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Taranto, il paradigma estremo

 

di ROSELLA e SERENA

Adesso è successo di tutto e di più: il fermo dell’Ilva, il Decreto del governo, persino il tornado. E l’Italia si è dovuta accorgere di Taranto, della sua gente che respira polvere di ferro, degli operai che muoiono di cancro, delle madri che sono costrette a dare latte alla diossina ai neonati, e tutti si sono concentrati sull’Ilva per convincersi che hanno un cuore, ma anche per non vedere tutto il resto. Una città di circa 180.000 persone chiusa in una cintura di veleni, perché l’Ilva è solo una parte del problema. In quel “territorio a perdere” ci sono l’Enel, la base Nato con i suoi sottomarini atomici e chissà quali altre diavolerie; l’Arsenale della Marina Militare, la Cementir che scarica nel Mar Piccolo, due tra le discariche più grandi d’Europa e due inceneritori.

Quando noi siamo arrivate a Taranto, a metà novembre, era solo l’inizio di un qualcosa che covava da 50 anni, perché l’Ilva, prima Italsider, ha scaricato i suoi veleni in questa terra della Magna Grecia dalla fine degli anni sessanta. Ma allora l’ambiente era un optional, la provincia di Taranto era democristiana e massona, bisognava fare soldi e inventare un destino industriale per l’Italia , anche laggiù, nel tacco. Adesso i democristiani sono dispersi in altri partiti ma gli usi e costumi di questa classe politica corrotta e mafiosa sono rimasti gli stessi.

A voler conoscere quella realtà in lotta è stata Serena. Il desiderio di Serena era stato mosso da una trasmissione di Gad Lerner, dove erano invitati degli strani soggetti, quasi degli Ufo in quel contesto di gente colta e importante. Anche il nome era fuori luogo “ Comitato Operai e Cittadini Liberi e Pensanti”. Cittadini non è una parola in uso nella politica attuale si preferisce popolo, massa confusa, inconsapevole dei propri diritti da dirigere e comandare. E operai è una parola usurata, come il lavoro che pare sia diventato superfluo, come quegli uomini che quel lavoro in fabbrica lo continuano a fare e, a volte, a morirci. Serena aveva colto qualcosa di speciale nel dilemma di Taranto, qualcosa che non riguardava solo l’Italia e Taranto ma l’intero pianeta. Perché Serena, che è impegnata nella campagna “Da una sponda all’altra: vite che contano” che riguardala questione dei migranti tunisini dispersi in quelli che chiamano, con ironia crediamo, “i viaggi della speranza”, aveva colto anche a Taranto quel paradigma estremo a cui pare il capitale economico finanziario voglia sottoporre il pianeta: chi ha diritto di vivere e chi ha solo quello di morire ma anche la forza e la radicalità delle lotte per la vita . La sua intuizione aveva smosso anche lo scetticismo di Rosella, e tutte e due partiamo per Brindisi.

In aereo ci chiedevamo se non stavamo facendo una cazzata, andare per pochi giorni a non capire niente, magari a rompere chi stava comunque facendo un lavoro politico di base e, forse, rimanere, per l’ennesima volta, deluse dai velleitarismi “sinistri”. E poi, cosa ci entriamo noi, femministe convinte, con questo Comitato di cittadini e lavoratori liberi e pensanti, coniugato anche nel linguaggio tutto al maschile? All’aeroporto sono venuti a prenderci in due, Peppe & Peppe, con la macchina imprestata dal padre di un Peppe, con il calore e il dono dell’ospitalità che è una delle qualità del territorio tarantino, insieme alla testardaggine “spartana”. E con allegria, con conoscenza del territorio e precisione di dettagli, ci hanno raccontato della situazione del territorio e delle loro battaglie, di quel famoso 2 agosto, data spartiacque di un inizio di percorso, che rompe con la rassegnazione e come quel simbolo buffo, semplice e povero, che è l’Apecar abbia sostituito le sigle di partito e di appartenenze.

Perché il progetto è ridare al territorio di Taranto la dignità e chiuderla con quella lunga stagione neocoloniale che ha tramutato una terra bellissima in un magma di veleni dove anche il cibo è un veicolo di morte. Ascoltavamo con attenzione estrema anche per entrare dentro il linguaggio bello e immaginifico che è un effetto indiretto di un dialetto duro, che taglia le parole, che risparmia i finali, roba da duri o da poeti.

Eravamo ospiti a casa di Peppe e Alessandra, che pur non conoscendoci personalmente ci avevano accolto e ci hanno permesso così di vivere almeno tre giorni come tarantine. Alessandra è un giunco dalla volontà inflessibile. Lavora in un call center, arriva a casa alle 15 del pomeriggio. La casa è una cucina, una stanza di disimpegno, un bagno con doccia ricavato dal balcone, come tutte le case di questo quartiere poco lontano dalla via dello struscio di Taranto.

Guardi dalla finestra del bagno il retro dei palazzi sembra e sei al sud. Ogni appartamento si è costruito il suo bagno sui terrazzini, in basso ogni cantina è una casa e nei cortili crescono stanze-case una addossata all’altra. E anche che le persone si parlano dai terrazzini, e sai quando tornano a casa perché l’aria si riempe di note. Ciascuno con la sua musica, melodica o rap, ma tutti in qualche modo tolleranti. L’acqua erogata dal comune cessa dalle 17 alle 6 del giorno dopo. Ogni casa è piena di bottiglie e bottiglioni: quelle per bere (i cassoni sono di amianto), quelle per il cesso, quelle per cucinare. In casa di Peppe e Alessandra c’è l’essenziale: la capacità di accogliere e la gioia che dà avere uno scopo condiviso. E anche qualcosa di più la capacità di stare in relazione con tutta la variegata qualità di gente che vive a Taranto, studenti, operai, disoccupati, migranti, intellettuali, pecorai, agricoltori e malavita piccola e grande. Spiegava Peppe “La maggioranza dei 12400 operai dell’Ilva viene da comuni diversi da Taranto; in città la disoccupazione arriva al 40%. Con queste percentuali è ovvio che ci sia chi si arrangia”. Nel palazzo di Peppe e Alessandra c’è qualcosa di più e di meno di un condominio, c’è relazione. E anche Emiliano, laurea in fisica, lavorava come ricercatore lassù al nord ma è tornato nella sua città a fare l’insegnante e lavorare con l’apecar perché era giusto così. Come Valentina che ha fatto l’università a Bologna ma è tornata per praticare questa trasmissione dei saperi che è uno degli obbiettivi del Comitato.

Mangiando pasta e broccoli e ascoltando il rap di Sciamano che usa la musica per dire quello che vede, un territorio umiliato e ferito. Forse era troppo, e stentavamo a capire quello che vedevamo, qualcosa che ci ricordava i nostri anni settanta, la malinconia di quegli anni e la disillusione che era arrivata dopo. Li guardavamo con amore e con sgomento temendo per loro le ferite che noi avevamo avuto negli ingloriosi anni ottanta.

Tra morte e lavoro scelgo la vita

Poi alle 18 tutti nella piazza del quartiere. Perché quasi ogni giorni il Comitato va in una piazza di Taranto e dei quartieri satelliti a raccontare e ascoltare. La piazza è un rettangolo di cemento circondato da alberi bassi c’è il megafono e l’altoparlante. La gente c’è, quella del quartiere e qualche militante di comitati diversi ma senza insegne, è raccolta in cerchi concentrici attorno al megafono: operai dell’Ilva, appartenenti ai vari comitati cittadini, donne di Taranto, studenti medi, universitari. Più attorno e in ordine sparso, ragazzi in bicicletta e pattini, qualche anziano seduto in panchine di pietre, poliziotti forse, di certo una macchina dei vigili urbani parcheggiata in seconda fila.

In quella penombra da periferia veniva anche un po’ di sgomento. Poi, ascoltando è subentrato lo stupore. Perché la gente di qui dimostra di saper essere cittadini in modo nuovo, parla. E da quello che dicono capiamo che stanno prendendosi in mano il governo della città. E lo fanno con amore, con attenzione per colmare gli opportunismi, gli interessi privati, il disamore insomma, che per 50 anni gli amministratori locali hanno riservato a quel territorio. Parlano di decolonizzazione del pensiero, di come da quel 2 agosto sia iniziato un processo di crescita di consapevolezza e di voglia di protagonismo che sarà difficile fermare. .Gli operai raccontano quello che succede nella fabbrica e prospettano soluzioni, i ragazzi del gruppo“ammazza che piazza” dicono quello che vogliono fare per migliorare il quartiere, gli universitari propongono una Università di Taranto (adesso sono solo succursale di Bari) e di aprire facoltà che siano più funzionali al territorio, gli studenti medi pretendono una cura attenta alla difesa del paesaggio e dei siti archeologici e illustrano progetti, le donne di casa si interrogano su come risolvere la questione dei cibi inquinati, come affrontare i disservizi del comune, le incongruenze dell’amministrazione. Un medico spiega i rischi per la salute, da i dati delle malattie legate all’amianto e tante testimonianze di chi ha i figli con l’allergia, il nipote di otto anni con la leucemia, i padri morti di tumore, di madri che nutrono i figli a latte e diossina. Insomma siamo stupite. Lo stupore di essere in una assemblea di piazza dove tutti o quasi parlano e si raccontano. In italiano, per far capire anche a noi, ma, quando devono essere proprio chiari scappa il dialetto così chiuso e difficile e insieme così espressivo che capisci tutto lo stesso, o almeno ci sembra. In questa piazza abbuiata ci stanno dando lezione di democrazia dal basso.

E poi parliamo con le donne, da donna a donna, per capire la difficile         realtà         che son costrette a vivere, senza lavoro, senza salute, con una triplice         sfida         da affrontare: i soldi per vivere, la salute propria e dei mariti e quella         dei         figli. Denunciano che per fare una mammografia ci vogliono 3 anni, che i ginecologi a Taranto sono tutti obiettori tranne uno, che non c’è nessuno ad aiutarle ad affrontare le loro paure.

E gli operai ci vengono a cercare e spiegano , con orgoglio, di loro, di quel 2 agosto in cui per la prima volta, hanno gridato “il sindacato non ci rappresenta” , ed insieme agli altri cittadini “ io non delego io partecipo” e si sono trovati in tanti dietro quel simbolo povero e potente che è l’Apecar.

Ci spiegano perché hanno deciso di mobilitarsi, le motivazioni e i progetti. “Taranto è una città devastata ma non ce ne andiamo perché questa è la nostra terra”. “Possiamo capire i nostri padri che non sapevano ma noi sappiamo. Sappiamo che ci danno 1300 euro per far morire i nostri figli”. “Sono andato a lavorare a Milano e ho scoperto che possono esistere degli stabilimenti puliti”. “Taranto è una città ammalata di inquinamento e di corruzione”. “Reddito salute ambiente”. Tutti ci dicono “I politici, i militari e le aziende hanno dichiarato guerra alla città. Noi rispondiamo con l’amore per la nostra città”. Strano però, quasi tutti hanno un accenno di

erre moscia, che conferisce una certa aristocraticità alla parlata.

Massimo conta le barche

Ci aveva detto Peppe, “Domani andiamo da Massimo”. E sotto una pioggia decisa e una città virata al grigio ci siamo avviati verso il mare. Massimo Battista ha 39 anni, più che un operaio sembra un giocatore di rugby tipo All Black per via della statura e la dimensione delle spalle, parla con la sapienza del sindacalista con una elegantissima erre moscia. E abbiamo come un lampo di intuizione, capiamo che quella erre ha fatto scuola, come una cosa che inconsapevolmente vien voglia di imitare, come fosse il simbolo stesso del coraggio. perché ci vuole coraggio a reggere l’umiliazione di essere considerato “un uomo inutile” quando si ha intelligenza e forza. Massimo è incazzato e non si può dire che non ne abbia motivo. Nel 2005 era segretario Fiom del reparto Acciaieria 2 dell’Ilva di Taranto. Nota della ghisa nella fase di colaggio: c’è rischio di esplosione. La direzione nega, lui avvisa la Asl che viene, controlla, accerta il rischio e fa chiudere gli impianti. Applausi!? Affatto. Battista è, prima sospeso, poi costretto a dimettersi dal sindacato e, infine, “isolato” nella sede della “Fondazione Vivere Solidale”, dopolavoro Ilva gestito dai 3 Sindacati che per questo ricevono ogni anno dall’Ilva 580.000 euro! Si tratta di un Circolo nautico abbandonato e fatiscente, la piattaforma è sconnessa e cintata, non c’è una barca in grado di prendere il mare, non una sedia sdraio e nessuna famiglia operaia la frequenta da tempo, d’altra parte c’è divieto di balneazione …

”Conta le barche” gli aveva detto il responsabile del personale quando lo ha accompagnato in questo capanno sul mare e, beffa delle beffe, vista Ilva! Arriva alle 7, timbra un orologio che hanno messo in un gabbiotto apposta per lui, esce alle 15, 8 ore filate di bella vita?! “Provate voi a stare 5 anni in isolamento”, dice lui, e trasmette tutto lo sconforto e la rabbia compressa di un uomo forte condannato a non fare niente, a sentirsi “un uomo inutile”. Gli offrono 200.000 euro per licenziarsi, lui rifiuta e resiste.

Massimo, operaio ostracizzato dalla fabbrica perché chiedeva misure di sicurezze, diventa quasi un simbolo, uno del Comitato dei “cittadini e lavoratori liberi e pensanti”. Perché in questi cinque anni di “confino” tra depressione, sconforto, impotenza, ristrettezze economiche (guadagna 1200 euro ma 350 euro vanno per le medicine della moglie allergica al lattice, per il primo figlio che ha il fegato ingrossato e il terzo figlio allergico a tutto) ha cooperato a saldare fabbrica e territorio in un movimento di cittadini e operai che vuole sicurezza e salute per sé e i propri figli. Se l’Ilva se ne va deve lasciare i soldi per la bonifica. Lo dice da anni, con la tenacia e la testardaggine, un po’ cupa, di quelli che non si arrendono.

Torniamo a casa ad aspettare Alessandra, la tavola è pronta pasta e cime di rapa. Mangiamo in fretta perché ci vogliono far conoscere la bellezza della loro terra. E allora andiamo al mare a vedere il tramonto diventare rosa dietro il torrione aragonese , tra i tamarindi e i lentischi che circondano i resti di una villa e le terme romane. Mentre il mare diventa color ametista e onde piccole sfiorano la sabbia dimentichiamo che stiamo respirando diossina. Ci avevano spiegato che le polveri inquinanti arrivano e uccidono il terreno sino a 80 chilometri di distanza.

Al ritorno ci fermiamo al rione Salinella, è il compleanno del papà di Peppe, e siamo invitate anche noi. Si vede subito che non è un uomo di molte parole ma di fatti. Nella piazza davanti a casa, che non era che un terreno spoglio, ha piantato alberi e fiori, va in campagna a spigolare verdure e frutta che poi divide con quelli del caseggiato, lui è fatto così. E la mamma è speciale. La troviamo che sforna focacce ripiene uno dietro l’altra, e si spandono aromi da far venire l’acquolina in bocca. Lei sorride sempre, accoglie sempre e non ha paura di nessuno. Ci è rimasta la voglia di tornare per imparare da lei come essere forti e gentili.

Terre avvelenate

Il terzo giorno di nuovo turismo ma al veleno. Andiamo a vedere l’Ilva quel mostro che occupa un territorio due volte e mezza la città di Taranto. E’ un inferno di ferro arrugginito, di strade che si intrecciano e dall’asfalto corroso, di alberi di eucaliptus che non ce la fanno a crescere, il tronco è grigio come le sterpaglie che infestano i margini delle superstrade. Si vedono fumi densi e auto, gli uomini no. Gli uomini per questo dinosauro di acciaio sono accessori. Uno spazio enorme che arriva sino al porto dove ogni giorno attraccano, anche dopo l’ordinanza del tribunale, navi che scaricano olivina , un materiale a detta di Massimo altrettanto inquinante dell’amianto. Gli addetti scaricano con i guanti ma senza altre protezioni, tanto è chiaro che qui gli uomini sono la merce che costa di meno. Altri operai smantellano strutture ancora in amianto e caricano le lastre sulle navi che le porteranno non si sa dove, anche loro non hanno nessuna protezione e nessun incentivo. Anche loro sono solo merce di scarto.

Il giro turistico al veleno continua nei quartieri di Paolo VI, Statte e Tamburi che è proprio a pochi metri da dove c’è il deposito scoperto dei minerali dell’Ilva. La scuola c’è e grande e ci vanno molti bambini e ragazzi che vivono qui attorno.         Il         sindaco         ha         emanato un’ordinanza che vieta ai ragazzi di giocare all’aperto, ma come vietare alla gente di camminare, di uscire a lavorare, di respirare!

Case bianche è un quartiere dormitorio, ci hanno deportato gli abitanti della città vecchia, la cui popolazione è scesa da 40.000 a 2000. A Case bianche non ci sono giochi per bambini, è una desolazione di case tarlate, dove l’unico supermarket non ha mai funzionato, salvo qualche negozio per le prime

necessità. I servizi di collegamento con la città sono scarsi e hanno orari estemporanei. Da sempre i compagni e le compagne ci lavorano, c’è un murales dedicato a Carlo Giuliani, hanno messo in piedi un doposcuola         e una squadra di calcio per i bambini. Poi c’è Statte , è qui che il tornado ha fatto i danni maggiori e il Comitato adesso è lì a lavorare per ricostruire, perché ci diceva Antonio delle Casa bianche: “Si deve stare in ogni movimento popolare, con umiltà”. E aggiungeva, “A Tamburi, Statte, Paolo VI i quartieri che confinano con l’Ilva non è previsto nessun piano di evacuazione. Se all’Ilva scoppiasse un incendio il disastro sarebbe enorme”. Ci vuole molto coraggio per sentirsi “cittadini” se sei cresciuto qui, respirando diossina, tra alberi bruciati che crescono a stento, dove ogni cosa prende uno strano color rosso ferro, guardando ciminiere che sputano fumo e veleni incessantemente e con la certezza che per loro non ci sarà né un lavoro né un futuro. E’ difficile se nasci qui sentirti parte di un territorio e viverlo

Rifacciamo a ritrosa la via del ritorno, il ponte di pietra e andiamo nella città vecchia.

La città vecchia

sarebbe un centro storico bellissimo, un’isola di palazzi magnifici , testimoni di una passato orgoglioso, adesso sono cariati, neri, abbandonati all’incuria e al degrado. Una città di pietra, il carparo, che forse un tempo era bianco e vista dal mare Taranto doveva assomigliare a un miraggio, troppo bella e unica per essere vera. Ci sono tre chiese che sono dei capolavori. Ma dimenticate, tranne il venerdì santo, quando esce da qui, dalla splendida chiesa del Carmine, la processione del Venerdì Santo.

Nella città vecchia vivono 2000 persone abbandonate qui da una amministrazione che spera solo che se ne vadano e che non li vede, come fossero topi che si nascondano nelle cantine e non persone,non persone che hanno dei diritti. E loro si sono arresi, stanno qui rubando le briciole di una società che non li vuole vedere. Visitiamo il comitato di quartiere città vekkia vicino alla casa che fu abitata da Paisiello. Una sorta di presidio nella terra di nessuno. Ci abbiamo incontrato Antonio,“il pecoraio”, era lui che custodiva, 4 chilometri da qui, il famoso gregge di pecore macellate per ordine del tribunale perché avvelenate dalla diossina. C’è anche Minuddo, è un omino sorridente, fiero di essere come tutti, a rotazione, un portavoce del Comitato. perché tutti, a rotazione, devono essere i portavoce, anche lui che non ci voleva andare, che aveva paura del microfono. Poi ce l’ha fatta, è salito sul palco e ha detto, “grazie di essere compagni”, ed è sceso. E in quelle quattro parole aveva detto tutto, tutto quello che importava dire, grazie per essere solidali, per condividere conoscenze, per farci credere che ci sia anche il futuro.

La Città Vecchia è un’isola abbandonata, guardata con ingordigia da chi vorrebbe investirci soldi per guadagnarci altri soldi. Gli abitanti si sentono assediati e disprezzati, gente della città vecchia, ladri e poveri. Quando vanno “oltre il ponte girevole” dicono : Andiamo a Taranto.

La riunione organizzativa del comitato

Mangiamo in allegria e fretta pasta al forno e funghi raccolti dal papà di Peppe. Alle 18 è convocata l’assemblea settimanale del Comitato, come sempre all’aperto perché il Comitato non ha sede. Questa volta è nel cortile della Taranto supporter con le bandiere rossoblu della squadra e la scritta “tradizione spartana, orgoglio tarantino”. Tutti in cerchio come indiani attorno al fuoco, in una notte scura e umida sperando che non ricominci a piovere. Qualcuno seduto altri in piedi, come si può e nessuno si muove. Ci sono cosa da decidere. Non è facile perché l’incalzare dei fatti dell’Ilva continua a premere sul Comitato costringendolo a misurasi con decisioni dettate da altri. L’Ilva chiude, no risana, l’Ilva mette in libertà gli operai, no in cassa integrazione, la Fiom vuole portare gli operai a Roma, i centri sociali di Milano, Genova, Padova chiedono che qualcuno vada a parlare con loro, gli operai della Thissen, della Beltrami, della Lucchini vorrebbero venire… Tutta Italia si è accorta di loro e li tirano per la giacchetta un po’ di qua un po di la. E qualcuno si esalta, vorrebbe fare tutto, ma il Comitato è una cosa troppo seria per dilapidare energie disperdendosi, loro un progetto ce l’hanno: la conversione ecologica degli impianti Ilva e magari anche del resto. Vogliono un lavoro compatibile con l’ambiente. Vogliono un ambiente bello per i loro figli e per se stessi. Vogliono, intanto, organizzare la manifestazione del 15 dicembre, e convincere la città, tutta, che qualcosa si può fare, scuoterla dall’apatia, da quell’eterno “che me ne fotte” che è una sprezzante difesa dalle troppe disillusioni subite. Intanto 5000 CD saranno distribuiti agli operai, anche la comunicazione di lotta si innova se sei “libero e pensante”.

E però qualcosa mancava, le donne a taranto ci sono e sono forti, ma sembrano soverchiate da questa presenza maschile. E allora ci era sembrato un po’ supponente e ingrato tacere. Serena si segna per parlare. Dice che ci aveva convinto il modo con cui loro si muovevano, fuori dall’ideologia ma con determinazione e attenzione al lavoro, all’ambiente ma anche a un modo diverso di vivere, fuori dalla merce. Che ci aveva entusiasmato quel prendersi cura della città con uno sguardo quasi femminile, ma che le donne protagoniste in piazza non lo erano altrettanto all’interno dell’assemblea. E sottolineava come senza la presenza attiva delle donne questo movimento rischiava di non avere le gambe per andare avanti. Tutti hanno applaudito, le donne presenti di più.

Il ritorno

Prima di salutarci Peppe ci aveva detto che sulla questione delle donne avevamo avuto ragione; che lo sanno, ma che sono incalzati dai troppi avvenimenti. Concludeva: “Compagne venite e fermatevi abbiamo tanto da fare insieme”. E ci ha inchiodato alle nostre parole richiamandoci all’azione. Allora abbiamo capito, intimamente, quello che loro stavano praticando: partire dal basso, usare il linguaggio della gente non per populismo ma per capire, non delegare ma partecipare, accogliere, spiegare.

Siamo partite titubanti ritorniamo cariche di energia. E’ stata una bella esperienza e vogliamo raccontarla. Ci rendiamo conto che la loro disponibilità e la loro capacità di accogliere e spiegare ci ha fatto capire tante cose non solo con la testa, ma anche con la pancia. Ci diciamo che abbiamo rincominciato a respirare in un luogo pieno di diossina. Ci vien da ridere, ma è un riso amaro: possibile che siamo così attaccate alle nostre miserie che dobbiamo arrivare a questo punto per imparare a respirare, a sognare , a immaginare, a praticare un altro tipo di vita? E ci sentiamo anche un po’ spocchiose, con tutti i nostro distinguo . Le donne di Taranto sono forti e combattive ma come possono contare di più se il problema principale di una parte del movimento femminista sembra essere quello della rappresentanza? Se non si ragiona su tutti gli aspetti della vita?

* Pubblicato su leventicinqueundici.

 

 

 

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