito la forza: il sabotaggio dei profitti del capitale, ovvero la capacità di colpire la controparte, e la massima partecipazione possibile senza che a ciò corrispondano costi o rappresaglie eccessive. Da questo punto di vista, lo sciopero, così come oggi viene concepito e organizzato, ovvero essenzialmente come blocco dell’attività di produzione con la contemporanea indizione di un concentramento di massa per le vie della città, è inefficace. Nella produzione reticolare e flessibile, il sabotaggio dei profitti non è ottenibile con la sola astensione dal lavoro dei siti produttivi, visto che il processo di valorizzazione deriva sempre più dalla circolazione delle merci e delle persone più che dalla loro produzione diretta[1]. Inoltre, la forza-lavoro precaria, in quanto soggetta ad alti gradi di ricattabilità o di coinvolgimento nella prestazione lavorativa, spesso non è in grado di partecipare. Infine, incredibilmente, le rivendicazioni che stanno alla base degli scioperi dichiarati dai sindacati non sono in grado di rappresentare i bisogni e i desideri dei precari.

Occorre quindi escogitare una nuova idea di sciopero. Possiamo partire dalla seguente definizione, per approssimazione: “Lo sciopero precario è l’indizione una giornata di lotta dentro la precarietà e contro la precarietà, costruita dal basso sulla base della cospirazione sociale precaria che nasce dal percorso degli Stati Generali della Precarietà. Esso si configura come misura della potenza precaria, momento di comunicazione, di sottrazione e di affrancamento dalla coazione al lavoro e dal ricatto dei rapporti sociali. È nello stesso momento strumento di denuncia delle imprese precarizzatrici, tramite il sabotaggio dei loro profitti, grazie ad azioni dirette e indirette tese a bloccare i flussi di comunicazione, di informazioni, di persone e di merci. Allo stesso tempo, viene pensato come modalità in grado di favorire la maggior astensione dal lavoro delle e dei precari a più livelli (da quello virtuale a quello reale) senza che essi debbano subire costi e rappresaglie. Ricordiamoci che se si bloccano i precari, si blocca il paese. Lo sciopero precario è una giornata di lotta ma non un unico, solo, evento. Esso si sviluppa dentro un processo di mobilitazione permanente, in grado di aprire una nuova fase di vertenzialità sociale e territoriale sui temi della garanzia di un reddito di base incondizionato, l’introduzione di un salario minimo, l’allargamento dei diritti di cittadinanza e di lavoro, la riduzione del numero dei contratti di lavoro, l’accesso ai servizi comuni di base e sociali”.

Il secondo punto d’analisi riguarda l’individuazione delle pratiche da perseguire e affinare per consentire allo sciopero precario di colpire le imprese e la massima partecipazione dei precari e delle precarie. Numerose sono state le idee e le proposte che sono state avanzate nei workshop di Roma sui flussi produttivi, sulle reti informatiche, sui call center e i centri di comunicazione, sulle pratiche di informazione e di coinvolgimento, sui possibili interventi nei territori, sulle questioni di genere e sul problema, centrale, dei migranti. Vogliamo per il momento ricordare che in ogni città si stanno organizzando dei laboratori territoriali sullo sciopero precario, con lo scopo di applicarsi a studiare le forme migliori per sabotare i flussi materiali e immateriali della produzione sulla base delle caratteristiche della struttura produttiva esistente. In altre parole, si tratta di:

  • individuare i nodi logistici più importanti, il cui blocco possa portare ricadute a monte e a valle che siano le più distruttive per l’organizzazione produttiva;
  • creare una rete di operatori informatici (hacker e nerd) in grado di intralciare la fluidità dei flussi informativi nella rete;
  • intervenire presso le grandi centrali telefoniche per favorire il sabotaggio e uno sciopero della comunicazione via cellulare;
  • avviare un processo di coinvolgimento virale sulle parole d’ordine dello sciopero precario tramite l’utilizzo dei media sociali, sino a sviluppare forme di partecipazione e adesioni anche solo virtuali.
  • individuare, territorio per territorio, simboli del processo di precarizzazione sufficientemente rilevanti da essere oggetto di azioni dirette, al fine di sviluppare forme di coinvolgimento sociale  e favorire la creazione di contro-immaginari.

L’ultimo punto di riflessione riguarda il tema, già citato in attacco, della rappresentanza e dell’autonomia. Nonostante la precarietà sia oggi al centro di ogni discorso “sul” e “del” lavoro – a dimostrazione che il percorso della MayDay ha conseguito uno degli obiettivi che si prefiggeva (e quindi può oggi trasformarsi in qualcosa di diverso) -  sino a diventare oggetto di mobilitazioni di natura sindacale, quali quella del 9 aprile 2011, in nessuna di esse, compreso lo sciopero generale indetto dalla Cgil per il 6 maggio, è ravvisabile un punto di vista precario.

Quando parliamo di un “punto di vista precario”, proprio perché la condizione precaria è paradigmatica dei rapporti di lavoro contemporanei, intendiamo la necessità di mettere al centro di ogni rivendicazione e vertenza la condizione precaria. La precarietà è una condizione in primo luogo esistenziale che accomuna molteplici condizioni di lavoro, dal lavoro migrante a quello di cura, dal lavoro manuale a quello cognitivo e che viene, tuttavia, percepita soggettivamente in modo differenziato. La precarietà è dunque una condizione sociale che non si è tramutata precisamente in un’unica e omogenea classe sociale. Tale realtà implica che essa può solo “auto-rappresentarsi”. Gli Stati generali della Precarietà rappresentano questo percorso di auto-rappresentazione e auto-organizzazione. Lo sciopero precario è quindi un momento costituente di un percorso di organizzazione che fa perno sul concetto imprescindibile di “autonomia della condizione precaria”.

In altre parole: i movimenti precari non sono più disponibili a generalizzare gli scioperi altrui. Che siano, semmai, altri soggetti – sindacati o partiti che dir si voglia – a generalizzare lo sciopero precario.

 

 

 

 


[1] Non è un caso che, laddove lo sciopero interessa i flussi, come nel trasporto, esso è fortemente regolato al punto da divenire efficace.

 

 

 

 

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