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Tra eurocrisi e crisi globale: allargare l’inquadratura

 

di RAFFAELE SCIORTINO

A partire dalla scorsa estate la crisi globale ha investito pesantemente i debiti sovrani europei e l’Italia. Tra gli avvertimenti “performativi” dei soliti noti sul rischio (reale) di disfacimento della moneta unica e il delinearsi di una strategia di risposta di Berlino, si è iniziato a intravedere lo scontro in atto tra i centri finanziari anglosassoni e l’Europa. Ma il dito è rimasto puntato contro una generica “speculazione” e al tempo stesso, con il procedere incalzante delle politiche di austerity “consigliate” da Ue e Bce e portate avanti da “sobri” governi di tecnici, l’attitudine anti-tedesca è andata facendosi quasi senso comune.[1]

Si tratta di posizioni confuse e ancora fluide nello spettro politico, trasversali alle embrionali dinamiche sociali. E’ su questo sfondo, destinato a rapidi slittamenti, che si tratta di fare il punto sull’eurocrisi provando a individuare una logica specifica dietro gli eventi e quelle linee di tendenza che condizionano aspettative e umori delle classi sociali.[2]

 

Boccata d’ossigeno nell’empasse globale?

Dopo alcuni mesi di fuoco, con i cambi politici in Grecia Spagna e Italia e il declassamento finale dei debiti sovrani di mezza Europa, a inizio 2012 le prospettive per l’euro e l’Unione Europea sembrano a molti meno buie. Che i mercati permettano di tirare un po’ il fiato è dovuto in prima battuta all’operazione Draghi di fine dicembre grazie alla quale la Bce ha elargito alle traballanti banche europee quasi 500 miliardi di euro di finanziamenti a tre anni a tasso simbolico in cambio di collaterali svalutati o emessi ad hoc purchè, attenzione, garantiti dagli stati[3]. Si è trattato di una risposta obbligata, senza dubbio concordata con Berlino, a fronte di un gravissimo credit crunch e delle necessità di ricapitalizzazione che dall’autunno hanno quasi paralizzato la finanza privata europea oberata da titoli tossici e titoli di stato periferici svalutati. Il cortocircuito rovinoso tra banche e finanze pubbliche è, pare, transitoriamente stoppato. Ma la boccata di ossigeno resta basata su un’enorme partita di giro che non solo va a pesare in ultima istanza sui bilanci statali ma non è neanche detto si stabilizzi sull’acquisto da parte degli istituti finanziari dei titoli di stato europei sotto attacco, nonostante un lucroso carry trade del 5-6%. Ancor meno le banche hanno ripreso a far credito a famiglie e imprese. A fine febbraio, comunque, la Bce replica con l’obiettivo di mettere al riparo le banche dai rimborsi in scadenza previsti per tutto quest’anno (800 miliardi).

Questo la dice lunga su quanto la situazione europea resti precaria tra fuga di capitali dall’euro e costi del finanziamento sovrano (1,7 trilioni di bond in scadenza nel 2012, 350 miliardi per l’Italia) che oramai oscillano su livelli alti da cui difficilmente si scenderà in un quadro di accresciuta competizione globale per cash “buono” (11,5 trilioni di scadenze di debito pubblico nel mondo). Nel frattempo il default greco è un fatto e si attende solo di vedere a quali condizioni e con quali le conseguenze potrà essere rubricato come “volontario”, mentre si approssima quello portoghese. Più in generale, è prevista recessione in buona parte dei paesi europei, con rallentamento anche per l’economia tedesca. La debole prospettiva di crescita negli States, dove sembra però evitato il temuto double dip, costringe la Fed a garantire tassi quasi nulli fino a tutto il 2014 e preparare un probabile terzo Quantitative Easing, nel quadro di un rallentamento globale dovuto anche alle crescenti difficoltà dei paesi emergenti.[4]

L’epicentro della crisi sembra essersi spostato in Europa. Spontaneamente?

 

Chicken game

A metà dello scorso anno, con l’esaurirsi degli effetti dell’iniezione di liquidità della Fed[5] e il rischio di una seconda recessione statunitense, si assiste a un ulteriore affondo dei fondi speculativi contro i debiti sovrani europei. Che non solo spinge Italia e Spagna nella pericolosissima zona grigia tra crisi di liquidità e insolvenza, ma tocca seriamente la Francia e il suo sistema bancario[6]. Crisi dei titoli di debito pubblico e svalutazione degli attivi delle banche europee -lasciate a secco di liquidità dal ritiro simultaneo dei fondi monetari statunitensi- si rincorrono circolarmente mentre la stessa moneta unica entra nella zona a rischio.

Il calcolo duplice[7] è di lucrare sul deterioramento dei bilanci pubblici e dare un serio avvertimento all’Europa, ovvero Bce e soprattutto governo tedesco, perché garantiscano in maniera più sostanziosa e certa i debiti della periferia. Di fronte al rischio di secche perdite reali, fin qui evitate dagli interventi statali ma oramai all’ordine del giorno come evidenziato dalla vicenda greca, le richieste sono chiare. Che la Germania salvi l’euro… dai mercati finanziari (!), sentenzia Georg Soros che propugna gli eurobond.[8] Ovvero, come ribadirà il NYT a commento del vertice europeo dello scorso dicembre, l’austerity europea non va bene, bisogna stampare più moneta, la Bce deve fungere da prestatore di ultima istanza e salvare i piigs, la Ue deve diventare una vera transfer union dal centro ai paesi della periferia per stimolare la “crescita”, insomma la Germania deve fare la sua parte.[9]

È qui la convergenza che, senza bisogno di ricorrere a tesi complottiste, vede Washington e Wall Street più… “europeiste” e “keynesiane” di Berlino occhieggiare interessate a ponti in funzione anti-tedesca con i governi europei che hanno maggiori difficoltà di bilancio (prima la Francia del galletto Sarkozy, ora l’Italia del trio Napolitano-Monti-Draghi)[10]. Il rigonfiamento dei debiti statali europei garantito dall’Unione dovrebbe fare un po’ da bolla sostitutiva per rimpinguare i profitti della finanza. Oltre Atlantico, se non in una parte minoritaria dell’èlite, non si vuole per ora la fine dell’euro ma rilanciare una “crescita” basata su un nuovo giro di privatizzazioni dei servizi pubblici e sull’acquisizione a basso costo e/o l’eliminazione selettiva di banche e pezzi dell’apparato produttivo europeo da parte dei flussi finanziari che sfruttano l’eurocrisi.[11] È questo il chicken game[12] in corso tra Washington/Wall Street e Berlino spinto finora non all’estremo limite per timore di un incasinamento complessivo. La coppia grande finanza-Obama ha rovesciato il tavolo: l’epicentro della crisi non sarebbe più negli States ma in Europa!

Dunque l’eurocrisi è un passaggio cruciale della crisi globale che, nel deterioramento generale della situazione, sta dando luogo ad una guerra finanziaria anche nel campo occidentale: tra dollaro e euro, tra finanziarizzazione transnazionale intrecciata con e garantita dal potere imperiale statunitense e finanziarizzazione in salsa tedesca ed europea.[13]

 

La strategia di Berlino

Se la Germania accettasse il programma di cui sopra dovrebbe garantire con il proprio bilancio i debiti europei per evitare alla finanza internazionale “default disordinati” e perdite reali (su interessi, derivati, cds…) ma vedrebbe da qui a breve deteriorata la capacità di raccolta sui mercati e aumentata la forza di ricatto da parte dei centri del potere finanziario. I buoni del tesoro statunitensi continuerebbero a rappresentare il “porto sicuro” per il risparmiatore globale impaurito, permettendo al complesso Usa Fed-Tesoro la raccolta di risorse finanziarie a tassi bassissimi e l’emissione di liquidità con cui tenere in vita il sistema bancario, mentre l’euro risulterebbe seriamente indebolito come moneta mondiale di riserva potenzialmente concorrente rispetto al dollaro. Non solo: la conseguenza indiretta sarebbe di ridurre l’apparato produttivo europeo (tedesco in primis) a fungere da sottostante, attraverso la gigantesca ipoteca sui debiti pubblici, per un nuovo giro di finanza speculativa.

L’Europa e l’euro, quindi, interessano a Berlino ma non certo alle condizioni di cui sopra. Per questo il governo Merkel sta resistendo in tutti i modi alle pressioni per una politica monetaria e fiscale anti-rigoriste. Non senza contraddizioni[14] e assai pragmaticamente sta emergendo sulle varie questioni un approccio unitario che si sta imponendo agli altri partner europei. Nei vertici europei di inizio dicembre ’11 e dello scorso fine gennaio è passata la strategia di evitare nuovi indebitamenti che indebolirebbero ulteriormente l’euro e, se accollati a un bilancio europeo unico, metterebbero a rischio il bilancio statale e la competitività dell’industria tedesca. Di qui la rigida disciplina fiscale (fiscal compact) anche a costo di scontare un rallentamento dell’economia tedesca ed europea e la rottura con Londra.[15]

Solo così Berlino è disponibile a che la Bce monetizzi parzialmente e indirettamente i debiti sovrani europei e sia varato un fondo salva-Stati effettivo accedendo eventualmente e solo in un secondo momento all’emissione di eurobond. Ma, appunto, non alle condizioni della finanza statunitense-britannica bensì a quelle che Merkel ha così sintetizzato: erst sparen, dann retten. Prima risparmiare, poi decidere se e cosa “salvare”.

Contestualmente si sta giocando la partita del “default volontario” della Grecia in cui Berlino nel mentre punta a eliminare titoli tossici limitando, anche con perdite per le banche europee, l’emissione di nuovi debiti, insieme lancia un blando avvertimento alla finanza speculativa (cui pure viene risparmiato il pagamento dei cds). In questa direzione Merkel sta avanzando[16], con notevole consenso interno, alcune timide proposte di “regolazione” della finanza (tassazione, agenzie di rating, limitazione delle vendite allo scoperto, ecc.).[17]

È chiaramente un compromesso, non una strategia di scontro diretto con Stati Uniti e finanza internazionale. E non è detto che riesca a salvare l’euro, per il qual caso è probabile che a Berlino si stia pensando, come ultima ratio, a un piano B di fuoriuscita dalla moneta unica. Inoltre, è da vedere come le popolazioni della periferia europea -ma anche dell’Europa Orientale: vedi quanto si muove in Ungheria e Romania- reagiranno alle conseguenze della shock therapy praticata in vivo sulle loro carni, e se la crisi darà tempo alla strategia tedesca di consolidamento o non si cristallizzeranno piuttosto, in un quadro di frantumazione, il sentimento anti-Berlino da una parte e la speculare chiusura del proletariato tedesco dall’altra.

 

La posta in palio

È bene chiarire che in gioco non è un rinnovato great game tra “speculazione” anglosassone e produzione “reale” tedesca. La finanziarizzazione, a suo modo “produttiva” in quanto condizione dello sfruttamento e dell’espropriazione, è oggi la forma generale che ha assunto l’accumulazione capitalistica. E tanto Obama quanto Merkel hanno in progetto politiche di lacrime e sangue tese a captare a scala globale più consistenti flussi di valore. In gioco è piuttosto l’euro come progetto alternativo, o comunque concorrente, al dollaro e dunque, se vogliamo, una diversa finanziarizzazione europea sotto egida tedesca.

È sotto gli occhi di tutti che nella crisi in corso il salvataggio della finanza statunitense e britannica (“transnazionale”) sia stato possibile grazie all’uso tutt’altro che neutro del dollaro come moneta mondiale – oltrechè al ruolo di Washington come unico garante militare dell’ordine internazionale. Il dollaro ha permesso e permette di scaricare sul bilancio statale senza vincoli esterni (almeno a breve e medio termine) l’enorme creazione di liquidità[18] che ha salvato i bilanci delle banche accorciandone la “leva” e sostenuto i valori del mercato finanziario e quindi, in netta divergenza dal 2010 rispetto alle borse europee, il recupero di Wall Street e della City, ripristinando i margini di profitto anche delle multinazionali Usa. Parte dell’enorme debito accumulato dai privati viene così monetizzato e scaricato, oltrechè sul “ceto medio” interno colpito dal crollo dei patrimoni azionari e immobiliari, sugli attori internazionali: Cina e Giappone massime detentrici di riserve in dollari e di bond del Tesoro americano, e ora l’Europa. Il deleveraging come arma nella crisi!

Ora, il progetto Euro era stato pensato proprio per limitare il signoraggio del dollaro. Si trattava non solo di attrarre capitali ma costruire un polo finanziario europeo in grado di appropriarsi del valore globale agganciando la crescente produzione dei paesi emergenti e al tempo stesso allentando il legame con la bilancia dei pagamenti statunitense. Dopo la riunificazione la potenza economica tedesca ha iniziato ad accentrare a sé l’economia continentale non solo sotto il profilo produttivo, costituendo filiere oltre confine, ma anche finanziario riciclando i surplus commerciali all’interno della Ue grazie alla politica di bassi tassi di interesse della Bce verso le banche della periferia (siamo quindi ben oltre un mero neomercantilismo basato sui flussi commerciali). La piattaforma continentale è stata così utilizzata per una proiezione verso la direttrice Russia-Cina oggi ben visibile. Una Bce come “prestatrice di ultima istanza”, vera banca centrale, sarebbe potuta venire al termine di questo percorso di più profonda integrazione economica e politica a scala continentale, e non prima.

Con la crisi però questa finanziarizzazione in salsa europea in fieri ha incocciato non solo con il carattere predatorio della finanza anglosassone, ma anche nella contraddizione tra un apparato industriale tedesco che necessita di mercati di sbocco esterni e lo scoppio della bolla che sta travolgendo la costruzione europea. La finanza europea è risultata molto più invischiata, e subordinata, nella rete dei derivati statunitensi da cui pure tutti i soggetti europei, cicale e formiche, nella fase “allegra” della globalizzazione hanno succiato. Adesso arriva il conto. Una situazione finora tamponata da Berlino grazie alle misure di supporto alle proprie imprese e banche -che però ha fatto crescere il debito pubblico a oltre l’80% del Pil- e alle esportazioni che hanno beneficiato degli stimoli monetari varati dalla Cina allo scoppio della crisi. Ma fino a quando? È evidente comunque che il fallimento del progetto europeo darebbe un duro colpo non solo ad una politica europea più indipendente rispetto al partner atlantico e proiettata verso Russia e Asia ma anche alla velleità di uscita dalla crisi con un assetto geoeconomico globale tendenzialmente multipolare che bilanci in parte l’unipolarismo militare statunitense (il che spiega la grande preoccupazione di Pechino e Mosca).

Insomma, “fare come la Fed” stampando moneta alle condizioni date -cioè senza aver potuto imporre l’euro come moneta di pagamento internazionale ai danni del dollaro[19]- significherebbe per la Bce girare su Berlino e l’Europa crediti freschi esigibili dalla finanza internazionale, dunque un’enorme ipoteca sulla produzione attuale e futura. Tutt’altro dal deficit spending keynesiano pro investimenti e consumi di cui si parla con tanta nostalgia ma molto a sproloquio…

 

Un nuovo passaggio della crisi

Dietro questo scontro si delinea un passaggio ineludibile: la svalorizzazione dell’immane massa di capitale fittizio (Marx) accumulato nel ciclo più che trentennale della crescita attraverso debito. Un ciclo che ha alle spalle indubbi successi per il capitale, costruiti sullo spartiacque degli anni Settanta intorno a tre nodi cruciali: lo sganciamento dollaro-oro dell’agosto ’71 che ha aperto all’autonomizzazione della moneta, il rapprochement sino-americano del ’72 che ha scompaginato il bipolarismo postbellico e aperto la Cina al mercato mondiale[20] scomponendo il fronte dei paesi della periferia, infine la reazione vincente contro il lungo ’68 con l’inglobamento delle sue istanze sociali compatibili fatte confluire nel processo multiforme della finanziarizzazione (con l’eclissi della vecchia sinistra). Sotto questa luce la finanza è divenuta la modalità di accumulazione che ha permesso all’imperialismo occidentale di centralizzare il valore prodotto nelle nuove officine globali e di mercificare e sussumere sotto il profitto tendenzialmente tutte le attività lavorative e riproduttive accrescendo enormemente la pressione sul lavoro in cambio di un consumo, reale o atteso, finanziarizzato.[21] Al tempo stesso questa modalità ha spinto all’estremo il meccanismo con cui la moneta di credito creata dai mercati finanziari ha potuto rilanciare con continue anticipazioni sul valore futuro il ciclo della riproduzione di capitale.

Oggi ciò sembra essere giunto al capolinea. Di fronte all’enorme divario scavato rispetto al valore reale accumulato e alle resistenze sociali la moneta si è rovesciata in debito non solvibile: capitale fittizio con inadeguato sottostante, faccia perversa di una produttività senza pari della cooperazione sociale ma trattenuta all’interno dei vincoli del tempo di lavoro e del profitto. Di qui l’apparente assurdo della necessità di distruggere capitale, contabile e fisico, morto e vivo, per ricostituire i margini di profittabilità ed eliminare il debito. Problema reso ancora più urgente dall’incredibile iniezione di liquidità con cui il “keynesismo finanziario di emergenza” ha evitato il tracollo del sistema finanziario ma non ha rilanciato la ripresa produttiva aprendo anzi alla speculazione contro gli stati.

Il processo di svalorizzazione è già in corso, ed è andato più avanti negli Stati Uniti -monetizzazione dei debiti e fallimenti di banche, svalutazione di fondi pensione, fallimenti individuali, crollo dei prezzi delle case, chiusura di fabbriche- dove i costi sono più facilmente scaricabili all’interno -pur entro certi limiti pena un’esplosione sociale- e, per le ragioni, viste all’esterno attraverso il meccanismo di ripianare debito con moneta.[22] Mentre è appena iniziato in Europa. Non sarà un processo né indolore né equamente ripartito: il punto è chi sarà costretto a bruciare più capitali degli altri cancellando crediti inesigibili, a perdere pezzi del proprio sistema bancario e produttivo, a rinunciare al corrispondente prelievo sui flussi di valore, a mettere a disposizione di altri il risparmio della popolazione (Italia: de te fabula…). Inevitabile che si apra un ulteriore terreno di scontro tanto più se si andrà a un abbattimento secco dei debiti pubblici.[23] Con in più, per l’Occidente, la difficoltà crescente sia a scaricare l’onere sul resto del mondo sia a procedere alla svalorizzazione in un quadro di intreccio spinto della finanza internazionale. Contestualmente, a riprova che la finanza è “reale”, si fa fortissima la pressione non solo ad aprire al mad money welfare, servizi e altri campi ma anche a “liberare” il lavoro da ogni residuo vincolo per i profitti. E voilà la ricetta della crescita

Dunque: lo scontro sulla ripartizione delle perdite è anche scontro tra differenti strategie di uscita dalla crisi in relazione a possibili nuovi assetti globali e di classe.

 

Geopolitica della crisi

La ripartizione dei costi dell’economia del debito è una peculiare guerra. Che non cancella ma accentua i risvolti propriamente diplomatici, militari e geopolitici. Questi risvolti sono spesso e volentieri un ulteriore elemento rimosso dal dibattito. Eppure qualcosa sta succedendo se solo si pensa al détournement obamiano della primavera araba, all’intervento militare in Libia (e in Siria?) [24], al riorientamento assertivo di Washington in Asia Orientale. Mentre Cina e Giappone siglano un accordo sull’abbandono del dollaro per le loro transazioni commerciali[25] e la Germania, contraria all’impresa libica, guarda a Est.

Non è qui possibile trattare questo tema che va visto come parte integrante della dinamica della crisi globale. Va però almeno ricordata, a proposito della discussione sul supposto declino americano, la capacità degli Stati Uniti, incrinata ma non scomparsa, di farsi soggetto di ordine per l’insieme del sistema capitalistico, senza sostituti credibili in vista. È su questa rendita di posizione sistemica, poggiante su un apparato militare -cognitivo ancora ineguagliato e sull’intreccio “dialettico” con la finanza globale, che Washington può permettersi di fare ciò che il suo indebitamento vieterebbe a qualunque altra potenza. Certo, l’ordine globale si è fatto liquido e la risposta statunitense è reattiva e non una effettiva Grand Strategy. Ma ciò più che rinviare in prospettiva alla successione egemonica di un’altra potenza in ascesa va forse letto nel quadro del possibile sfrangiamento del sistema internazionale. Il che configura una situazione ibrida fra una configurazione imperiale, con dinamiche competitive sussunte a una gerarchia polimorfa ma in ultima istanza unitaria, e una dinamica imperialistica, con la competizione che alla fine prevale sulla cooperazione intercapitalistica.

I passaggi successivi della crisi potrebbero gettar luce sull’interrogativo se si va verso la costruzione di un fronte alternativo agli Stati Uniti oppure verso il ricompattamento occidentale intorno alla prospettiva, indicata da Obama, di distruzione creativa del Medio Oriente e di co-engagement della Cina o se invece il doppio legame sino-americano tiene. La vicenda iraniana sarà al riguardo un test significativo.

 

Il quadro complessivo lascia almeno tre grossi nodi politici. Come acquisire una posizione autonoma contro le politiche europee di macelleria sociale senza cadere in nostalgie sovraniste antitedesche o in retoriche anti-“speculazione anglosassone”. Come coniugare lotta su diritti lavoro e vita con lotta costituente sul terreno del debito evitando la rincorsa a soluzioni “dall’alto” del rischio default. Infine, strettamente intrecciato, come superare la falsa alternativa tra politiche di svalorizzazione da un lato e “keynesismo finanziario” dall’altro prendendo atto, dentro l’irreversibile integrazione degli stati al nuovo Finanzkapital e la trasformazione profonda della composizione di classe, dell’eclissi di un uso antagonistico possibile del debito e della spesa statale. E, allora, quale programma possibile per il movimento reale?



[1] Anche a sinistra. Mario Pianta: “La decisione su quanto accadrà… è stata espropriata dal potere della Germania.. la terza volta in un secolo; a ricordarci che il pangermanesimo è qualcosa che deve essere superato fu il ministro degli esteri Andreotti [sic!]” (Il Manifesto, 27/11/11). J. Halevi elogia la “valida analisi condotta da S&P’s”, Fmi, Georg Soros e Financial Times contro la politica di austerity di Berlino (Il Manifesto, 27/1/12). Peculiare politica delle alleanze del keynesismo di sinistra! Sul sito di Micromega un esempio invece del confronto fra le due linee pro e contro Berlino: http://temi.repubblica.it/micromega-online.

[2] Tasselli di questo ragionamento nei miei Mr. Obama, Frau Merkel e la finanza (ora in Obama nella crisi globale, Trieste 2010) e Eurocrisi eurobond lotta sul debito (Trieste, 2011) nonché nel lavoro di N. Casale Alimentare la bolla o sgonfiarla?, dicembre ‘11, in rete.

[3] Le banche italiane sono quelle che più hanno utilizzato la linea di credito Bce dopo il regalo del governo Monti inserito nel decreto salvaItalia. Il dispositivo è ben spiegato in Corsa delle banche italiane all’asta Bce di M. Longo, IlSole24ore del 21/12/11. Vedi anche di A. Pagliarone I derivati sui titoli di stato come arma di distruzione di massa, in rete.

[4] Vedi il World Economic Outlook di gennaio del Fmi, il report di P. Boone e S. Johnson per il Peterson Institute sulla crisi europea, sempre di gennaio, e per la debolezza dell’economia statunitense, tra gli altri, il post Charting The US (Un)Recovery (http://www.zerohedge.com/news/us-unrecovery).

[5] Vedi il mio Fine del change? Linee di faglia negli Stati Uniti, novembre 2010, https://uninomade.org/fine-del-change/.

[6] Vedi I grandi esercizi speculativi delle banche d’investimento, IlSole24ore, 14/9/11.

[7] Parlo di calcolo perché la concentrazione oligopolistica dei “mercati finanziari” è oramai dato assodato nella letteratura un minimo seria: vedi, oltre a diversi interventi di Andrea Fumagalli, il recente lavoro di Vitali, Glattfelder, Battiston, in http://www.plosone.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pone.0025995.vedi.

[8] IlSole24ore, 12/8/11. Soros non si è accontentato neanche dell’operazione Draghi di dicembre: http://www.project-syndicate.org/commentary/soros76/English.

[9] Europe’s Latest Try, New York Times 9/11/11.

[10] http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2012-01-28/gettate-basi-riavvicinare-sponde-101545.shtml?uuid=AaxYYZjE.

[11] Vedi Shopping a saldo in Europa, Il Manifesto 27/12/11 e Why Europe stocks are too cheap to ignore in http://www.marketwatch.com/story/how-cheap-is-europe-now-2012-01-09. Che l’operazione Marchionne sulla Fiat vada letta anche sotto questa luce?

[12] Come nel film Gioventù bruciata.

[13] Di diverso parere Guglielmo Carchedi per il quale “l’attacco all’euro non è prima di tutto un attacco contro la Ue ma una scommessa speculativa”, in Dalla crisi di plusvalore alla crisi dell’euro, gennaio ’12, in rete.

[14] Come l’imposizione di misure di ricapitalizzazione da parte dell’autorità bancaria europea (Eba)  in un momento assai critico per le banche del continente.

[15] Un’idea dei toni usati dalla stampa britannica la dà Evans-Pritchard sul Telegraph del 9/11/11, con l’articolo America and China must crush Germany into submission.

[16] Vedi di Walden Bello Germany’s Socialdemocrats and the European Crisis, in http://www.fpif.org/articles/germanys_social_democrats_and_the_european_crisis.

[17] Un fattore essenziale nella rottura con Londra: vedi Europe’s great divorce, Economist online, 9/12/11.

[18] Sedici mila miliardi di dollari (sedici trilioni) tra dicembre 2007 e giugno 2010 secondo i più recenti dati ufficiali del governo statunitense (http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2011/mese/08/articolo/5158/). Secondo altri 29 trilioni (http://www.alternet.org/economy/153462/bail-out_bombshell%3A_fed_%22emergency%22_bank_rescue_totaled_$29_trillion_over_three_years/).

[19] Chesnais coglie la differenza sostanziale tra euro e dollaro e parla di “incompletezza dell’euro” ma non riesce ad andare più a fondo causa l’impianto keynesiano che utilizza (Debiti illegittimi e diritto all’insolvenza, Roma 2011, pp.130-2).

[20] Vedi R. Sciortino, Oltre il bipolarismo. Il rapprochement sino-americano 1969-72, Bologna 2012. Sul doppio legame tra economia Usa e cinese -da alcuni ribattezzato Bretton Woods II- vedi la nota di Giorgio Arfaras in http://www.quadrantefuturo.it/appunti/congiuntura/capire-la-crisi.aspx.

[21] C. Marazzi, E il denaro va, Torino 1998, p. 171, nota: ”Con lo sviluppo del capitale a scala mondiale la funzione del denaro come mezzo di pagamento creato ex nihilo assume un’importanza crescente… prende la forma della comunità”. Interessante notare come la tematica del capitale comunità reale (cattiva) fosse già emersa negli anni Sessanta, all’interno del comunismo di sinistra, nella riflessione di Jacques Camatte.

[22] Vedi per i dati più aggiornati il rapporto McKinsey, Debt and deleveraging: Uneven progress on the path to growth, gennaio 2012. Vedi anche per una lettura marxista, ancorché riduttiva, il blog di Michael Roberts.

[23] Vedi The Liquidation of Government Debt, Peterson Institute, aprile 2011. In Italia se ne parla da un po’ neanche più sotto voce: l’ex ragioniere dello stato Monorchio ha ventilato una patrimoniale basata sull’ipoteca di una frazione degli immobili posseduti; sul Sole24ore il liberista Zingales propone un default contrattato sul debito italiano e De Benedetti propone di abbatterlo con una forte dose di inflazione implicitamente pensando alla fuoriuscita dall’euro (24/12/11). Default dall’alto per rilanciare la competitività del sistema-paese.

[24] Vedi i miei Disinnescare la sollevazione, febbraio ’11, e Obama dopo Osama, maggio ’11, in rete.

[25] http://www.eilmensile.it/2011/12/28/cina-e-giappone-abbandonano-il-dollaro/.

 

 

 

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