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Tra radicalità della corruzione e impotenza dei populismi

 

di GISO AMENDOLA

1. La crisi della Lega – vedremo se e quanto definitiva, ma certo gravissima – è un fatto da salutare con ovvia soddisfazione. È poi un contrappasso significativo che il Carroccio venga travolto proprio da quel meccanismo combinato di inchieste giudiziarie sulla corruzione e di pubblica indignazione, sul quale lucrò ai tempi di Tangentopoli: nutrirsi di risentimento, alla lunga, intossica.
Il panorama che si è aperto, però, richiede qualche riflessione. Sul fronte della nuova ondata di discredito che investe radicalmente i partiti, il confronto si è subito avviato su una traccia stanca e consolidata: su un fronte, si stanno schierando i difensori delle antiche e care forme della rappresentanza, gli austeri custodi dell’autonomia del Politico, le corrucciate sentinelle che montano la guardia contro il rischio di derive “giustizialiste” e “populiste”. Non meno severi, ma più capaci di muoversi con la dinamicità delle governance post-democratiche, altri puntano decisamente sulla via d’uscita tecnocratica e giudiziaria dalla palude della corruzione. Ma la crisi della Lega ha riaperto anche la discussione sul “federalismo” e sulla forma Stato: e qui s’avanza, da destra come da sinistra, la tentazione di approfittare della caduta degli strampalati quanto feroci cantori della secessione, per tornare a cantare le virtù del Popolo e della Nazione, eletti a scudi difensivi contro i flussi della finanziarizzazione. Se “neopopulisti” contro “difensori della rappresentanza”, “politica” contro “antipolitica”, è il duello puntualmente allestito da editorialisti e commentatori, gli uni e gli altri sono uniti da una evidente nostalgia per le categorie classiche della politica “moderna” statuale. Mentre ci si divide tra difensori tradizionali del “politico” e sedicenti “antipolitici”, non meno tradizionalmente statalisti dei primi, continua infatti a latitare, nei dibattiti ufficiali, qualsiasi consapevolezza della radicalità della crisi delle forme istituzionali. E così un confronto effettivo con la corruzione, con la sua realtà e la sua pervasività, e soprattutto, sul suo significato profondo per le categorie stesse della politica contemporanea, viene completamente mancato. La corruzione è letta solo come corruzione delle virtù personali, o corruzione di questa o quella formazione politica, o, per i più audaci, come corruzione di questa partitocrazia: ma nessuno sembra aver voglia di prendere sul serio il dato, oramai inaggirabile, della corruzione come caratteristica sistemica della governance contemporanea, come motore stesso del suo fisiologico funzionamento.

 

2. Tornerei indietro per un attimo a Tangentopoli. Non per borbottare che allora non cambiò nulla, o che anzi si finì di male in peggio, come amano fare i difensori dei partiti e della rappresentanza, sempre pronti a ricordare, da arcigni conservatori quali sono, che è buona cosa “non fare novità”; ma neppure per evocare il mito di una interrotta rifondazione giudiziaria della democrazia, di un’abortita rivoluzione togata. Torniamo invece a Tangentopoli per recuperarvi uno dei rari tentativi di portare in profondità il confronto intellettuale e politico con quella vicenda. Proprio mentre fioccavano le inchieste, Luciano Ferrari Bravo cominciò a interrogarsi sulla corruzione politica (cfr. Corruzione e politica, nella raccolta Dal fordismo alla globalizzazione. Cristalli di tempo politico, manifestolibri, Roma, 2001). La sua indagine mira subito a una contraddizione decisiva nella corruzione “moderna”. Nella modernità, nello sviluppo della forma stato, la corruzione è continuamente elevata ad argomento di dibattito pubblico, e, al tempo stesso, è neutralizzata nel suo significato politico, trasformandosi in una semplice “disfunzione” del corretto funzionamento dei meccanismi di governo. E ciò avviene proprio perché la corruzione diventa questione di cui si nutre continuamente l’opinione pubblica. Il punto centrale è che la stessa opinione pubblica – chiarisce subito Ferrari Bravo – si costruisce all’interno di un paradigma “economico”: l’opinione pubblica si erge a tutela di una corretta amministrazione, del buon funzionamento della gestione delle risorse statuali, di valori come la probità e di tutta la serie delle virtù prescritte da una sobria etica lavorista. La logica del pubblico e quella del privato, formazione dell’opinione e diritto di proprietà, si mostrano così, proprio nell’ambiguità dell’opinione pubblica, assolutamente complici. L’opinione pubblica è un pubblico di soggetti “privati”, che stringe insieme individualismo proprietario e virtuosismo morale: il corrotto è chi ha attentato alla proprietà, e, insieme, non ha conservato la propria rettitudine. Ma ancora una volta, questo giudizio suona tanto più rigido nella sua pretesa “etica”, proprio perché la logica dell’opinione pubblica parla un linguaggio tutto privato e domestico: il corrotto è immorale perché è venuto meno a quella onestà che ci si aspetta nella cura delle faccende familiari. In tutta questa faccenda, in questa divaricazione tra logica privata dell’interesse e logica altrettanto privata della virtù, si afferma quella lettura tutta individualistica della corruzione pubblica, che ne abolisce il significato politico. Tutta questa precisa genealogia guarda evidentemente al contemporaneo. Se sganciata dalla concretissima questione delle forme dell’organizzazione politica e del comando, dai rapporti materiali che entrano nella composizione del corpo politico, e trasformata in un astratto “giudizio” intorno al quale si produce opinione pubblica, la corruzione apparirà sempre più corruzione nella politica e quasi mai corruzione della politica.

 

3. Traiamone, in estrema sintesi, qualche prima chiave di lettura per l’oggi. La corruzione, agli occhi di quella strana costruzione che rimane l’opinione pubblica, “pubblica”, certo, ma insieme individualista, borghese-proprietaria ma con pretese di giudizio “universalistico”, è un malfunzionamento sistemico o una debolezza della virtù, o, meglio, la sovrapposizione perfetta di cattiva gestione e debolezza etica. E così, le ondate di sdegno anticorruzione finiscono per essere perfettamente gestibili come momenti di crisi e di trasformazione tutti interni ai meccanismi della governance: riparazione “tecnica” dei suoi guasti e supplemento “virtuoso” al suo deficit etico. Così appunto avvenne in Tangentopoli: la denuncia dello scandalo servì per mettere in moto un tentativo di risposta alla crisi delle rappresentanze politiche tradizionali, o meglio un tentativo di governare e neutralizzare quella stessa crisi. Il ruolo centrale della magistratura si giocò così tutto sul filo di un’intensa moralizzazione della sua funzione: ben oltre ogni tradizionale tripartizione dei poteri, la magistratura incarnò il  ruolo di custode “etico” di una mediazione costituzionale che perdeva rapidamente efficacia. Era un ruolo che la magistratura aveva conquistato negli anni precedenti, proprio collaborando alla repressione di quei movimenti che avevano saputo sfidare pericolosamente quella mediazione; candidatasi a custode della Costituzione già contro i movimenti degli anni Settanta,  fu quasi automatico per la magistratura trovarsi a giocare, con le inchieste di Tangentopoli, il ruolo di chi, allo stesso tempo, solleva il velo della corruzione e la mantiene all’interno dei confini di un conflitto tutto infrasistemico, utile a riconfigurare, ma non a rompere, i dispositivi di governo della crisi.

 

4. Siamo evidentemente all’origine dell’accoppiata partito dei tecnici/partito dei giudici. Un’accoppiata che, come ha scritto Girolamo De Michele su Uninomade 2.0 qualche giorno fa, produce un “discorso di verità” che espelle qualsiasi riferimento a concrete pratiche sociali, e si autolegittima in nome di uno statuto “oggettivo” e, va da sé, moralmente retto: il discorso vero è, in questo senso, anche un discorso “incorrotto”. Ma la critica alle letture riduttive della corruzione deve mirare oltre la pur giustificatissima critica alla repubblica dei tecnici o dei togati: deve puntare a far emergere tutto il significato politico della corruzione contemporanea, e cioè il suo nesso profondo con la crisi radicale della rappresentanza. In questo senso, la crisi della Lega è effettivamente una novità, costituisce una radicalizzazione della portata della corruzione. La crisi della Lega, infatti, conduce a perfezione la pervasività della corruzione, e, contemporaneamente, segna la fine di tutte le possibilità di gestirla e di governarla: non è più utilizzabile come un dispositivo per produrre formule di “rilegittimazione” della governance. La crisi della rappresentanza – e della forma stato – è così radicale da non lasciare più intatta nessuna nicchia di difesa. A cominciare dalle nicchie populisitiche o localistiche. La “corruzione”, come corruzione della rappresentanza, e non nella rappresentanza, ora travolge anche tutti coloro che, dentro questa crisi radicale, avevano scavato trincee reazionarie, nel tentativo, un po’ patetico, di blindarsi dai flussi globali. Da questo punto di vista, non siamo affatto alla replica di Tangentopoli: lì ancora era possibile che i giudici si proponessero come traghettatori di una transizione, come attori di un gioco interno al sistema, o che i micropopulismi della cricca leghista si nutrissero della paura delle trasformazioni globali, e gestissero così a modo loro la crisi. Quella “corruzione” mostrava ancora un suo “fuori”, anche se era un fuori occupato da razzisti e reazionari: ma, grazie a quel residuo, poteva ancora essere gestita, cercando in una parte della classe dirigente un capro espiatorio, e messa a funzionare come motore interno di un riassestamento dei meccanismi di governance. Ora, invece, la corruzione occupa esplicitamente e finalmente l’intero campo, presentandosi, nel pieno di una crisi finanziaria che non conosce stabilizzazioni possibili, come il funzionamento perfettamente “fisiologico” della governance ai tempi della “costituzione” finanziaria. In questo spazio tutto corrotto, nessuna strategia di sbarramento, chiusura, separazione diventa più possibile: e questo vale non solo a “destra”, nei confronti del microfascismo leghista, ma anche – e più insidiosamente – a “sinistra”, verso tutte le illusioni protettive o isolazioniste per immunizzarsi dalla crisi.

 

5. L’avvertimento allora dovrebbe suonare scontato: chi vuole giocare sul piano della rivitalizzazione dei “sovranismi” – micro o macro che siano, patrie locali o sovranità nazionali – perde. Ed è una campana che suona anzitutto – la Francia lo dice piuttosto chiaramente – a “sinistra”: chi pensa di poter gestire “da sinistra” la crisi riattualizzando le forme del repubblicanesimo più o meno civico, più o meno “popolare”, sappia che, su quel malinconico terreno tutto “nazionale”, c’è chi sa muoversi molto meglio di lui. Il terreno statuale-nazionale, il terreno “repubblicano”, o potremmo dire, più radicalmente, il terreno del “pubblico”, non è la trincea contro la crisi o contro la corruzione: è, anzi, lo spazio privilegiato di questa corruzione “sistemica”. Segnalava di recente Toni Negri come, proprio mentre il populismo leghista si sfrangia, rischia di precipitarci addosso, da sinistra, l’altro grosso guaio del “populismo repubblicano”. E questo rischio va tenuto ben presente, soprattutto nel muoversi sulla scena europea e nell’elaborare una prospettiva strategica dei movimenti.  Per esempio: al tema di una possibile rottura della Eurozona, che non solo i leghisti, ma anche alcuni settori antieuropei delle estreme sinistre agitano in forme piuttosto rozze, ci si dovrà accostare con un chiaro spirito tattico. Potrebbe essere, forse, specie per i paesi mediterranei, un passaggio necessario per la conquista di un “euro del comune”, ma certo non una strategia fondata sulla resurrezione da sinistra del fantasma sovranista, se occorre tener conto, come avverte ancora Negri, di “un’opinione pubblica sempre meno disponibile alla distruzione del sistema Euro”. Il populismo, (e, con esso, il suo frutto ora più immediato, la demagogia antieuropea) insomma, è una brutta bestia che va cacciata non solo nelle sue espressioni più marce e livorose, ma anche quando si presenta sotto la forma della restaurazione delle virtù della “buona” sovranità popolare.

 

6. Torniamo infine per un attimo a quel saggio di Ferrari Bravo sulla corruzione, da cui siamo partiti, per riproporne la questione centrale. In quelle analisi, infatti, non ci si limita a sottolineare semplicemente come corruzione e crisi della rappresentanza siano inscindibili. Dietro Tangentopoli, Luciano Ferrari Bravo scorgeva anche un laboratorio “avanzato” italiano per la creazione di uno “spazio politico post-fordista”. E segnalava l’impossibilità che quello spazio potesse riuscire a stabilizzarsi intorno a una qualsiasi forma di creazione di “nuova legittimità politica”. Questa è l’indicazione politicamente più preziosa di quello sguardo lucido e di lunga durata: la questione della corruzione della rappresentanza, in sintesi, è la questione della fine della mediazione costituzionale fordista del lavoro. Se è vero che non esiste discorso serio sulla corruzione che non affermi la crisi radicale della rappresentanza, è ancor più vero che non esiste nessun modo di affrontare la crisi della rappresentanza all’interno della tradizionale mediazione costituzionale del lavoro. E che è quindi completamente illusoria qualsiasi ricetta che si proponesse di curare la crisi della rappresentanza attraverso ricette più o meno partecipative, più o meno “democratiche”, ma che ancora individuino le forme e l’etica del lavoro fordista come permanente norma fondamentale del patto costituzionale. La questione della corruzione è la questione della crisi della rappresentanza: ma, a sua volta, la crisi della rappresentanza non è altro che la crisi dell’etica del lavoro fordista, e delle forme di traduzione politica della sua centralità. Tra la rottura della vecchia mediazione costituzionale del lavoro e l’impossibilità di una nuova mediazione stabile e legittimata, si apre ora uno spazio che o viene occupato da processi costituenti radicati dentro le trasformazioni produttive, dentro le soggettività concrete del lavoro vivo come si dà oggi, o non può diventare altro che il luogo di una corruzione radicale. Gli statalismi più o meno “repubblicani” di sinistra, gli invocatori delle virtù del “popolo” o dell’etica del lavoro, non vogliono guardare in faccia la radicale simultaneità della  rottura dello “stato dei partiti” e delle forme classiche, politiche e sindacali, della rappresentanza e delle tutele del lavoro negli equilibri costituzionali. L’unico modo oggi, per sfuggire alla tenaglia tra nostalgie della rappresentanza e populismo, è allora porre come centrale la questione dell’esaurirsi della forma-partito ma insieme, pur con le dovute differenze, della forma sindacato; o meglio, porre la questione dell’esaurimento della stessa distinzione tra funzione sindacale e funzione politica, del salto necessario nelle forme dell’organizzazione. I movimenti transnazionali più recenti insegnano: non sarà attraverso l’appello al popolo sovrano, ma solo con l’apertura di processi costituenti, radicati nelle soggettività contemporanee e nelle modalità effettive della produzione sociale, che potremo ingaggiare, con qualche speranza, un corpo a corpo con la corruzione radicale delle costituzioni contemporanee.

 

 

 

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