Tweet

Ripensare lo sviluppo capitalistico, di Kalyan Sanyal

 

Introduzione di SANDRO MEZZADRA e GIGI ROGGERO

1. La nave dei folli, lo «strano battello ubriaco» che fila lungo i fiumi della Renania e i canali fiamminghi ad accompagnare l’aurora della modernità europea nella Storia della follia nell’età classica di Michel Foucault (1963), si ripresenta in questo libro come emblema di una modernità divenuta definitivamente globale. Al centro dell’analisi di Kalyan Sanyal, professore di economia all’Università di Calcutta, è la nuova realtà dello sviluppo capitalistico nel mondo postcoloniale, e in particolare in India. Nonostante tassi di crescita economica spesso a due cifre, è un persistente rompicapo quello che il libro di Sanyal ci consegna: la contemporanea presenza di sviluppo e sottosviluppo, di accumulazione capitalistica e accumulazione della povertà, materialmente incarnata nelle condizioni di vita di «una larga parte della popolazione, spossessata e marginalizzata, che vaga in una terra desolata creata dallo “sviluppo capitalistico”».

È bene intendersi sul significato del termine «sviluppo», così come è utilizzato in questo libro. Lo stesso Sanyal, nel terzo capitolo, analizza dettagliatamente – sulla scorta di un importante articolo di H.W. Arndt – la trasformazione radicale che investì il concetto nel campo d’esperienza aperto dalla crisi del ’29: lo sviluppo, che appariva agli economisti classici come un processo spinto innanzi da una propria dinamica e da proprie leggi, veniva ora a significare una trasformazione strutturale dell’economia e della società che doveva essere attuata attraverso un’azione mirata e razionale; diventava cioè un obiettivo da raggiungere. Attorno a questo concetto di sviluppo (di cui è opportuno ricordare la genealogia coloniale, nel senso che prima del ’29 proprio le colonie erano state i principali laboratori delle politiche di sviluppo) vennero organizzandosi nel secondo dopoguerra, con il tumultuoso avvio della decolonizzazione, i dibattiti e le politiche relativi a quello che, dopo la Conferenza di Bandung del 1955, cominciò a essere definito “terzo mondo”.

Lo sviluppo assunse così le vesti di quella che Sanyal definisce una «formazione discorsiva» e si installò al centro dell’arena politica: attorno a esso si incrociarono all’interno del “terzo mondo”, in mutevoli costellazioni storiche, forma dello Stato, blocchi sociali di potere, lotte di classe e ideologie. Teorie della modernizzazione, della dipendenza, dell’imperialismo e dello scambio ineguale si scontrarono dentro e fuori l’accademia – spesso in modo sanguinoso – nel tentativo di identificare le cause del “sottosviluppo” e di definire il tipo di sviluppo necessario a consolidare un’indipendenza spesso conquistata solo di recente. Conosciamo l’intensità e la violenza di questi scontri, le molte guerre sporche e le dittature che li accompagnarono e ne emersero all’interno dei tre continenti. Ma d’altro canto non dobbiamo dimenticare che, nei lunghi decenni del dopoguerra, proprio lo sviluppo si impose tendenzialmente come criterio generale di legittimazione dello Stato nel “terzo mondo”. Mentre in Occidente lo Stato si faceva “sociale” e nel blocco sovietico (nel “secondo mondo”) si faceva “socialista”, qui esso si configurava come “Stato dello sviluppo”.

È un passaggio storico complesso, ovviamente, che andrebbe analizzato con attenzione in riferimento ai diversi casi “nazionali”: resta tuttavia il fatto che, sia nei Paesi più vicini all’Occidente, sia in quelli attratti verso l’orbita sovietica, sia in quelli (come l’India) formalmente “non allineati”, lo Stato tentava di imporre la propria legittimità con un mix di politiche di piano e di mercato volte a stimolare e promuovere lo sviluppo economico. Il lettore (la lettrice) avrà modo di seguire l’ampia analisi dedicata da Sanyal ai piani indiani, che si definirono all’incrocio tra l’originaria attrazione di Nehru verso le politiche sovietiche e l’influenza della «Ford Foundation» statunitense: ma anche in altri contesti lo sviluppo, accompagnato da industrializzazione e progressiva generalizzazione del lavoro salariato, era presentato come condizione fondamentale per determinare il superamento della povertà di massa, un nuovo equilibrio tra città e campagna e la piena realizzazione di una cittadinanza nazionale.

È proprio questo nesso tra sviluppo, lavoro salariato e cittadinanza a entrare in crisi negli ultimi due decenni, determinando – parallelamente al dipanarsi dei processi di globalizzazione – la scomposizione e la radicale trasformazione dello “Stato dello sviluppo” nel cosiddetto terzo mondo. Disponiamo di una serie di analisi di questa crisi in America latina, in Africa e in Asia orientale. Evidentemente, parlare di una crisi dello “Stato dello sviluppo” non significa affermare che non vi sia più un rapporto tra Stato e sviluppo: da una parte, tuttavia, la forma di questo rapporto si modifica in profondità, per via di un nuovo protagonismo sia di organismi internazionali come la Banca mondiale e il FMI sia delle grandi imprese transnazionali; dall’altra parte, l’azione stessa dello Stato si fa molto più selettiva e flessibile, puntando a regolare in modo differenziato singole enclave territoriali (ad esempio con l’istituzione di “zone economiche speciali”) e a intervenire su specifici gruppi di popolazione. Ma è soprattutto l’idea che il lavoro salariato costituisca il vettore privilegiato di accesso a una piena cittadinanza e la leva fondamentale per il superamento della povertà a non reggere di fronte alla realtà dello sviluppo capitalistico degli ultimi anni, caratterizzata – ad esempio in un Paese come l’India – da un’estrema precarietà occupazionale, dalla fragilità dei diritti collegati al lavoro e dalla persistente realtà della povertà di massa.

Sono precisamente questi i temi al centro del libro di Sanyal, che si presenta così come un contributo di prim’ordine alla comprensione critica di uno dei tratti fondamentali dei processi contemporanei di globalizzazione capitalistica. L’economista indiano, d’altro canto, inquadra l’analisi del «capitale postcoloniale» all’interno di un’originale e ambiziosa rivisitazione dei temi e dei concetti al centro del discorso sullo sviluppo e più in generale dell’economia politica. È un’intera epoca storica ad apparire conclusa ai suoi occhi: quella in cui lo sviluppo si presentava all’interno di una «narrazione della transizione», di un discorso «teleologico» che poneva come obiettivo il passaggio (appunto la transizione) da uno stadio di partenza – definito ad esempio attraverso il concetto di “sottosviluppo” – a uno necessariamente superiore – definito ad esempio nei termini di un “pieno” sviluppo delle forze produttive di un Paese. La rottura con ogni interpretazione teleologica dello sviluppo – sia essa di stampo liberale o di stampo marxista – è resa possibile nel lavoro di Sanyal da una ripresa della categoria marxiana di «accumulazione originaria». Ma la ripresa è al tempo stesso una radicale re-interpretazione: in sintonia con un insieme di studi apparsi negli ultimi anni, Sanyal rifiuta di assumere «la cosiddetta accumulazione originaria» analizzata da Marx nel capitolo 24 del primo libro del Capitale – con la violenza e i processi di “spossessamento” che la caratterizzano – come mera «preistoria del capitale», come contrassegno di una fase storica definitivamente trascorsa. L’accumulazione originaria indica piuttosto, a suo giudizio, un insieme di fenomeni e di metodi che, lungi dal presentarsi soltanto all’origine del modo di produzione capitalistico, ne scandiscono l’intera storia, spezzandone la linearità e condannando allo scacco (o a una funzione meramente ideologica) ogni lettura dello sviluppo capitalistico in chiave “teleologica” e “storicistica”.

Se l’accumulazione originaria è, nelle parole di Sanyal, la «storia immanente del capitale», si capisce come «il suo sorgere non sia mai completo, la sua universalità non sia mai pienamente stabilita, il suo essere sia sempre rinviato al futuro». Tra il «sorgere», continuamente ripetuto, e l’«essere» del capitale postcoloniale, sempre rinviato a un futuro che non giungerà mai, operano le logiche della violenza e dell’espropriazione, dilagano le recinzioni descritte da Marx a proposito dell’Inghilterra proto-moderna e di cui l’India contemporanea non cessa di fornirci esempi. La «nave dei folli» e la «terra desolata» popolate dalle moltitudini di spossessati prodotte dallo sviluppo capitalistico nel suo cieco incedere sono dunque destinate secondo Sanyal a rimanere presenze strutturali nel paesaggio postcoloniale (QUI). E vana è la speranza che quelle moltitudini siano progressivamente riassorbite all’interno del modo di produzione capitalistico e dei rapporti salariali che dovrebbero connotarlo: procedendo a un ritmo sincopato, interrotto di continuo dal riproporsi della violenza dell’origine, esso include nella misura in cui esclude, determina accumulazione di ricchezza, come si diceva all’inizio, secondo la stessa logica con cui determina accumulazione di povertà e ripropone la «sfida degli slum», per citare il titolo di un rapporto del programma HABITAT dell’ONU (2003) ripreso in un libro recente da Mike Davis.

È evidente che, se così stanno le cose, i movimenti e le lotte dei poveri assumono una valenza politica fondamentale. Partha Chatterjee, uno dei protagonisti dell’esperienza dei «Subaltern Studies» indiani, ha analizzato in un importante volume di qualche anno fa alcune delle conseguenze politiche di questa nuova povertà: e in particolare, riprendendo un concetto gramsciano alla luce delle analisi foucaultiane della «governamentalità», ha proposto di definire «società politica» lo spazio in cui vivono gli spossessati di cui parla Sanyal. La loro esperienza politica segue a giudizio di Chatterjee logiche profondamente diverse da quelle sintetizzate nel linguaggio dei diritti e nei concetti di società civile e cittadinanza: la stessa distinzione tra legalità e illegalità risulta incerta all’interno della «società politica», la cui struttura è definita da una fitta trama di lotte e di negoziazioni a cui fa da contrappunto un insieme di interventi puntuali – di carattere apparentemente più “amministrativo” che politico – da parte delle autorità.

Il libro di Sanyal, anch’esso traendo ispirazione da Gramsci e Foucault, consente di fondare in modo più solido la categoria di «società politica» (che pure non viene qui utilizzata), e Chatterjee non ha mancato di rendergliene merito negli anni successivi alla sua pubblicazione. Il punto è, secondo Sanyal, che il capitale postcoloniale, per affermare la propria legittimità e la propria egemonia, non può semplicemente lasciare a se stessi gli spossessati che il suo sviluppo continuamente produce, ma deve in qualche modo farsi carico della riproduzione delle basi materiali della loro sussistenza. Il capitale è cioè costretto ad accettare quello che l’economista indiano definisce il «rovescio dell’accumulazione originaria», acconsentendo a finanziare un flusso di risorse verso l’«esterno del capitale»: canalizzato attraverso l’azione dello Stato, di organizzazioni internazionali e ONG, questo flusso di risorse crea le condizioni per la nascita e la riproduzione di un’«economia del bisogno» che rimane esterna allo spazio economico del capitale ma che gioca un ruolo essenziale nel processo complessivo di legittimazione del capitalismo. Torneremo più avanti su questa tesi di Sanyal, anche per evidenziarne alcuni aspetti che a noi paiono problematici. Prima, però, è necessario collocare con più precisione il libro all’interno delle tradizioni di pensiero a cui fa riferimento, per farne meglio emergere la forza e l’originalità.

2. Oltre a essere importante, quello di Sanyal è un libro straordinariamente efficace e chiaro, senza per questo sacrificare una complessità argomentativa e un’ambizione che derivano tra l’altro dall’attraversamento di saperi e di pratiche teoriche stratificati in decenni di sviluppo del pensiero critico dentro e fuori il contesto indiano. Questi saperi e queste pratiche teoriche sono qui rivisitati con l’obiettivo di definire un nuovo paradigma, in grado di afferrare criticamente un oggetto – il capitalismo postcoloniale – che a giudizio dell’autore non è stato ancora compreso e descritto in modo adeguato. Sanyal riesce così a utilizzare genealogie diverse per sviluppare un discorso affatto originale, che sembra continuamente in grado di anticipare e spiazzare le critiche che potrebbero essergli mosse. Vediamo, più in dettaglio, come funziona il suo metodo di analisi nel rapporto con le tre principali tradizioni di pensiero critico al cui interno possiamo collocare il libro: il dibattito sullo sviluppo, il dibattito marxista in India, il dibattito postcoloniale.

Sanyal ripercorre le tappe e le argomentazioni centrali di quelle interpretazioni critiche che, a partire dagli anni Settanta, hanno mostrato come il principale obiettivo delle politiche dello sviluppo sia stato esattamente quello di riprodurre il suo correlato, cioè il discorso del sottosviluppo. Quest’ultimo, articolato attraverso una costellazione concettuale che parte dall’identificazione dei bisogni per fissare le misure della povertà, è diventato nel secondo dopoguerra – all’interno dei processi che si sono precedentemente richiamati – un preteso modello universale. Così come per la categoria di “orientalismo”, magistralmente decostruita da Edward Said, la produzione dell’“altro” sottosviluppato, ovvero del “terzo mondo”, ha avuto una precisa funzione politica e ideologica: è cioè servita all’Occidente, nel contesto della guerra fredda e della decolonizzazione, per ridefinire la propria identità e per legittimare su nuove basi la propria pretesa di dominio, fondandola su un’idea di progresso inteso come standard oggettivo e naturale fine storico.

È attorno alla diade sviluppo-sottosviluppo che si è plasmata la divisione internazionale del lavoro nella seconda metà del Novecento, accompagnata dall’espansione di istituzioni e organizzazioni transnazionali – dalla Banca mondiale alle Ong, passando per gli istituiti di ricerca e le università globali – che hanno fatto dei misurabili ideali della modernità e del progresso una fiorente economia. Si è trattato di un processo, come già si è ricordato, tutt’altro che pacifico, contestato e spesso materialmente spezzato dalla continuità delle lotte anticoloniali e antimperialiste. Non sempre, tuttavia, le teorie critiche dello sviluppo hanno messo adeguatamente in luce tali processi di resistenza e conflitto, preferendo concentrare la propria attenzione sulla forza del dominio e del suo ordine del discorso. Per gli autori di questa tradizione di pensiero – da Arturo Escobar a Wolfgang Sachs, per limitarci a un paio dei nomi discussi nel libro – il discorso sullo sviluppo ha rappresentato in buona sostanza la continuazione del colonialismo con altri mezzi.

Sanyal, in ogni caso, si guarda bene dall’appiattirsi sull’idea dello sviluppo come imposizione unilaterale del “centro” sulla “periferia”. La violenza della «formazione discorsiva» – concetto che, anche in questo caso, l’economista indiano riprende dalla cassetta degli attrezzi foucaultiana dopo che proprio Escobar lo aveva utilizzato in riferimento allo sviluppo – agisce all’interno di un processo in cui il potere è sempre posto in tensione e rovesciato dalle resistenze. Lo sviluppo, dentro la grande narrazione della modernità, è dunque, innanzitutto, un campo di battaglia. È con questo sguardo metodologico che Sanyal può individuare il punto di partenza che lo accomuna agli autori sopra menzionati: il fallimento del paradigma dello sviluppo e l’apertura di uno scenario post-sviluppista, la configurazione cioè di un nuovo terreno in cui si determinano inedite pratiche di sapere, forme della soggettività e rapporti di forza a livello globale.

Al contempo, tuttavia, egli evidenzia in modo molto chiaro il principale problema di questa tradizione critica: lo schiacciamento e infine la confusione dei concetti di sviluppo, modernità e capitalismo, troppo spesso erroneamente assunti come sinonimi. Con il giusto proposito di opporsi alla depoliticizzazione del discorso sullo sviluppo, sostiene Sanyal, Escobar e altri esponenti delle teorie post-sviluppiste finiscono per smarrirne le basi materiali, giungendo a proporre – come talora succede anche a molti teorici postcoloniali – una critica meramente culturalista. Proprio qui si situano il progetto e la sfida contenuta nel libro che presentiamo: illuminare l’intimo nesso che lega l’ordine del discorso sviluppista e l’accumulazione originaria per «politicizzare l’economia», ovvero – potremmo dire – per afferrare l’economia politica del regime di sviluppo e le sue contraddizioni specifiche. Non si tratta di una questione semplicemente teorica: a essere messa in gioco è, infatti, l’individuazione dei soggetti del conflitto nel capitalismo postcoloniale.

Nel tracciare il suo innovativo percorso di ricerca Sanyal usa come punto di partenza una mossa marxiana (la ripresa critica, come si è visto, dell’analisi della «cosiddetta accumulazione originaria»), per poi immediatamente problematizzare le tradizionali narrazioni marxiste. Nel fare ciò l’economista indiano si colloca indubbiamente all’interno di una delle aree più interessanti del dibattito postcoloniale degli ultimi anni. La compresenza differenziale di tempi, forme del lavoro e regimi produttivi di cui si nutre e compone il capitalismo postcoloniale è del tutto incompatibile con la narrazione storicistica proposta da una gran parte del marxismo ortodosso, cioè con quella supposta oggettività del processo di sviluppo storico che – attraverso differenti stadi – conduce verso il progresso, e in ultima istanza verso il socialismo.

La critica dello «storicismo», come si è già accennato, è un tema che accomuna Sanyal agli storici dei «Subaltern Studies», e in particolare a Partha Chatterjee e a Dipesh Chakrabarty. Questa critica permette di analizzare la genealogia e il presente della formazione di classe in India prendendo congedo dalle opposte ma speculari narrazioni nazionaliste e marxiste: il suo filo conduttore non è una teleologia della storia, ma la produzione situata di soggettività dentro il rapporto sociale capitalistico. Squarciando il discorso che – per citare le parole di Chakrabarty – relega i soggetti «subalterni» in una sorta di «immaginaria sala d’aspetto della storia», fiduciosi nell’arrivo del loro momento, sia esso rappresentato da una piena cittadinanza o dal socialismo, le ex colonie cessano di essere confinate nella preistoria, per divenire dei veri e propri laboratori della modernità, al cui interno si gioca la costituzione materiale del politico.

Se, dunque, una parte consistente della tradizione di dibattito marxista in India e ancor più sull’India si è concentrata sulla debolezza del suo sviluppo industriale, da cui deriverebbero persistenze “feudali” e il mancato sviluppo di una classe operaia forte in quanto soggetto storico della trasformazione, Sanyal ci offre un quadro del capitalismo postcoloniale alquanto diverso, facendo emergere l’intreccio complesso di dominio e di resistenze, di violenza e di insubordinazione che ha materialmente costituito la modernità indiana. Soprattutto, squaderna di fronte ai nostri occhi un quadro di problemi politici del tutto differenti: come connettere sfruttamento e spossessamento (lotte della classe operaia e movimenti dei poveri)? Come è possibile ripensare l’agire politico al di fuori di una declinazione teleologica della transizione? Come è possibile politicizzare la povertà insieme o dentro a un discorso di classe, senza – aggiungiamo – riproporre quella dicotomia tra inclusione ed esclusione che della narrazione della modernità costituisce un indiscutibile caposaldo?

È all’altezza di questi problemi, crediamo, che il libro di Sanyal va letto e anche messo in discussione. Una cosa tuttavia è certa. Se in alcune parti del testo l’economista indiano sembra pericolosamente contiguo ad alcune mitologie populiste della tradizione, immediatamente dopo è netta e risoluta la sua critica a ogni forma di nostalgia del passato o al culto dell’indigenismo, retoriche su cui troppe volte indugiano i critici dello sviluppo e alcuni teorici postcoloniali, finendo per proporre un discorso in fondo speculare a quello dei loro avversari. Allo stesso modo potremmo dire, andando probabilmente al di là delle intenzioni dell’autore, che il libro ci mostra quanto sia erroneo ritenere termini equivalenti sviluppo e crescita, come fanno i teorici della cosiddetta decrescita tra cui va sicuramente citato Serge Latouche, più volte utilizzato nel corso del testo per decostruire il concetto marxiano di modo di produzione. Si tratta di un discorso perlomeno discutibile dal punto di vista teorico, poiché – come si può appunto evincere dalla descrizione fatta dallo stesso Sanyal delle alterne politiche imperiali degli ultimi sessant’anni – non si avvede del fatto che, procedendo a sbalzi e in modo tutt’altro che lineare, lo sviluppo del capitalismo non contrappone affatto crescita e decrescita, ma al contrario si compone in modo differenziale di entrambi i termini. È, soprattutto, una retorica pericolosa dal punto di vista politico, perché si accompagna a quelle forme di essenzializzazione della tradizione che l’economista indiano giustamente attacca nel caso di Escobar.

Insomma, mettere in discussione le coppie concettuali attorno a cui i discorsi della modernità e dello sviluppo si sono articolati, significa porre fine alla prospettiva dialettica in cui spesso sono state ingabbiate le pratiche che a essi si sono contrapposti. Del resto, l’egemonia del discorso dello sviluppo non rappresenta un regime totalitario, non corrisponde cioè a quell’immagine del “pensiero unico” che troppo a lungo ha paradossalmente invitato ad alzare bandiera bianca di fronte al dominio neoliberale, ignorando le resistenze diffuse che quel dominio hanno continuamente sfidato e infine posto in crisi. Una politica antagonista, ci dice Sanyal, non va quindi cercata in un “fuori” dal tempo presente, sia esso rappresentato dal mito dell’origine o dall’attesa messianica di un futuro di cui la storia è oggettivamente gravida: essa va invece organizzata dentro le crepe e gli interstizi che le lotte aprono, individuando qui i nuovi soggetti e forme della trasformazione.

È a partire da queste rotture dell’ordine costituito, anziché dalle logiche interne al dominio del capitale globale, che Sanyal legge – ancora una volta attraverso l’archivio foucaultiano – la «governamentalizzazione» dello “Stato dello sviluppo”, indicando in essa una risposta alla sua crisi. Il caso indiano viene utilizzato come filigrana attraverso cui analizzare il capitalismo postcoloniale e il nuovo scenario segnato dalla crisi del paradigma dello sviluppo, ovvero il passaggio verso nuove pratiche discorsive incentrate sulla valorizzazione di una sorta di economia dei bisogni. Se, sostiene Sanyal, per il primo quarto di secolo successivo all’indipendenza la pianificazione del governo indiano è stata incentrata sulla necessità di creare e favorire le condizioni per l’accumulazione originaria, a partire dagli anni Settanta e Ottanta il quadro è progressivamente mutato. Ora il ruolo centrale dello Stato, in questo senso governamentale, è l’impegno in una parziale redistribuzione della ricchezza prodotta, innanzitutto attraverso i programmi contro la povertà.

Anche in questo caso, lungi dall’essersi prodotto seguendo una razionalità endogena al comando statale e capitalistico, il passaggio a una definizione “governamentale” del potere è stato dettato innanzitutto dalle lotte che, in India come nel resto del mondo, hanno scandito i decenni in questione, mettendo in crisi i modelli di sovranità fino ad allora vigenti. Se la genealogia che Sanyal ci restituisce è nitida e condivisibile, resta da indagare l’ambivalente nodo politico che la sua lettura ci offre nel presente: resta cioè da valutare come, nel nuovo quadro configurato dal rapporto tra resistenze e ruolo governamentale dello Stato, inedite forme di lotta e antagonismo possano essere sperimentate – dentro ma soprattutto contro le forme di cattura che della governance costituiscono il motore e il quotidiano alimento.

3. La governamentalità postcoloniale, inserendo lo Stato in un quadro globale composto da una pluralità di attori sia pubblici sia privati e coinvolgendo lo stesso capitale nella complessa economia dei «donatori», punta dunque secondo Sanyal a risarcire parzialmente le moltitudini di spossessati prodotte dal riproporsi dell’accumulazione originaria all’interno dello sviluppo capitalistico. È importante sottolineare che questo risarcimento non può che essere appunto parziale, considerato che si concretizza in interventi che assumono come proprio obiettivo la riproduzione di un’economia di sussistenza, ovvero la mera soddisfazione dei bisogni primari degli abitanti della «terra desolata» descritta da Sanyal.

Pur prendendo forma come risposta alla crisi del discorso sullo sviluppo a partire dai primi anni Settanta, e pur incorporando posizioni critiche come quelle di Amartya Sen, la nuova formazione discorsiva divenuta egemone negli ultimi anni non sembra dunque proporsi il superamento della povertà ma appunto soltanto la sua gestione governamentale. È bene ripeterlo: la critica dell’immagine «teleologica» e «storicistica» dello sviluppo determina un vero e proprio mutamento di paradigma. Non si tratta più di superare progressivamente la persistenza di settori «tradizionali» e «informali» dell’economia a tutto vantaggio dei settori «moderni» e «formali», ma di organizzare secondo logiche governamentali la coesistenza di logiche profondamente eterogenee, di sviluppo e continua riproduzione di una modernissima povertà.

Nell’insieme della sua analisi, Sanyal è molto convincente nel mostrare come siano stati gli stessi movimenti e le stesse lotte dei poveri a spingere le politiche dello sviluppo sul terreno della governamentalità, più direttamente agibile sotto il profilo della soddisfazione immediata dei bisogni e delle rivendicazioni materiali. Da questo punto di vista, anche il concetto di governamentalità appare in questo libro più duttile, più aperto alla registrazione dei mutevoli rapporti di potere e delle resistenze che ne costituiscono la trama, rispetto a quanto accade nel lavoro di Chatterje, in cui si ha spesso l’impressione che i dispositivi governamentali costituiscano in modo unilaterale lo spazio della «società politica» e i movimenti dei suoi soggetti. Ciò nonostante, la definizione dell’economia di sussistenza che prende forma all’incrocio tra movimenti dei poveri e interventi governamentali come spazio esterno al capitale (come «non capitale») suscita non pochi problemi sotto il profilo teorico e politico.

In primo luogo ci sembra che questo schema dicotomico finisca paradossalmente per confermare la tesi – ampiamente criticata dalla «storiografia globale del lavoro» – secondo cui al capitale corrisponde necessariamente il rapporto di lavoro salariato, e non si può dunque parlare di capitale laddove prevalgono il settore «informale» e l’economia del bisogno. Se si assume al contrario la presenza di un’eterogeneità di rapporti di lavoro dipendente (dal lavoro coatto fino al lavoro formalmente autonomo) come elemento costitutivo dello stesso concetto di capitale (marxianamente inteso come rapporto sociale), diviene possibile ricostruire la continuità dei processi di valorizzazione e accumulazione del capitale attraverso spazi sociali anch’essi eterogenei – dalla fabbrica al laboratorio artigiano ai cicli economici e alle figure di imprenditorialità che continuamente si organizzano all’interno degli stessi slum.

In secondo luogo, Sanyal non dedica sufficiente attenzione, nella sua analisi del capitale postcoloniale, al ruolo essenziale che a livello globale giocano i mercati finanziari, come elemento che incessantemente sovradetermina l’accumulazione e la valorizzazione del capitale, concorrendo in modo decisivo a determinare le condizioni di vita nella stessa «terra desolata» della povertà. Anche il micro-credito, portato ad esempio di uno strumento che può consolidare lo spazio del «non capitale», non è in realtà concepibile al di fuori dei processi di finanziarizzazione che costituiscono un elemento distintivo del capitalismo globale contemporaneo. La finanziarizzazione ha infatti in buona sostanza lo stesso ruolo che aveva il rapporto tra centro e periferia in Rosa Luxemburg, con il cui pensiero Sanyal si confronta a più riprese nel libro: risucchia cioè il «non capitale» all’interno dei processi dell’accumulazione capitalistica. In terzo luogo, la stessa distinzione utilizzata da Sanyal tra capitale e capitalismo non ci sembra autorizzi la comprensione ristretta (e in fondo economicistica) del concetto di capitale con cui lavora. Se il capitalismo è definito dall’insieme delle condizioni politiche, sociali, culturali e “ideologiche” che consentono l’egemonia del capitale – e dunque la continuità dei processi di valorizzazione e di accumulazione –, quelle condizioni non possono che rientrare nel concetto stesso di capitale; e gli antagonismi e le lotte che si determinano su quel terreno sono antagonismi e lotte interni al rapporto di capitale.

Con questo non intendiamo riproporre un concetto totalizzante di capitale. È noto che lo stesso Marx, nei Grundrisse, ebbe a definire nientemeno che il lavoro come «il vero non-capitale», dando così espressione alla natura necessariamente scissa, antagonistica, del rapporto di capitale. La critica femminista, con cui Sanyal dialoga del resto in modo produttivo, ha posto in evidenza come un’intera sfera della vita resti fuori dal rapporto di scambio tra capitale e lavoro: quella sfera della riproduzione della forza lavoro, che pure gioca un ruolo evidentemente fondamentale e si regge sul lavoro femminile non retribuito. Lavorando a partire da questo stesso tema, è stato più recentemente sottolineato il fenomeno della straordinaria persistenza, a livello globale, di economie familiari contadine che costituiscono la base materiale della riproduzione di centinaia di milioni di proletari e proletarie, consentendo loro di far fronte alla precarietà e alla mobilità del lavoro. Questo insieme di economie e di spazi sociali può certo apparire “esterno” al capitale, ma si tratta di un’esternità sempre relativa, la cui analisi non può prescindere dal rapporto di tensione che si instaura tra le logiche che li strutturano e la pressione che il dominio sociale del capitale esercita nel tentativo di conformare i comportamenti e le pratiche soggettive alle norme della sua accumulazione e della sua valorizzazione.

Il libro di Sanyal, come si vedrà, è animato da una forte passione politica, dal tentativo di apportare un contributo alla ridefinizione di un modello di lotta e di trasformazione radicale dell’esistente nelle nuove condizioni determinate dal capitalismo postcoloniale. A fronte dei movimenti dei poveri che hanno interessato negli ultimi anni non soltanto l’India, ma anche le baraccopoli e le favelas di molti Paesi africani e latinoamericani, la sua insistenza sulla necessità di analizzare e valorizzare questi movimenti in quanto tali, senza vincolarli alle gerarchie e alle temporalità che hanno tradizionalmente organizzato i discorsi della cittadinanza e del lavoro, ci sembra preziosa. Al tempo stesso, tuttavia, la rigidità dell’opposizione tra spazio del capitale e spazio del non capitale rischia a nostro giudizio di rendere di difficile soluzione il problema che lo stesso Sanyal correttamente pone: se è infatti senz’altro necessario lavorare per il consolidamento di percorsi di lotta e autonomia all’interno della «terra desolata» della povertà, più contraddittorio ci sembra propugnare come obiettivo di lungo periodo – come Sanyal fa nelle pagine conclusive del libro – la difesa di una supposta indipendenza degli spazi dell’economia del bisogno dall’«invasione dell’economia dell’accumulazione». All’incrocio tra lotta di classe nella produzione industriale e movimenti dei poveri nella società, i due poli attorno a cui si dipana il discorso di Sanyal, si tratta piuttosto di pensare la costruzione di nuovi spazi di autonomia: di spazi cioè al cui interno possano maturare le condizioni di una convergenza di quella molteplicità di figure sociali eterogenee che, anche in India, definisce la composizione sociale degli sfruttati e dei dominati.

Un’ultima osservazione critica, che in realtà tuttavia non fa che porre ulteriormente in evidenza l’importanza del libro di Sanyal. A noi pare che il concetto di capitalismo postcoloniale da lui utilizzato abbia una validità che va ben oltre i confini di quello che è stato storicamente il “terzo mondo”. Ci sembra anzi che l’insieme dei processi che abbiamo sommariamente descritto parlando della crisi dello “Stato dello sviluppo” (che deve essere del resto analizzata congiuntamente alla crisi dello “Stato sociale” in Occidente e del “socialismo” nel “secondo mondo”) configurino una situazione in cui è sempre più difficile parlare del “terzo mondo” presupponendone in qualsiasi modo un’omogeneità. La situazione contemporanea è piuttosto contraddistinta da un insieme di tensioni che si scaricano su ogni configurazione stabile dei confini, sui rapporti tra centro e periferia nonché sulla divisione internazionale del lavoro. Questo non significa, evidentemente, che vengano meno rapporti di dominazione qualificati anche in termini “geografici”, ma che questi rapporti vengono definendosi in modo più complesso che in passato. È in questo contesto che la condizione postcoloniale tende a globalizzarsi, e molti dei caratteri che Sanyal attribuisce al capitalismo postcoloniale – la pluralità di tempi e figure soggettive, la mobilità dei confini tra inclusione ed esclusione, la continuità dei processi di spossessamento associati all’«accumulazione originaria» etc. – definiscono il capitalismo globale contemporaneo nel suo complesso. Questo non significa, è bene ripeterlo, che il capitalismo sia il medesimo a Calcutta, a Milano e a New York: radicalmente diversa è la “proporzione”, la miscela degli elementi richiamati, nonché la costellazione dei problemi e delle forze in campo. Ma alcune logiche di fondo e alcune caratteristiche sono ricorrenti, ed è studiando queste logiche e queste caratteristiche che si comprende la natura del capitalismo contemporaneo. Da questo punto di vista, un’analisi di Calcutta può illuminare la condizione che si vive a Milano e a New York: ed è anche per questa ragione che il libro di Kalyan Sanyal è un contributo prezioso per rendere più acuminata la critica del presente globale.

* Pubblicato in Kanyal Sanyal, Ripensare lo sviluppo capitalistico. Accumulazione originaria, governamentalità e capitalismo postcoloniale: il caso indiano, Firenze, La Casa Usher, 2010


M. Foucault, Storia della follia nell’età classica (1963), trad. it. Milano, Rizzoli, 1981, p. 20.

Cfr. rispettivamente G. Cocco – A. Negri, GlobAl. Biopotere e lotte in America latina, Roma, Manifestolibri, 2006, J. Ferguson, Global Shadows. Africa in the Neoliberal World Order, Duhram – London, Duke University Press, 2006 e A. Ong, Neoliberalism as Exception. Mutations in Citizenship and Sovereignty, Durham, NC, Duke University Press, 2006, nonché l’ampia bibliografia ivi citata e discussa.

R. Samaddar, Primitive Accumulation and Some Aspects of Work and Life in India in the Early Part of the Twenty-first Century, Kolkata, Timir Printing Works, 2008 (Mahanirban Calcutta Research Group Publications, “Policies and Practices”, 20).

Cfr. ad es. M. Perelman, The Invention of Capitalism. Classical Political Economy and the Sectret History of Primitive Accumulation, Durham, NC – London, Duke University Press, 2000, M. De Angelis, The Beginning of History. Value Struggles and Global Capital, London, Pluto Press, 2007, D. Bensaïd, Gli spossessati. Proprietà, diritto dei poveri e beni comuni (2007), trad. it. Verona, ombre corte, 2009 e S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Verona, ombre corte, 2008 («Appendice»).

La critica dello «storicismo», secondo modalità analoghe a quelle seguite da Sanyal, è centrale in D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa (2000), trad. it. Roma, Meltemi, 2004.

Basti ricordare i violenti scontri che tra il 2006 e il 2007 sconvolsero Singur, in Bengala occidentale, dopo che il governo di sinistra dello Stato (guidato dal Partito comunista) aveva disposto – sulla base di una legge coloniale del 1894, il Land Acquisition Act – l’esproprio di circa 1000 acri di terra per consentire alla Tata Motors di costruire una nuova fabbrica di automobili.

M. Davis, Il pianeta degli slum, trad. it. Milano, Feltrinelli, 2006.

Si veda in questo senso la ripresa del tema della povertà nel recente volume di M. Hardt e A. Negri, Commonwealth, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2009.

P. Chatterjee, Oltre la cittadinanza. La politica dei governati (2004), trad. it. Roma, Meltemi, 2006.

Cfr. P. Chatterjee, Gramsci nel ventunesimo secolo, in «Studi culturali», V (2008), 2, pp. 201-222 e Id., Peasant Cultures in the 21st Century, in «Inter-Asia Cultural Studies», IX (2008), 1, pp. 116-126.

All’interno del dibattito marxista degli anni Settanta, questo nesso era stato in particolare al centro dell’analisi critica di G. Kay, Sviluppo e sottosviluppo. Un’analisi marxista (1975), trad. it. Milano, Feltrinelli, 1976, a cui lo stesso Sanyal fa del resto più volte riferimento.

Per una documentazione dell’incontro tra critica dello sviluppo e prospettiva «de-coloniale», si veda il recente volume curato da A. Escobar e W. Mignolo, Globalization and the Decolonial Option, London, Routledge, 2009.

Sulle origini del progetto dei «Subaltern Studies», si veda R. Guha – G.Ch. Spivak, Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, trad. it. Verona, ombre corte, 2002. Specificamente sulla storia della classe operaia in India, si veda in particolare – all’interno di questa corrente di studi – D. Chakrabarty, Rethinking Working-Class History. Bengal 1890-1940, Princeton, NJ, Princeton University Press, 1989. Una valutazione critica dell’approccio degli «Studi subalterni» alla storia del lavoro in India, attenta a coglierne meriti e limiti, è in S. Sinha, Arbeiter und Arbeiterklasse im heutigen Indien. Anmerkungen zum analytischen Rahmen und zu den politischen Formierungsprozessen, in M. van der Linden – K.H. Roth (Hg.), Über Marx hinaus. Arbeitsgeschichte und Arbeitsbegriff in der Konfrontation mit den globalen Arbeitsverhältnissen des 21. Jahrhunderts, Hamburg – Berlin, Assoziation A, 2009, pp. 183-217.

D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, cit., p. 22.

Sullo sviluppo storico del dibattito marxista in India, cfr. l’ottima analisi di S. Seth, Marxist Theory and Nationalist Politics. The Case of Colonial India, New Dehli, Sage India, 1995. Di qualche utilità è anche il libro di P. Pagliani, Naxalbari – India. L’insurrezione nella futura “terza potenza mondiale”, Milano, Mimesis, 2007, che ricostruisce la genesi del movimento naxalita, la guerriglia maoista che fin dal suo sorgere negli anni Sessanta del Novecento rappresentò una rottura con l’ortodossia marxista ed è per molti versi all’origine dello stesso progetto dei «Subaltern Studies».

Meriterebbe ben altro spazio di approfondimento, in particolare, il modo in cui Sanyal riprende il noto dibattito sullo sviluppo del capitalismo in Russia tra Lenin e i populisti. Non solo perchè non ci convince il modo in cui l’economista indiano sostiene, retrospettivamente, le ragioni dei narodniki, ma anche per l’eccessiva semplificazione con cui vengono ricostruiti e risolti i termini di una polemica politica che ha avuto carattere epocale. In questa direzione, il rischio è di sovrapporre la fondamentale e rigorosa critica condotta da Sanyal allo storicismo e alla teleologia dello sviluppo, con la liquidazione del materialismo storico. Da questo punto di vista, risulta a nostro avviso poco convincente anche il parallelismo istituito con il dibattito tra Gandhi e Nehru sull’industrializzazione in India. Posta in palio della polemica tra Lenin e i populisti, infatti, non era lo sviluppo della nazione, ma la rottura con il capitale: di conseguenza, i termini del confronto ruotavano non tanto attorno al rapporto tra il marxismo e la concezione stadiale dello sviluppo, ma innanzitutto sulle condizioni di possibilità del processo rivoluzionario e della produzione della soggettività antagonista.

Cfr. in questo senso R. Samaddar, The Materiality of Politics, Anthem Press, London – New York – Dehli, 2007, vol. II, pp. 107-137.

Cfr. ad es. M. van der Linden, Workers of the World. Essays Toward a Global Labor History, Leiden, Brill, 2008. Ma si tenga presente anche Y. Moulier Boutang, Dalla schiavitù al lavoro salariato (1998), trad. it. Roma, Manifestolibri, 2002.

Sul carattere pervasivo della finanza nel capitalismo contemporaneo, si vedano i saggi raccolti in A. Fumagalli – S. Mezzadra (a cura di), Crisi dell’economia globale. Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici, Verona, ombre corte, 2009 (soprattutto il saggio di Christian Marazzi, che ringraziamo per la lettura di una prima versione di questa introduzione e per preziosi commenti a proposito del rapporto tra finanziarizzazione e «non capitale»).

K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-1859), trad. it. Firenze, La Nuova Italia, 1978, 2 voll., vol. I, p. 254.

Cfr. ad es. L. Fortunati, L’arcano della riproduzione. Casalinghe, prostitute, operai e capitale, Venezia, Marsilio, 1981.

Si vedano in questo senso i saggi di Maria Mies (Hausfrauisierung, Globalisierung, Subsistenzperspektiven) e di Max Henninger (Armut, Arbeit, Entwicklung. Zur Kritik der Marx’schen Begriffsbestimmungen), in M. van der Linden – K.H. Roth (Hg.), Über Marx hinaus, cit., pp. 257-289 e 335-362.

Cfr. ad esempio, in questo senso, A. Desai, Noi siamo i poveri: lotte comunitarie nel nuovo apartheid (2002), trad. it. Roma, DeriveApprodi, 2003, J. Auyero, Poor People’s Politics, Durham – London, Duke University Press, 2001 e M. Svampa, Entre la ruta y el barrio. La experiencia de las organizaciones piquetera, Buenos Aires, Editorial Biblos, 2003.

Cfr. B. Neilson – S. Mezzadra, Border as Method, or, the Multiplication of Labor, in «Trasversal», 06-08 (http://eipcp.net/transversal/0608/mezzadraneilson/en).

Cfr. S. Mezzadra, La condizione postcoloniale, cit.

 

 

 

Comments are closed.

Cialis 5 mg senza ricetta Cialis 5 mg effetti collaterali Cialis 20mg in vendita Acquistare Cialis originale in Svizzera Acquistare Viagra senza ricetta in Svizzera Acquista Cialis generico 10mg Acquista Viagra generico in farmacia online Costo di Cialis 5mg Dónde comprar Reduslim online Comprare Spedra Avanafil senza ricetta online Acquista Viagra in Svizzera senza prescrizione precio Cialis 5 mg Dónde comprar Viagra Contrareembolso oferta Cialis 5 mg Ordina viagra Cialis 5 mg efectos secundarios Reduslim funciona soluciones para la impotencia Sildenafil avanafil prezzo cialis 20 mg prezzo cialis effetti benefici cialis 10 mg Reduslim Kaufen method man snoop dogg spedra buy cialis orgeneric tadalafil