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Riproduzione sociale

 

di CRISTINA MORINI

È il 2027 quando Diego Ricardo, la persona più giovane del pianeta, viene ucciso all’esterno di un bar di Buenos Aires, accoltellato da un fan che vuole un autografo. “Nato nel 2009 da una coppia di proletari residenti a Mendoza, Baby Diego aveva 18 anni, 4 mesi, 20 giorni, 16 ore e otto minuti. Aveva sempre mostrato insofferenza per il suo status di celebrità dovuto al fatto di essere l’ultimo bambino nato sulla terra. Ogni istante della vita di Baby Diego ha rappresentato per l’umanità un tragico promemoria. Per quanto se ne sa, il primato passa adesso a una donna: ha 18 anni, cinque mesi e 11 giorni”.

Il dramma dei 18 anni di totale infertilità sperimentati dalla folle e violenta società distopica descritta nel film I figli degli uomini di Alfonso Cuarón, ci porta immediatamente a riconoscere il primo, decisivo, ruolo della riproduzione, ovvero quello biologico:  la sopravvivenza della specie, il riprodursi della vita, l’avere, per poter dare, vita. Questo fondamentale punto di partenza diventa anche la più semplice conclusione della nostra definizione di riproduzione sociale nel presente: l’essere vivi, l’avere vita, l’esistere in vita, assume un significato che supera la funzione “naturale” perché l’esistenza è oggi anche la più immediata e veramente esplicita fonte di creazione di valore economico. Tutto parte da una cognizione obbligatoria eppure incredibilmente disprezzata: senza vita, senza madame la Terre, saremmo tutti morti, monsieur le Capital compreso. Si sottolinea da subito, insomma, il carattere sociale e non meramente “naturale” della riproduzione biologica stessa che può essere, essa stessa, definita “lavoro” poiché presuppone un processo creativo di mediazione in cui sono investiti sentimenti, scelte, energia, fatica e il cui risultato finale è un bambino o una bambina, dunque un preciso valore sociale[1].

Eppure, nei secoli dei secoli la riproduzione è stata dimenticata e descritta solo come antitesi del lavoro “produttivo”. Il lavoro produttivo avviene all’esterno, nel mercato, nello spazio pubblico della città, nella fabbrica; il lavoro riproduttivo si svolge all’interno, dentro le abitazioni, lontano dalle strade: esso è allora l’ombra del lavoro produttivo, il contorno laddove la produzione rappresenta il contenuto. Il femminismo marxista degli anni Settanta e Ottanta ha già spiegato l’origine di questo oscuramento.  Alisa del Re e Maria Rosa Dalla Costa, Lucia Chistè, Silvia Federici e altre[2], intorno a quegli anni denunciano l’esistenza di questo binomio sbilanciato, nato con la divisione sessuale del lavoro e con il contratto sessuale che stabilisce gerarchie cristallizzate ovvero il fatto che sia solo il lavoro produttivo quello in grado di conferire il diritto di cittadinanza.

Questo “lavoro produttivo” poggia su una costruzione ideologica ampiamente trasversale, interclassista, condivisa da etiche religiose ed etiche laiche. Dall’etica protestante-calvinista il concetto si è trasferito all’economia politica, diventando addirittura senso comune, una norma di comportamento, ossia un immaginario centrale per la nostra società. Da Adam Smith in poi, il lavoro “esterno”, quello per il “mercato”, unitamente al capitale (comunque frutto dell’attività lavorativa), è considerato fattore produttivo per eccellenza. Tutto il resto del lavoro viene oscurato, non produce valore – si sostiene – e dunque non ha valore. Sappiamo bene poi che, detto in modo assolutamente sommario, per la teoria del valore di Karl Marx, il lavoro produttivo è quello di chi presta la sua opera per la produzione di beni e merci tangibili che hanno valore di scambio. Il lavoro improduttivo, invece, non fissandosi o incorporandosi in nessuna merce fisica, non valorizza alcuna cosa: è questo il lavoro dei domestici ed è questo il lavoro riproduttivo delle donne.

 

L’arcano della riproduzione stava allora nel suo essere “fase nascosta dell’accumulazione capitalistica”. Maria Rosa Dalla Costa, nel chiarirlo, più recentemente aggiungerà: “Ne svelammo l’arcano ma non il segreto”[3].

Scovare il segreto della riproduzione non è affatto facile. Possiamo andare per approssimazioni empiriche e, come suggerisce Ferruccio Rossi Landi, scrivere un catalogo che vuole dire mettere in fila tutti gli infiniti atti, gesti, scambi, segni, azioni che costituiscono l’essenza dell’esistenza, un processo vastissimo e molto variabile a seconda dei gusti e delle necessità, delle mode, dei posizionamenti[4]. Si tratterebbe innanzitutto di approfondire il concetto di bisogno fondamentale (per chi? dove?). Poi, di ammettere che ogni bisogno porta con sé la creazione di strumenti adatti a esplicarlo (la selce per la caccia, la ciotola per contenere il grano…), processo che non c’entra direttamente con ciò che stiamo descrivendo, e da lì, ancora, la necessità di un’organizzazione conseguente allo sviluppo delle varie azioni (procurare cibo, cucinare, conservare, occuparsi dei neonati o dei malati) con le sue conseguenti gerarchie. Insomma, un catalogo complicato e destinato ad allargarsi infinitamente, detto che, nonostante le cautele prestate, “qualsiasi istanza di riproduzione sociale (…) dovrà accogliere la maggioranza di bisogni e desideri ma non potrà mai accontentarli tutti”[5].

Alisa del Re propone di sistematizzarla in tre campi: il lavoro domestico o lavoro elementare, il più semplice, trasferibile, misurabile, che può essere immediatamente mercificato e sostituito da macchine; il lavoro riproduttivo, ovvero la riproduzione della specie, l’accudimento dei figli; la cura, intesa come ambito nel quale si estrinsecano i rapporti umani, le relazioni, l’affetto, il sesso. Questi tre ambiti possono intersecarsi tra loro: l’ambito riproduttivo ingloba, per esempio, il lavoro elementare e comprende l’intera sfera dell’accudimento delle persone dipendenti (comprese le persone anziane o disabili).

Rossi Landi, per sfuggire alla stesura del catalogo e per tentare una definizione, pensa si possa ricorrere a tre modelli sufficientemente vasti e formali da poter essere applicati a istanze molto diverse della riproduzione sociale. Specifica cioè che l’animale umano viene socialmente prodotto, ri-prodotto e condizionato a tre livelli: “Al livello strutturale (nel circuito produzione-scambio-consumo); al livello dei sistemi segnici, a cominciare dal più importante, il sistema della lingua che è parlata in quella data comunità; al livello post-linguistico, di ulteriore elaborazione, che è quello delle sovrastrutture”[6], ovvero laddove si producono ideologie e consenso, stili di vita, norme comportamentali. Insomma, biopolitica.

 

Benvenuti nel presente

 

Un paracadutista di 41 anni, Felix Baumgartner, di nazionalità austriaca, si è buttato nel vuoto da una capsula spaziale, portata a 39.000 metri di altezza. È precipitato come un missile a 1342 chilometri orari superando la velocità del suono. La società di bevande americana Red Bull ha finanziato il progetto della squadra, lo ha sponsorizzato e ha piazzato sulla capsula 30 telecamere che hanno permesso di seguire ogni singolo momento della missione.

Nel Regno Unito, ogni ciclo di stimolazione ovarica viene “risarcito” con 750 sterline. Con la crisi economica, le donatrici sono aumentate. La fecondazione eterologa (utilizzo di ovuli o sperma non appartenente alla coppia) in Gran Bretagna è ammessa dal 1990 e le donazioni possono essere retribuite. In Gb ha fatto scalpore il lancio (mai concretizzatosi) di una lotteria per vincere un trattamento di fecondazione in vitro, la “IVF Lottery” (“Buy a ticket you could win a baby”): “Chi avrà la fortuna di centrare il jackpot otterrà il diritto a un pacchetto del valore di 25 mila sterline comprensivo di soggiorno in un hotel di lusso, di cure per la fertilità in una delle cliniche specializzate e convenzionate, di autista per il tragitto dall’albergo al centro medico”. In realtà, il fatto che la cura dell’infertilità diventasse oggetto di una lotteria conferma i costi spropositati del processo e la mancanza di copertura delle assicurazioni nel caso di persone in sovrappeso o fumatrici. Oppure le difficoltà per coloro che avuto già avuto figli o sono single.

Negli Usa la vendita di un ciclo di ovociti viene remunerata circa 8000 dollari. Sulle bacheche delle università vengono affissi gli avvisi dei centri che reclutano donatrici: un anno di corso di laurea in legge o in medicina costa 50 mila dollari. Sempre più spesso le studentesse, che la crisi economica costringe al debito, utilizzano questa possibilità per rientrare dalle spese.

 

La Benetton Spa ha lanciato una nuova campagna pubblicitaria“Unemployee of the year”. “Un concorso dedicato ai giovani disoccupati tra i 18 e i 30 anni che cerca di “divulgare un messaggio di speranza e di celebrare l’ingenuità, la creatività e l’abilità dei giovani. La loro capacità di affrontare in modo brillante il affrontare il problema della disoccupazione”. I cento vincitori di questo concorso, che fa esplicito riferimento soprattutto alla necessità di attingere alle attività svolte fuori dal lavoro e ai soggetti NEET, ovvero Not in Education, Employment or Training, otterranno 5000 euro per finanziare la propria idea. “Perdere, anche solo in parte, il contributo, la visione, l’energia di questi giovani è uno dei rischi maggiori (…)” ha dichiarato Alessandro Benetton.

 

Alcuni nuovi studi del MTI e dell’istituto Semel di neuroscienza e comportamento umano della università della California di Los Angeles parlano del computer come di una “forma di cocaina” contemporanea. Analisi che vengono ormai da 15 paesi diversi tendono ad accettare la problematica della dipendenza da internet, dai giochi elettronici e dai social network. Facebook sollecita la compulsività rendendo sempre più vicina la visionaria immagine di un’interazione totale tra uomo e macchina: questa paranoia da presenza costante in fb rientra oggi come problematica in diversi manuali diagnostici e statistici dei disturbi mentali. Secondo una ricerca fatta nel 2008 in California il cervello degli internet-dipendenti si modifica e produce più cellule nervose nelle aree preposte all’attenzione, al controllo e alle funzioni esecutive.

Ricapitolando: è riproduzione sociale tutto ciò che facciamo per dare e restare in vita, per garantire la vita della comunità (preparare il cibo e mangiare, crescere i bambini, occuparci degli anziani) e vivendo (prendere un autobus per andare al lavoro, chiedere un’informazione al conduttore, studiare, trovare una soluzione a un problema, interagire con un collega, scrivere un progetto o una mail, imparare a suonare il pianoforte, la sera). Inoltre: le attività riproduttive si collocano in una relazione verticale rispetto alle altre, cioè permettono, in sostanza, che tutte le altre vengano svolte. Esse stanno alla base, sono il presupposto dell’eterno girare del mondo. Mettendo in gioco relazioni umane, emozioni e sentimenti e non solo forza lavoro, producono anche identità, appartenenze. A questo livello si creano anche le ideologie, le conformità e le prescrizioni.

Dove sta la novità che va sottolineata? La novità sta nei collegamenti possibili tra le teorie inerenti il biocapitalismo cognitivo-relazionale e il tema della riproduzione sociale. Passaggio interessante, drammaticamente contemporaneo e denso di tensioni che si concretizza nel divenire conclamato dell’aspetto sociale della produzione che va analizzato non solo ricorrendo alle leggi economiche ma utilizzando la sociologia economica, la psicanalisi e l’attualità.

La riproduzione è una tessitura, diciamo così, una rete di fattori culturali. E questi fattori culturali oggi assumono significato direttamente a livello dello scambio, contaminando il valore d’uso. Nello scambio il valore d’uso (cioè l’utilità che un certo prodotto ha per un individuo), viene trasformato in valore di scambio (il valore che ha una merce quando si scambia sul mercato). Se il valore d’uso riguarda direttamente il rapporto degli uomini con ciò che “devono usare”, il valore capitalistico della merce si realizza invece nello scambio, vale a dire in quel processo sociale che sta alla base della sua produzione e che consente a diverse tipologie di prodotti del lavoro umano di essere valutate comparativamente. Allora il punto cruciale sta qui, in questo passaggio, nella trasformazione dei prodotti linguistico-relazionali in merci, nella modificazione delle relazioni in commodities. Qui sta il cambio epocale di paradigma produttivo che noi stiamo vivendo, sperimentando: il divenire merce dell’umano, il divenire produzione della riproduzione, l’allargamento e la riattualizzazione della teoria del valore-lavoro. Va segnalato come il lavoro concreto (il lavoro qualitativamente definito, che produce questo o quel valore d’uso) e che costituisce l’unica proprietà del lavoratore libero venga interamente immesso nel processo produttivo trasformandosi in plusvalore. E poiché il processo produttivo prescinde addirittura dal possesso dei mezzi di produzione da parte del capitalista (il mezzo di produzione siamo noi) noi possiamo dire che la trasformazione in denaro della merce prodotta (linguistico-relazionale) assume oggi non la forma del profitto ma quella della rendita. E forse aggiungere che se non prenderemo collettivamente coscienza della profondità e della serietà di questi processi e dispositivi, finirà che il capitale si impossesserà davvero per intero di tutti noi realizzando la massimizzazione del suo interesse per la materia vivente e la maniera di vivere.

Le parole e i messaggi, così come gli oggetti fisici, non esistono in natura, ma vengono prodotti dagli uomini. La nozione che attraversa contemporaneamente questi insiemi che esteriormente sembrano separati (“produzione materiale” versus “produzione linguistica o immateriale”), è la nozione di lavoro. Infatti, sebbene le merci materiali siano ben diverse dai prodotti linguistici o relazionali, il lavoro da cui scaturiscono è in sostanza lo stesso, poiché la nozione di lavoro riguarda l’uomo e la donna, nella loro complessità e unicità a un tempo. Semmai, fino a ora, la nozione di lavoro ha voluto escludere il lavoro cosiddetto ri-produttivo. Come ricordavamo all’inizio, in altre epoche lo scopo del capitalismo industriale era la produzione di manufatti e il tipo di organizzazione a esso connessa necessitava la marginalizzazione formale della riproduzione. Ma, al momento attuale questa esclusione non è funzionale, anzi. Lo schema è saltato, niente è più uguale al vecchio mondo che conoscevamo. Ricordiamoci ancora di Rossi-Landi: “L’uomo è un animale lavorante e parlante che si distingue da tutti gli altri in quanto produce attrezzi e parole”[7].

Attrezzi e parole, dunque. L’attenzione si sposta sugli artefatti, sui mentifatti[8]. Unica accortezza nel seguire questa suggestione che ci aiuta a fare passi avanti: occorre essere consapevoli che le modificazioni arrecate dal lavoro sono intenzionali, a differenza di quelle dell’attività. È lavoro tutto ciò che modifica il mio essere e i rapporti sociali “l’idea di conoscenza sociale che rimanda al concetto marxiano di general intellect, insieme di saperi e conoscenze e competenze che sono frutto delle attività relazionali degli individui all’interno di contesti sociali organizzati”. Se nel capitalismo industriale condizione propedeutica all’accumulazione era il controllo dei macchinari che tendevano a incorporare il sapere tecnico, “nel capitalismo cognitivo l’accumulazione si fonda sulla appropriabilità e sul controllo del sapere e della conoscenza sociale”[9].

Ecco il segreto rivelato della riproduzione sociale. La riproduzione non è più solo la premessa, la prima pietra, il fondamento, il principio disconosciuto della accumulazione originaria, la parte occultata del salario che contribuisce alla creazione del plusvalore, essa è oggi il cuore stesso del processo di creazione di valore generato dall’operaia sociale metropolitana, potenziale motore della sovversione sociale dell’oggi, soggetto prototipico della nostra era. È la precaria, è la sexworker, è la migrante che mette al lavoro il suo corpo e la sua individualità, che rende manifesta la profondità produttiva che noi facciamo, viviamo e siamo.

Niente ha più l’andamento ordinato del fordismo: scomparsi i ruoli, i luoghi, la materialità, la misurabilità. Evidentemente lo scopo del capitalismo attuale è quello di “assorbire e sottomettere, in modo parassitario, le condizioni collettive della produzione delle conoscenze, soffocando il potenziale di emancipazione iscritto nella società del general intellect” come spiega Carlo Vercellone[10].

Riproduzione allora, non solo come lavoro ombra che aggiunge valore alla merce finale, ma come baricentro del processo stesso: dalla formazione al pendolarismo, dal consumo al debito. Chiedere un prestito, fare un mutuo o un’assicurazione per un figlio che deve laurearsi o sulla vita o sulla salute, per la pensione. Categoria che, ancora una volta, non appartiene né al formale né all’informale, senza la quale nessuna merce, né relazione, né rapporto potrebbe darsi. La merce prodotta oggi dal capitalismo cognitivo è consumo, è parola, è informazione, è conoscenza, è mobilità, è desiderio, è narcisismo, è cooperazione, è immagine, è investimento. E il valore fissato in questa merce linguistica/segnica/relazionale prodotta dal biocapitalismo contemporaneo è il tempo, cioè, appunto, vita. Dunque ri-produzione anche nel senso di estensione della produzione all’arco di un’intera esistenza e di tutti i suoi spazi, dal primo vagito alla tomba. Ri-produzione come divenire minore della produzione che non ha più (solo) merci codificate, istituzionalizzate (visibili e tangibili) ma è azione continua e invisibile, cangiante e comune sulla realtà. D’altro lato, “bisogna rendere conto dell’opposizione concettuale tra maggioranza e minoranza, che non si oppongono solamente in maniera quantitativa. La prima implica una costante come unità di misura in rapporto alla quale può venir valutata mentre sarà chiamata minoritaria una determinazione diversa dalla costante e verrà considerata come un sottosistema o un fuori-sistema”[11]. Ciò che la ri-produzione trasforma, la merce che drammaticamente viene trasformata dal processo, producendosi nel lavoro sociale, nelle reti del lavoro sociale, è l’essere umano: è il nostro io nel sociale, nel nostro essere in relazione, facendo leva sul desiderio e sul bisogno che, come sempre, sospingono, dall’origine, invariabilmente, le istanze di ri-produzione sociale. Ri-produzione che non è piatta e lineare, che non si può misurare, che non si può imporre e che pure si impone, che è distante dalla logica dell’efficienza e del profitto eppure genera efficienza e profitto.

Che cosa ri-produrre? Produrre incessantemente immagine, produrre relazione, produrre significati, produrre erotizzazione e diserotizzazione, produrre modelli comportamentali, produrre formazione e codificazione dei saperi. Ri-produrre inteso soprattutto come “produrre infinite volte” perché la materia da produrre non si consuma, non è scarsa, non ha fine e viceversa si sviluppa e si allarga nell’uso. Un “concatenamento collettivo che rende conto proprio delle forze che interagiscono nel linguaggio e nella società” e che comprende anche un  “macchinico dei corpi”, ricordando “la concezione deleuziana di corpo, per la quale i corpi possono non essere fisici ma sociali, morali, monetari – perfino le rappresentazioni sono corpi”[12].

Riproduzione che non ha più lo scopo e il senso, come ai primordi, di ritrovare (far rinvenire) le forze con la pausa, il riposo, la sospensione della fatica una volta arrivati a casa, nel privato, ma che è drammatica esposizione di un continuum pubblico (reperibilità, cellulari, messaggi, internet, contatti) che rende conclamato il fatto che la nostra vita è costantemente produttiva.

 

Questo continuum produttivo non ci sarà remunerato né verrà assennatamente considerato, anche questa volta. Come da sempre accade alla riproduzione, incantesimo della riproduzione e cioè suo arcano, suo ancestrale segreto. Perché non viene remunerata né assennatamente considerata, allora come adesso, in ciò mantenendosi identica? Perché si dà per scontato che essa esista, che essa sia, che, molto semplicemente, non possa non esistere e non essere. Noi non potremmo lasciare la riproduzione senza contemporaneamente lasciare noi stessi. Non può darsi esodo dalla riproduzione sociale. Uscirne (ma è immaginabile, pensabile, desiderabile prima ancora che fattibile?) significherebbe abbandonare ciò che siamo e ci sostanzia attraverso le reti di rapporti nei quali/per i quali esistiamo, condannandoci a una vita di infertilità, solitudine, assenza di stimoli e contatti, parole, carezze, rapporti. Essa è parte di noi.

Perfino gli hikikomori (i reclusi), gruppo di giovani giapponesi di cui si è molto parlato qualche anno fa, che non escono mai di casa e, per quanto possibile, neanche dalla loro stanza, mantengono collegamenti con l’esterno attraverso internet e i mezzi di comunicazione.

Insomma, si può sabotare la produzione, si può praticare l’assenteismo sul lavoro produttivo, ma l’astensione dalla riproduzione è praticamente impossibile. Allora, ciò che dobbiamo fare adesso è puntare a riprendercela, perché è nostra. Un tempo le donne gridavano “L’utero è mio e me lo gestisco io”, a dire di un rifiuto di autorità, di controllo, di denuncia del governo esterno sulla riproduzione biologica e sul suo prodotto, il bambino/a. Ebbene noi dobbiamo puntare a riprenderci tutto intero il nostro corpo-mente e tutto ciò che agisce-pensa. Vogliamo tutto, come sempre.

 

Dunque riproduzione, irrinunciabile e cumulativa. Non soggetta a scarsità e perfino mescolata a spinte etiche. Facciamo l’esempio della materia prima conoscenza, base del capitalismo attuale, facendoci guidare da Carlo Vercellone: “In confronto ai beni classici, le particolarità del bene comune conoscenza consiste, in effetti, nel suo carattere non rivale, difficilmente escludibile e cumulativo. A differenza dei beni materiali, essa non si distrugge nel consumo. Anzi, si arricchisce quando circola liberamente fra gli individui. Ogni nuova conoscenza genera un’altra conoscenza, secondo un processo cumulativo. Per tal motivo l’appropriazione privativa della conoscenza è realizzabile solo stabilendo barriere artificiali al suo accesso. Questo tentativo si scontra però con ostacoli maggiori. Essi riguardano tanto l’esigenza etica degli individui, quanto il modo per cui l’uso delle tecnologie informatiche e comunicative rende sempre più difficile l’esecuzione dei diritti di proprietà intellettuale”[13].

 

Così, alla fine, evidentemente, la riproduzione altro non è che la forma assunta dalla produzione contemporanea. Essa è la forma della produzione impiantata direttamente nella nostra vita, nelle nostre pulsioni vitali,sull’imprescindibile tensione umana a continuare a esistere, a fare, a creare, ad avere cura.

Ciò che è rimasto immutato, nel tempo e nello spazio, è il prezzo della riproduzione: per quanto essa abbia un costo per ciascuna e ciascuno di noi, non ha remunerazione. Per quanto essa possa costituire la sostanza della produzione attuale, la riproduzione continua a non essere vista, a essere considerata un non-lavoro e a essere soggetta a un non-salario. Dunque il biocapitalismo cognitivo ha approfondito straordinariamente la propria capacità di sfruttamento appropriandosi di tutti gli ambiti e rendendoli merce. Poi, allo sfruttamento diretto, implicito nella condizione di subalternità del lavoro salariato, compensato dalla garanzia di sussistenza, ha sostituito il lavoro indipendente, formalmente scevro da qualsiasi rapporto di subordinazione (volontario) ma di fatto subalterno[14]. Questo lavoro impermanente (precario) si è svalutato nell’idea di dono che porta scolpita su di sé, generata proprio, esattamente, dal suo esplicarsi, svolgersi, dentro i meccanismi della riproduzione.

Tutti a chiederci, di conseguenza: ma non esiste più, perciò, misura? Quale misura potremmo darci? E certo non mancano i tentativi di stime algoritmiche e di nuove metriche (opinioni di esperti? numero di citazioni? numero di clic su un articolo? ore-vita trascorse in metropolitana? il tempo passato su facebook?). Tutto ciò attiene all’incerta natura dell’investimento sul capitale umano fatta dal potere ed è questo anche lo spazio che possiamo giocare noi, all’inverso. Per ora, la risposta a questa domanda è politica e interroga prima di tutto noi stessi: la misura si dà al contrario, in negativo, sta nella diminuzione progressiva delle nostre libertà-energie rispetto ai lavori-non lavori riproduttivi-produttivi che facciamo. Sta nel tempo che ci manca, che ci viene continuamente sottratto, che non ci basta più.

Nuove istanze di ri-produzione

 

Il soggetto produttore di ri-produzione ha un’antenata evidente, la casalinga proletaria. Oggi, volendo provare a dargli un profilo potremmo dire che ha tendenzialmente un sesso femminile ma non conosciamo il suo genere, né la sua classe sociale, vive in città e ha un’età imprecisata. Cammina, respira, esiste ma contemporaneamente deve venire al mondo, andando oltre la proprio autorappresentazione, puntando alla collettivizzazione della coscienza di una dimensione che tutte e tutti ci riguarda e che innerva, ormai, come detto fino a qui, ogni recesso del reale.

Riecheggia nelle nostre orecchie un’intuizione di Maria Rosa Dalla Costa: “La donna, proprio perché con il suo lavoro produceva la merce fondamentale per il capitalismo, la forza lavoro stessa, aveva in mano una leva fondamentale di potere sociale: poteva rifiutare di produrre. Per ciò stesso costituiva la figura centrale della “sovversione sociale” come dicemmo nel gergo di allora, cioè di una lotta che poteva condurre a una radicale trasformazione della società”[15].

E dunque siamo chiamati in causa tutte-tutti noi, oggi, noi che produciamo collettivamente, generalmente e al di fuori delle pareti domestiche, la materia prima del capitale, cioè noi stessi. Noi tutti, casalinghe del capitale attuale, che consumiamo il nostro tempo a rassettarne le stanze forse senza neppure accorgerci della fatica che facciamo e come sempre gratuitamente (formazione continua, produzione di curricula continua, ricerca di lavoro continua, attività di relazione continua, cura del corpo continua). Noi dobbiamo trovare un modo di condurre una lotta che ci porti a una radicale trasformazione della società. E poiché abbiamo sostenuto che dalla ri-produzione cognitivo-relazionale non si può uscire – a differenza che dalla fabbrica fordista – dovremmo trovare il modo di tradurci dal mercato capitalistico e dalle sue logiche verso un altrove. Capire che cosa si produce-riproduce e per chi si produce-riproduce. Rifiutarci di riprodurre all’interno di questo schema, essendo forti della consapevolezza che il mondo che ci sta intorno è interamente creato, sin dal principio, dal nostro lavoro sociale.

Il capitalismo industriale ci ha dato pareti e perimetri dentro i quali i rapporti di forza erano chiari. Entro di essi ciascuno poteva giocarsi la propria lotta, riempiendo di senso, politicamente parlando, la propria identità. La donna già allora incarnava il precario attuale (“la donna ha un rapporto di lavoro con l’uomo che viene visto solo in termini personali: è un fatto personale tra la donna e l’uomo che può appropriarsi del suo lavoro”[16]). Questo ordine è saltato e la fabbrica domestica dove si esplicava il lavoro sociale della donna è diventata la attuale fabbrica-città che non tiene in disparte nessuno, vuole tutte e tutti, senza alcun distinguo. Perché, evidentemente, la ri-produzione sociale non può che darsi nella mescolanza delle differenze. Che cosa facciamo di fronte a un processo così vasto? Ebbene, dobbiamo vedere come è fatto (inchiestare la vita). Nessuno di noi può “possedere” la riproduzione sociale ma ciò non è possibile neppure per “loro”, neppure il potere ha questa possibilità. Ognuno di noi ha informazioni generiche sulla riproduzione sociale. Ma vale lo stesso per loro. La riproduzione sociale va avanti – dovremmo dire – per conto suo, ma questo vuole anche dire che non può essere mai del tutto arginata, orientata, piegata. Se ne succhia il valore ma dovendo seguirla sul suo terreno laddove essa si esplica. E il dove potremmo veramente, finalmente, deciderlo noi.

Come abbiamo già detto, starne fuori non è possibile – visto che “la riproduzione sociale è qualcosa da cui non si esce”, pena la fine di ogni cosa – e ciò che abbiamo descritto potrebbe anche essere nominato biopolitica, con i suoi quadri di prescrittività sociale e di appropriazione del vivente: è la società vampirizzata e tradotta in mercato, dove si inducono le condizioni perché l’intreccio degli scambi non venga mai indirizzato a un bene collettivo. Dispositivo di biopolitica che coordina sottilmente la competizione tra interessi individuali, interiorizzati e diversi. Dispositivo di infelicità, presentismo che dà ansia. Che genera depressione perché avvilisce l’essenza della cooperazione (comunanza), esigendo di sussumerla. Ma che, d’altro lato, produce eccedenza, un meccanismo di enorme importanza per l’esistenza, rivincita della vita sulle forme di produzione finalizzate al profitto, trasformazione dei piani della produzione e della riproduzione sociale stessa. Eccedenza che intendiamo come capacità critica e di produzione di pensiero autonomo, di produzione di materiali improduttivi rispetto al criterio di “produttività” relativi alle forma di produzione funzionali al profitto. Dunque anche come capacità di presa di posizione responsabile e di sottrazione alle programmazioni sociali o ideologiche nelle quali si è inseriti.

 

Allora la meravigliosa inevitabilità della ri-produzione, ovvero della biopolitica, potrebbe trovare forme più adeguate, perché autodeterminate, di espressione nel comune, nelle invenzioni del commoning o del comuneismo?

 

Sperimentare forme di vita alternative, sperimentare forme di soggettivazione e di messa in comunione di esperienza e di saperi. Praticare, fuori dalla fabbrica ma dentro la città, forme di riappropriazione di noi stesse. Praticare riproduzione e lavoro sociale fuori dalla produzione, riappropriarci della riproduzione sociale che ci viene espropriata e diventa rendita: tutte sfide nuove di zecca.

I teatri occupati, intesi come spazi della riproduzione (rete di fattori culturali e sociali), ovvero come luoghi che incarnano il precipitato multiforme di una società completamente intrisa di conoscenza, possono essere uno degli esempi di creazione di socialità e di autonomia della riproduzione? I tetti delle fabbriche o delle università dove siamo saliti hanno costituito un primo passaggio: la messa in mostra dei nostri corpi precari, a rischio, autorappresentazione di fragilità ma anche di potenza dentro il dispositivo di biopolitica. Questo esperimento ha però il limite di fermarsi alla testimonianza e alla resistenza. Andiamo avanti: occupare una fabbrica è una vecchia idea che non serve a nulla, mentre abbiamo visto che ai fini dell’evidenziazione della riproduzione sociale espropriata è molto utile architettare un Occupy Wall Street. Un passaggio ulteriore potrà essere giocato dai teatri occupati: essi sono un’opportunità per l’immaginazione e, notoriamente, più che la sofferenza (precarietà e debito con i suoi strascichi demoralizzanti di frammentazione, individualismo, passività, senso di sconfitta) è l’immaginazione a tenere uniti.

In questo senso possono essere pensati e vissuti (i teatri) come esperienze costituenti di rivincita della vita rispetto alla morte dell’economia di mercato? Forma di lotta biopolitica, all’altezza del contesto del biocapitalismo cognitivo? E può essere questo, qualcosa di simile a questo, il comune, qualcosa di simile al coaugularsi di un progetto autodeterminato e consapevole della propria potenza intorno a una comunità (come per esempio la Val di Susa)? Possiamo dire che va posta attenzione a questa nuova istanza di ri-produzione-comune, intesa come una formulazione autogovernata del nostro desiderio di prenderci cura per le cose che ci piacciono e per il mondo? Inventare allora una (bio)politica affermativa capace di generare una nuova prospettiva entro circuiti autonomi, attraverso tattiche performative e attraverso pratiche costituenti, ecco il punto. Se la soggettività prende atto davvero della realtà del bios messo al lavoro, quali allora diventano i punti di leva possibili? Possono essere utili questi tentativi, per farci assumere consapevolezza del ruolo determinante della riproduzione? Possono essere considerati percorsi, processi che ci aiutano a uscire dalle categorie del controllo sociale e dell’interiorizzazione? Sono un modo per riprenderci la nostra vita? Evidentemente, io penso di sì.


[1] Mary O’Brien, The politics of reproduction, London, Routledge&Kegan Paul, 1981

[2]Maria Rosa Dalla Costa, Selma James, Potere femminile e sovversione sociale, Venezia, Marsilio, 1972; Lucia Chisté, Alisa Del Re e Edvige Forti, Oltre il lavoro domestico: il lavoro delle donne tra produzione e riproduzione, Milano, Feltrinelli, 1979; Silvia Federici, “Wages against housework” in Malos E. (a cura di), The politics of housework, London, Allison&Busby, 1980; Leopoldina Fortunati, L’arcano della riproduzione sociale, Marsilio, Venezia, 1981.

[3] Maria Rosa Dalla Costa La porta dell’orto e del giardino, intervento al convegno-seminario del Rialto occupato a Roma 1-2 giugno 2002 in occasione della presentazione del libro Futuro anteriore a cura di Guido Borio, Francesca Pozzi, Gigi Roggero (DeriveApprodi, Roma, 2002). http://www.generation-online.org/p/fpdallacosta.htm

[4]Ferruccio Rossi Landi, “L’autore tra riproduzione sociale e discontinuità: dialogo con Ferruccio Rossi-Landi”, dal seminario “Segno, autore e riproduzione sociale”, tenuto presso la facoltà di Lingue e Letterature Straniere, università di Bari, 19 aprile 1985. Pubblicato a cura di Augusto Ponzio sulla rivistaLectures 15, 1985, pp. 149-172. Nuovamente pubblicato in Corposcritto, 2, 2, Bari, Edizioni dal Sud, 2002, con presentazione di Susan Perilli.

[5]Ibidem, pag 12

[6]Ibidem, pag 11.

[7] Ferruccio Rossi Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato, Bompiani, Milano, 2003, pag. 63.

[8] Chiara Forti, Le redazioni pericolose. Come fare la giornalista e vivere infelicemente, Derive Approdi, Roma, 1999.

[9]Andrea Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo, Franco Angeli, Milano, 2007, pag. 65.

[10] Carlo Vercellone, “La legge del valore nel passaggio dal capitalismo industriale al nuovo capitalismo”, saggio pubblicato in UniNomade,  https://uninomade.org/vercellone-legge-valore/

[11] Paolo Vignola, La lingua animale. Deleuze attraverso la letteratura, Quodlibet, Roma, 2011, pag. 136.

[12]Ibidem, pag, 133-134.

[13]Carlo Vercellone, “La legge del valore nel passaggio dal capitalismo industriale al nuovo capitalismo”, saggio pubblicato in UniNomade,  https://uninomade.org/vercellone-legge-valore/

[14] Fumagalli, cit. , pag. 145

[15]Dalla Costa, cit., La porta dell’orto e del giardino.

[16]Giuliana Pompei, “Salario per il lavoro domestico”, in“L’offensiva”, Quaderni di Lotta Femminista, n. 1, Musolini editore, 1971, pag. 35.

* Pubblicato su “Quaderni di San Precario” n. 4.

 

 

 

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