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Trasformazione del lavoro e trasformazioni del welfare: precarietà e welfare del comune (commonfare) in Europa

 

di ANDREA FUMAGALLI

  1. 1.     Introduzione.

 

Le trasformazioni del mercato del lavoro negli ultimi due decenni hanno reso sempre più impellente una ridefinizione complessiva e una riarticolazione delle politiche di welfare. Non sempre, tale argomento ha suscitato un interesse adeguato nel pensiero economico di sinistra e alternativo e, quando si è verificato, esso ha interessato argomenti specifici, quali la critica alla privatizzazione dei servizi pubblici o la necessità di introdurre un reddito minimo e/o un reddito di esistenza. La causa principale di tale carenza credo sia ravvisabile in una lettura analitica delle attuali trasformazioni strutturali non ancora sufficientemente adeguata ai nuovi bisogni e alle nuove esigenze che sono sorti dopo la crisi del paradigma fordista.

Faccio riferimento, in particolare, all’analisi degli aspetti qualitativi e non solo quantitativi che oggi costituiscono e definiscono la prestazione lavorativa. Una poca approfondita analisi di tali aspetti non consente infatti di cogliere gli elementi di novità insiti nella condizione di precarietà, condizione che troppo spesso a sinistra viene letta come il semplice smantellamento della forma del lavoro subordinato a tempo indeterminato in seguito al mutamento sfavorevole dei rapporti di forza contrattuali nello stesso mondo del lavoro.

Parallelamente, anche la crisi del welfare nazionale, laddove si è effettivamente implementato, risulta l’esito del venir meno del ruolo dello Stato a favore del mercato, frutto del trionfo delle teorie neo-liberiste.

Scopo di questo intervento è cercare di argomentare come nel nuovo millennio siano venute a maturare delle “novità” nel processo di accumulazione e valorizzazione capitalistica che pongono domande alle quali la risposta consolatoria dei rapporti di forza sfavorevoli non è più sufficiente.

Si procederà articolando il ragionamento in tre punti.

Il primo presenta in modo semplicistico alcune tesi sul capitalismo cognitivo, come nuova modalità di accumulazione che segna la tendenza in atto del capitale nelle economie a capitalismo maturo (Europa e Usa). Si tratta di una tendenza non di una fotografia del presente.

Il secondo punto analizza l’evoluzione delle forme di welfare all’epoca del capitalismo cognitivo, con riferimento ai modelli sociali europei.

Il terzo discute l’opzione del commonfare come obiettivo di politica economica e sociale, possibile esito del conflitto sociale.

Last but not least,  nelle conclusioni si discute dell’impossibilità di un “new deal” adeguato alle nuove forme di accumulazione del capitalismo cognitivo.

 

2.  Capitalismo cognitivo e lavoro cognitivo.

 

Nel capitalismo cognitivo la produzione di valore non è più fondata solo ed esclusivamente sulla produzione materiale ma si basa sempre più su elementi immateriali, vale a dire su “materie prime” intangibili, difficilmente misurabili e quantificabili, che discendono direttamente dall’utilizzo delle facoltà relazionali, emozionali e cerebrali degli esseri umani.

Nel capitalismo cognitivo la produzione di valore non è più fondata su uno schema omogeneo e standardizzato di organizzazione del lavoro, a prescindere dal tipo di bene prodotto. L’attività di produzione si attua con diverse modalità organizzative, caratterizzate da una struttura a rete, grazie allo sviluppo delle tecnologie di comunicazione linguistica e di trasporto. Ne consegue uno scompagimento della tradizionale forma gerarchica unilaterale interna alla fabbrica che viene sostituita da strutture gerarchiche che prendono forma sul territorio, lungo filiere produttive di subfornitura qualificate da relazioni di cooperazione e/o di comando.

Ne consegue che la divisione del lavoro assume anche caratteri cognitivi, ovvero si basa sull’utilizzo e sull’accesso differenziato a forme diverse di conoscenza mentre la condizione della forza lavoro è accompagnata da mobilità e dalla predominanza della contrattazione individuale. Ciò deriva dal fatto che sono le individualità nomadi a essere messe al lavoro e il primato del diritto privato sul diritto del lavoro induce a trasformare l’apporto delle individualità, soprattutto se caratterizzate da attività cognitive, relazionali e affettive, in individualismo contrattuale. Il rapporto di lavoro basato sulla condizione di precarietà (limite temporale più mobilità spaziale della prestazione lavorativa) è il paradigma di base della forma del rapporto capitale-lavoro.

E’ sulla base di queste considerazioni che approfondiamo la nozione di lavoro cognitivo.

Il concetto di “lavoro cognitivo” – come ogni concetto recente – è a tutt’oggi definito in modo vario e differenziato, il che, inevitabilmente, favorisce l’insorgenza di equivoci e contraddizioni. La letteratura, sempre più numerosa[1], ha cercato finora di chiarire più ciò che il lavoro cognitivo non è, piuttosto che circoscriverne i parametri costituenti. Non può stupire, quindi, che non ci sia chiarezza nell’uso di termini quali “lavoro intellettuale”, “lavoro immateriale”[2] oppure “lavoro digitale”[3].

Non è questa la sede più opportuna per un’analisi esaustiva del concetto di “lavoro cognitivo”[4]. Qui è sufficiente individuare alcune variabili che possono essere utili a definirne il contenuto[5]:

 

a. Riflessività. Per “lavoro cognitivo” si deve intendere il lavoro che viene investito della riflessività: esso trasforma la struttura organizzativa e procedurale con cui si esplica e ciò facendo genera nuova conoscenza.

 

b. Relazionalità. Il lavoro cognitivo necessità di attività relazionale, come strumento per la trasmissione e la decodificazione della propria attività e dei saperi accumulati. Ne consegue che è, per sua natura, poco omogeneizzabile, in quanto bioeconomico, vale a dire dipendente dalla biologia individuale del soggetto. Capacità cognitive e attività di relazione sono inscindibili una dall’altra.

 

c. Spazialità e reticolarità. Perché il lavoro cognitivo diventi produttivo ha bisogno di “spazio”, ovvero di sviluppare una rete di relazioni, altrimenti, se resta incorporato nel singolo, diventa fine a sé stesso, magari processo di valorizzazione individuale ma non valore di scambio per l’accumulazione della ricchezza, cioè “merce”. Il capitalismo cognitivo è, per forza, reticolare, è, cioè, non lineare e le gerarchie che sviluppa sono interne ai singoli nodi tra i diversi nodi della rete. Si tratta di gerarchie complesse e spesso legate a fattori di controllo sociale dello spazio all’interno del quale si sviluppa[6].

 

  1. Formazione e apprendimento. Il lavoro cognitivo richiede un processo di apprendimento e di formazione. Tale apprendimento sempre più richiede il possesso di informazioni e cognizioni che derivano dallo sviluppo delle forme di comunicazione relazionale  e dall’accumulo di competenze. In quest’ottica, formazione e apprendimento non sono sinonimi. La formazione descrive quel processo in base al quale il soggetto entra in possesso delle informazioni di base che definiscono la “cassetta degli attrezzi”, ovvero il “know where”, dove attingere le conoscenze indispensabili per svolgere la prestazione lavorativa. L’apprendimento, viceversa, si sviluppa con l’attività esperienziale, necessaria per sviluppare le competenze del “know-how” in modo specialistico. La formazione può essere esterna al processo lavorativo, l’apprendimento deriva invece dalla partecipazione diretta allo stesso processo lavorativo.

 

  1. e.              Coordinamento. Il lavoro cognitivo necessita, come detto, dell’inserimento in una struttura reticolare (virtuale o reale), dove la comunicazione tra i vari nodi è eminentemente comunicazione linguistica e simbolica. Ciò implica che, a differenza del sistema tayloristico, le forme della coordinazione non sono incorporate nel mezzo meccanico (e quindi esterne all’azione umana) ma dipendono dal tipo di interazioni e di rapporti  umani esistenti e, di conseguenza, possono dar adito allo stesso modo sia a forme di gerarchia che a forme di cooperazione.

 

* * * * *

 

In un contesto di capitalismo cognitivo, l’organizzazione del lavoro è studiata al fine di spingere al massimo la comunicazione e la cooperazione che le tecnologie digitali richiedono. Al riguardo, la triade dialettica del lavoro cognitivo è: comunicazione, cooperazione, autocontrollo (o controllo sociale).

L’attività di comunicazione è legata all’utilizzo del linguaggio (umano e/o artificiale), mentre l’attività di cooperazione è implicita nel rapporto bilaterale che sta alla base della comunicazione linguistica (non si parla da soli). In essa, intesa come antitesi, si coagula l’essenza dell’attività linguistica. In questo caso, si tratta di cooperazione intesa non come successione disgiunta di singole operazioni, ma come insieme di comportamenti multilaterali, caratterizzati da diversi gradi di gerarchia, il cui esito non è assimilabile alla semplice somma delle singolarità. Più nello specifico, dal momento che l’attività di cooperazione è l’esito di forme di comunicazione, essa si caratterizza per essere cooperazione direttamente immateriale, anche se ha per oggetto una produzione materiale. L’attività di cooperazione è l’elemento costituente della struttura reticolare (network) della filiera produttiva.

L’autocontrollo diventa anche forma di controllo sociale nel momento stesso in cui è attivato dall’imitazione di comportamenti collettivi dettati da immaginari comuni e dominanti. In ogni caso, è il singolo individuo che adegua, tramite forme di auto-controllo o auto-repressione, il proprio comportamento in modo che sia consono alle esigenze dell’organizzazione produttiva.

I cinque parametri che abbiamo posto alla base della definizione di lavoro cognitivo implicano che siamo contemporaneamente in presenza di cooperazione sociale e di gerarchie. La cooperazione sociale deriva dalla necessità di coordinamento, reticolarità, relazionalità. La gerarchia nasce dalle diverse forme di apprendimento e formazione che danno vita a una divisione cognitiva del lavoro, dalla quale nascono e si sviluppano fattori di segmentazione del lavoro cognitivo, agevolati anche dal fatto che la riflessività dello stesso lavoro cognitivo favorisce il diffondersi di percorsi cumulativi di conoscenza di tipo individuale.

Cooperazione sociale e individualità della prestazione lavorativa cognitiva: sono questi i due lati che sanciscono il paradosso del lavoro cognitivo moderno; la necessità di sviluppare un general inellect come frutto della cooperazione sociale che allo stesso tempo definisce strutture gerarchiche che trovano la loro fonte di diffusione nell’individualizzazione del rapporto di lavoro.

Ne consegue che, nel capitalismo cognitivo, la prestazione lavorativa rifugge ogni forma di definizione univoca e omogenea. Se dovessimo usare un’espressione sintetica, potremmo affermare che il lavoro, nelle forme materiali che assume, è caratterizzato oggi dall’attributo delle differenze. Con questo termine intendiamo indicare che oggi il concetto di prestazione lavorativa si fonda sull’unicità singolare di ogni erogazione di forza-lavoro, non assimilabile a una forma tipologica, contrattuale, qualitativa unica o dominante. Non si può parlare di differenza al singolare, ovvero di rapporto binario (uomo-donna, manuale-intellettuale, operaio-impiegato, ecc.), bensì di una pluralità di differenze, ovvero di una moltitudine[7]: una moltitudine apparentemente caotica di forme-lavoro. Sono le differenze a costituire la forza lavoro cognitiva dell’attuale fase capitalistica. Ed è proprio lo sfruttamento di tali differenze, e la loro declinazione materiale, a determinare le nuove forme del rapporto capitale/lavoro e a rendere necessaria una nuova articolazione delle politiche di welfare.

 

 

 

 

 

3.  I nuovi bisogni del capitalismo cognitivo: garanzia di reddito e beni comuni

 

Nel dibattito socio economico attuale, due sono le concezioni di welfare che più di altre attirano l’attenzione degli studiosi e dei politici: il workfare e, in alternativa, il welfare pubblico, di derivazione keynesiana.

 

Il workfare è un sistema di welfare non universalistico, garantito a chi ha i mezzi monetari per pagarlo, inteso come strumento di assistenza temporaneo e condizionato in attesa di entrare nel mercato del lavoro. E’ strutturato sull’idea di fornire un aiuto di ultima istanza laddove esistono condizioni esistenziali che non consentono di poter lavorare e quindi di accedere a quei diritti che solo la prestazione lavorativa è in grado di fornire. L’idea di workfare è inoltre complementare alla proposta di privatizzazione di buona parte  del welfare pubblico, a partire dalla sanità. dall’istruzione e dalla previdenza, progetto che oggi trova fondamento nel cd. principio di sussidiarietà, secondo il quale nelle materie che non rientrano nella propria competenza esclusiva, livelli di governo superiore (es. lo Stato) possono intervenire soltanto e nella misura in cui gli obiettivi prefissati non possano essere conseguiti in maniera soddisfacente dai livelli di governo inferiore (es. le Regioni). Nella pratica questo principio si traduce nel fatto che l’intervento pubblico può avere una sua ragion d’essere laddove il privato non è in grado o non trova conveniente intervenire.  Il caso della Lombardia è, al riguardo, eclatante. In nome della libertà di scelta del cittadino tra pubblico e privato, vengono sussidiate la sanità e l’istruzione privata e si introducono ticket sanitari e vari aumenti tariffari. Inoltre, il workfare ha come target immediato e parziale solo chi si trova al di fuori del mercato del lavoro, come i disoccupati e i pensionati al minimo sociale e si basa sulla netta distinzione tra politiche sociali e politiche del lavoro. L’idea è ancora quella prettamente fordista con l’aggiunta di una cornice neoliberista, sul modello anglosassone: incentivi al lavoro e stato sociale minimo. Il protocollo sul welfare, competitività e mercato del lavoro del 23 luglio scorso stilato da Damiano e firmato dai sindacati confederali ne vorrebbe rappresentare l’applicazione in Italia.

 

Il welfare pubblico o keynesiano è, in parte, l’esatto contrario. Lo Stato dovrebbe farsi carico di un intervento di stampo universalistico, in grado di garantire a tutti i cittadini (che non sempre coincidono con i residenti) alcuni servizi sociali di base, quali la salute, l’istruzione e la previdenza per tutta l’esistenza (dalla culla alla tomba, secondo la famosa definizione del rapporto Beveridge del secondo dopoguerra). Non ci sarebbe spazio quindi per l’intervento privato.

 

A queste due visioni di massima, ne seguono altre visioni che rappresentano delle situazioni ibride: il welfare scandinavano che dà origine alle politiche della flexicurity, che si presentano come un momento di sintesi del welfare keynesiano di tipo universalistico, ma tarato sulle esigenze di flessibilizzazione del mercato del lavoro e sull’esistenza di un mercato de lavoro fortemente omogeneo, incorporando alcune caratteristiche del workfare. E, sul versante latino-medirerraneo, il welfare familistico, una mistura di workfare e di assistenzialismo non universalistico

 

E’ dunque sempre più necessario e impellente introdurre un’idea nuova di welfare, un’idea che sia in grado di affrontare i due elementi  principali che caratterizzano l’attuale fase capitalistica nei paesi cd. “occidentali”:

  • la precarietà;
    • la generazione di ricchezza che ha origine dalla cooperazione sociale e dal general intellect.

 

Riguardo al primo punto, il mondo del lavoro appare sempre più frammentato non solo da un punto di vista giuridico ma soprattutto da quello qualitativo-soggettivo. La figura del lavoratore salariato industriale è emergente in molte parti del globo ma sta declinando in modo quasi irreversibile nei paesi occidentali a vantaggio di una moltitudine variegata di figure atipiche e precarie, dipendenti, parasubordinate e autonome, la cui capacità organizzativa e di rappresentanza è sempre più vincolata dal prevalere della contrattazione individuale e dall’incapacità di adeguamento delle strutture sindacale fordiste. La preminenza della contrattazione individuale su quella collettiva svuota la capacità di rappresentanza delle tradizionali forze sindacali. Il tentativo di recuperare tale capacità tramite strategie di concertazione ha mostrato tutti i suoi limiti, sino a snaturare il ruolo del sindacato da forza in grado di rappresentare gli interessi del lavoro in istituzione di controllo e succube agli interessi imprenditoriali sotto l’ombrello delle compatibilità economiche dettate dalla nuova gerarchia economica internazionale.

 

Riguardo al secondo punto, abbiamo già rilevato che la produzione di ricchezza non è più fondata solo ed esclusivamente sulla produzione materiale. L’esistenza di economie di apprendimento (che generano conoscenza) e di economie di rete (che ne consentono la diffusione, a diverso livello) rappresentano oggi le variabili che stanno all’origine degli incrementi della produttività: una produttività che sempre più deriva dallo sfruttamento di beni comuni che discendono dalla natura sociale del genere umano (quali istruzione, sanità, conoscenza, spazio, relazionalità, ecc.) e che quindi si configura come esito di una “cooperazione” sociale, più o meno indotta o consenziente.

 

Ne deriva che, in tale contesto, un intervento di welfare deve saper rispondere al trade-off  che regola in modo instabile il processo di accumulazione insito nel capitalismo cognitivo: il rapporto contradditorio tra precarietà e cooperazione sociale. Più in particolare, si tratta di remunerare la cooperazione sociale, da un lato, e favorire forme di produzione sociale, dall’altro.

 

La remunerazione della cooperazione sociale significa garanzia di continuità di reddito individuale, incondizionato, per tutti coloro che operano nel territorio a prescindere dallo loro status professionale e civile. Poiché la cooperazione sociale va ben oltre la prestazione lavorativa eventualmente riconosciuta e certificata ma tende a coincidere con l’esistenza stessa, la remunerazione della cooperazione sociale è data dal salario eventualmente percepito più un basic income: tale basic income deve essere inteso come una sorta di risarcimento monetario (appunto remunerazione) della produttività sociale individuale e non come mero intervento assistenzialistico. Tale misura deve essere accompagnata dall’introduzione di un salario minimo orario, al fine di evitare che si possa generare un effetto di sostituzione tra basic income e lo stesso salario a vantaggio dell’impresa e a discapito del lavoratore. Inoltre, tale basic income,  introdotto in modo graduale, prescindendo dallo stato professionale degli individui e non sottoposto ad alcuna misura di controllo e di condizionamento, non è solo una misura di welfare, ma in quanto elemento di remunerazione, è anche una misura di intervento nella regolazione del mercato del lavoro. Viene così meno la distinzione tra politiche di welfare e politiche del lavoro di derivazione fordista e tanto cara anche all’attuale governo di centro-sinistra. La garanzia di un reddito in presenza di un salario minimo consente infatti ampliare le possibilità di scelta nel definire la propria offerta di lavoro e quindi intervenire direttamente sulle condizioni di lavoro. La possibilità del rifiuto del lavoro capitalistico apre prospettive di liberazione che vanno ben al di là della semplice misura redistributiva con la quale si intende solitamente (e si critica) il basic income.

 

Lo sviluppo della produzione (cooperazione) sociale richiede come premessa la riappropriazione e la distribuzione dei guadagni che derivano dallo sfruttamento dei beni comuni che stanno alla base dell’accumulazione odierna. Tale riappropriazione non necessariamente si ottiene con il passaggio dalla proprietà privata a quella pubblica. Laddove si tratta di servizi di base come la sanità o l’istruzione o il la mobilità territoriale ciò è possibile, in quanto si tratta di beni pubblici oggi sempre più privatizzati. Se si parla invece di conoscenza, invece, è necessario parlare di beni comuni e di “proprietà comune”, in quanto la conoscenza non è, né può essere, un bene esclusivamente privato o esclusivamente pubblico.

 

4. Welfare del comune (commonfare): alcuni punti di discussione.

 

Il capitalismo cognitivo è altamente instabile. Non discutiamo qui le ragioni di tale instabilità strutturale. Ci basti sottolineare come essa nasca dal dipanarsi di alcune contraddizioni endogene:

 

  • produzione e cooperazione sociale ßà individualizzazione del rapporto di lavoro e gerarchia.

 

È su questa coppia dialettica che si estrinseca la produzione di plusvalore, si registra il processo di sfruttamento del capitalismo cognitivo e si consumano le nuove forme di alienazione. È qui che si definisce il nuovo rapporto capitale – lavoro nelle sue manifestazioni reali. Da un lato la richiesta di partecipazione, relazione e comunione agli intenti produttivi dell’impresa, dall’altro la precarietà dei rapporti individuali, l’inquietitudine, l’incertezza e la frustrazione psicologica ed esistenziale che ne deriva.

 

  • sfruttamento del comune ßà  espropriazione privata.

 

La messa a valore delle intere facoltà umane e della connaturata operosità sociale che si esplica nel lavoro concreto diviene lavoro astratto nel momento stesso in cui l’esito di tale operosità produce e riceve remunerazione monetaria nell’ambito della struttura proprietaria (in cui vige la proprietà individuale) dell’agire comune.

 

  • tempo di lavoro ßà  tempo di vita, produzione ßà  riproduzione.

 

La commistione tra tempo di vita e tempo di lavoro e, conseguentemente tra produzione e riproduzione, è la fenomenologia concreta della supremazia del lavoro astratto sul lavoro concreto nel capitalismo cognitivo.

 

  • workfare ßà  commonfare.

 

Nell’ambito sociale, la condizione di precarietà generalizzata ed esistenziale si traduce in una filosofia comportamentale individualistica, che fonda la sua legittimità nel “fare da sé e contro gli altri” e nello smantellamento di qualsiasi forma di protezione sociale sovraindividuale. Nel momento stesso in cui qualsiasi servizio sociale (dalla salute, alla previdenza, alla sicurezza e difesa personale) è demandata a se stessi, l’individualismo come filosofia sociale diventa egemone, proprio quando la produzione si socializza.

 

Per alleviare l’instabilità strutturale dell’attuale capitalismo cognitivo diventa necessario – almeno da un punto di vista meramente teorico – ripensare la definizione delle variabili redistributive in modo che siano più consone alla produzione di valore e accumulazione dell’attuale capitalismo cognitivo.

 

Per quanto riguarda la sfera del lavoro, occorre riconoscere che nel capitalismo cognitivo la remunerazione del lavoro si traduce nella remunerazione di vita: di conseguenza ciò che nel fordismo era il salario oggi nel capitalismo cognitivo diventa reddito di esistenza (basic income) e il conflitto in fieri che si apre non è più la lotta per alti salari (per dirla i termini keynesiani) ma piuttosto la lotta per una continuità di reddito a prescindere dall’attività lavorativa certificata dal un qualche rapporto di lavoro. Come abbiamo già notato, dopo la crisi del paradigma fordista-taylorista, la divisione tra tempo di vita e tempo di lavoro non è più facilmente sostenibile. I soggetti maggiormente sfruttati nel mondo del lavoro sono quelli la cui vita viene messa interamente al lavoro. Questo avviene in primo luogo per i lavori svolti nel settore dei servizi e nell’allungamento dell’orario di lavoro, soprattutto per la forza –lavoro migrante: gran parte del tempo di lavoro svolto nelle attività del terziario non avviene nel luogo di lavoro. Il salario è la remunerazione del lavoro e il reddito individuale è la somma di tutti gli introiti che derivano dal vivere e dalle relazioni in un territorio (lavoro, famiglia,  sussidi, eventuali rendite, ecc., ecc.) e che determinano lo standard di vita. Finché c’è separazione tra lavoro e vita, c’è anche una separazione concettuale tra salario e reddito individuale, ma quando il tempo di vita viene messo a lavoro sfuma la differenza fra reddito e salario

 

Di fatto, la tendenziale sovrapposizione tra lavoro e vita, quindi tra salario e reddito non è ancora considerata nell’ambito della regolazione istituzionale (e neanche da alcune componenti che si definiscono “antagoniste”). Il reddito di esistenza (basic income) può rappresentare un elemento di regolazione istituzionale adatto alle nuove tendenze del nostro capitalismo. E’ definito da due componenti: la prima prettamente salariale, sulla base delle prestazioni di vita che immediatamente si traducono in prestazioni lavorative (tempo di lavoro certificato e remunerato, ma anche il tempo di vita utilizzato per la formazione, l’attività relazione e l’attività riproduttrice); la seconda è una componente di reddito (aggiuntiva alla prima) che rappresenta la quota di ricchezza sociale che spetta ad ogni individuo. Questa ricchezza sociale dipende dalla cooperazione e dalla produttività sociale che si esercita su un territorio (che oggi è appannaggio dei profitti e delle rendite mobiliari e immobiliari). Definendo in questo modo il basic income, i concetti di salario e reddito appaiono  complementari e non conflittuali.

 

Per quanto riguarda la sfera della produzione, un secondo aspetto innovativo è il ruolo svolto dai diritti di proprietà intellettuale. Essi rappresentano lo strumento principale che consente al capitale di appropriarsi del general intellect. Poiché la conoscenza è un bene comune, prodotto dalla cooperazione sociale, il plusvalore che scaturisce dal suo uso in termini di attività innovativa e incrementi di produttività del lavoro non è semplicemente il frutto di un investimento di uno stock di capitale fisico e individuale (cioè ascrivibile ad un capitalista definito come entità singola, sia esso persona o organizzazione imprenditoriale) ma dipende piuttosto dall’utilizzo di un patrimonio sociale (o “capitale umano sociale” come dicono gli economisti) che si è sedimentato sul territorio e che è indipendente dall’iniziativa del singolo imprenditore. Il saggio di profitto che ne scaturisce non è quindi il semplice rapporto tra livello di investimento e stock di capitale che definisce il valore dell’impresa, ma piuttosto “qualcosa”, la cui entità dipende anche dal capitale “sociale” esistente. In altre parole, poiché il profitto nasce dallo sfruttamento e dall’espropriazione a fini privati di un bene comune come la conoscenza, esso è in parte assimilabile a una rendita: una rendita da territorio e da apprendimento, ovvero una rendita che proviene dall’esercizio dei diritti di proprietà intellettuale, dalla proprietà della conoscenza.

Ora, parafrasando Keynes, si potrebbe sostenere che,

 

“The owner of knowledge  can obtain profit because knowledge is scarce, just as the owner of land can obtain rent because land is scarce. But whilst there may be intrinsic reasons for the scarcity of land, there are no intrinsic reasons for the scarcity of knowledge[8].

 

La commistione tra profitto e rendita deriva dal fatto che, nel capitalismo cognitivo, il processo di accumulazione ha esteso la base dell’accumulazione stessa, cooptando al suo interno attività dell’agire umano che nel capitalismo fordista-industriale non erano produttive di plus-valore, né si traducevano in lavoro astratto. Nuovi input si sono così aggiunti o si sono rafforzati e sono diventati strategici, come appunto la conoscenza in quanto bene a se stante (e non più semplicemente incorporato nelle macchine) e lo spazio, sia nella sua accezione fisico-territoriale che virtuale. Ne consegue che la proprietà di tali fattori  non dà più adito a una rendita ma, essendo messi in produzione, a un profitto vero e proprio. Ciò vale in particolare per la proprietà territoriale e dei flussi di comunicazione così come la gestione dei flussi monetari e finanziari.

 

Da questo punto di vista, le indicazioni di politica economiche proposte da Keynes all’indomani del sorgere del fordismo, potrebbero essere riscritte tenendo conto delle novità insite nel passaggio al capitalismo cognitivo.

 

La misura di un basic income sostituisce la politica degli altri salari, mentre l’eutanasia del rentier di Keynes potrebbe essere declinata nell’eutanasia dei diritti di proprietà intellettuale, accompagnata da politiche fiscali in grado di ridefinire l’imponibile di base tenendo conto dei nuovi input produttivi, in primo luogo lo spazio, la conoscenza e i flussi finanziari.

 

Riguardo alla terza proposta di Keynes di socializzazione degli investimenti, il capitalismo cognitivo si caratterizza per una socializzazione della produzione a fronte di una concentrazione sempre più elevata dei flussi tecnologici e finanziari, le leve oggigiorno che consentono il controllo e il comando sull’attività produttiva flessibilizzata e esternalizzata. Qualsiasi politica che vada ad intaccare tale concentrazione che sta alla base dei flussi di investimento incide quindi in modo diretto sulla struttura proprietaria e mina alle radici la stesso rapporto capitalistico di produzione.

 

Quello che proponiamo, in alternativa al workfare di Damiano e al welfare statalista della cosiddetta sinistra radicale, è il common-fare (ovvero il welfare del comune).

 

La concezione di welfare keynesiano-pubblico è congruente con l’idea del capitalismo industriale-fordista, oggi sempre più superato dal diffondersi di un capitalismo cognitivo. Di converso, il workfare, con l’idea di stato sociale minimo, può apparentemente sembrare più idoneo a rappresentare le istanze del capitalismo cognitivo. Ed è per questo che appare vincente. In realtà, il workfare fa riferimento ad un intervento di deregulation del sistema pubblico che ha sempre contraddistinto il pensiero conservatore neo-liberale e per questo non ha “tempo”.

 

L’idea di commonfare, invece, parte dal presupposto che la cooperazione sociale è la produzione del comune: qualsiasi politica di welfare che abbia a cuore la coesione sociale non può quindi che partire dal comune. I beni comuni nell’evoluzione del capitalismo hanno più volte modificato la propria struttura. Ai beni comuni legati alla sopravvivenza terrena e al consumo primario (aria, acqua, cibo, vestiti, abitazione, socialità, ecc., ecc.), connaturati con lo stesso agire umano, si sono aggiunti dei nuovi beni comuni, che oggi stano alla base non tanto della sopravvivenza e del consumo di base, ma piuttosto della produzione e dell’accumulazione. Essi riguardano in primo luogo il territorio, geografico e virtuale e conseguentemente l’ambiente, quindi il linguaggio e la conoscenza.

Ipotizzare un welfare del comune significa oggi imbastire una politica:

  • che tolga dalle gerarchie imposte dal libero scambio i beni primari e di pubblica utilità che negli ultimi 15 anni hanno subito estesi processi di privatizzazione in seguito all’adozione degli accordi europei di Cardiff sulla regolamentazione del mercato dei beni e dei servizi (accesso ai beni comuni materiali)
  • che imponga forme di controllo e di monitoraggio sul mercato del credito, sui suoi costi e sulle possibilità di elargire forme di finanziamento anche a chi non ha contratti a tempo indeterminato con la garanzia e l’assicurazione degli apparati pubblici, sia a livello locale che sopranazionale (accesso alla moneta come bene comune);
  • che proceda ad una regolamentazione dei diritti di proprietà intellettuale e della legislazione sempre più restrittiva dei brevetti a favore di una maggiore libertà di circolazione dei saperi e alla possibilità gratuita di dotarsi di infrastrutture informatiche, tramite adeguate politiche innovative e industriali (accesso ai beni comuni immateriali).
  • che consenta una partecipazione finanziaria e consultiva agli organi di gestione, a partire dal livello locale, dei beni pubblici essenziali, quali acqua, energia, patrimonio abitativo, e sostenibilità ambientale tramite forme di municipalismo dal basso (principio democratico).

 

Commonfare, ovvero continuità di reddito e libero accesso ai beni comuni. Due condizioni per poter scegliere e essere autonomi dalla dipendenza economica. Perché oggi le politiche sociali sono l’effettivo specchio della democrazia. E la nostra libertà si fonda sul diritto ad una scelta libera e consapevole.

 

 

Tab. 1: Accesso a beni comuni e bisogni del lavoro cognitivo

 

Bisogni sociali diffusi

Beni Comuni

Beni da garantire per la soddisfazione dei bisogni
Reddito Reddito d’esistenza garantito, erogazione di una quota monetaria per la riproduzione delle vite singolari
Credito Disponibilità di somme liquide per far fronte a necessità una-tantum.
Formazione Disponibilità di strumenti e di luoghi per la formazione, accesso all’istruzione, creazione di spazi per la produ-zione di sapere collettivo
Informazione Libero accesso all’informazione e rimozione dei vincoli che lo limitano, quali il “diritto” di proprietà intellettuale
Comunicazione Accesso ai canali e ai media attraverso i quali avviene la comunicazione sociale e transita la cultura
Mobilità Fruizione agevolata dei mezzi di trasporto, garanzie dei servizi per il movimento sul territorio e la libera circolazione dei corpi
Socialità Creazione di spazi comuni d’incontro che consentano a ciascuno la cura delle reti relazionali sociali
Alloggio Abitazione garantita, possibilità per tutti di disporre di uno spazio per la realizzazione e l’organizzazione della propria vita

 

 

5. Gli aspetti politici del commonfare

 

Le possibili proposte “riformistiche”, che potrebbero definire un patto sociale nel capitalismo cognitivo, si limitano dunque all’introduzione di una nuova regolazione salariale fondata sul basic income e sull’accesso libero ai beni comuni, intervenendo in primo luogo sulla struttura giuridica della proprietà privata, in primo luogo quella intellettuale.

Tuttavia, nella realtà attuale, non vi sono le premesse economiche e politiche perché tale patto sociale posa realizzarsi. Esso è quindi solo una mera illusione.

 

Il  new deal fordista è stato l’esito di un intervento istituzionale che si è basato sull’esistenza di tre presupposti:

 

-       uno stato nazione in grado di sviluppare politiche economiche nazionali in modo indipendentemente, seppur coordinato, da altri stati;

-       la possibilità di misurare i guadagni di produttività e quindi di provvedere alla loro redistribuzione tra profitti e salari;

-       relazioni industriali tra parti sociali che si riconoscevano reciprocamente ed erano legittimate a livello istituzionale, in grado di rappresentare in modo sufficientemente univoco gli interessi imprenditoriali e della classe dei lavoratori.

 

Nessuno di questi tre presupposti è oggi presente nel capitalismo cognitivo.

L’esistenza dello Stato-Nazione viene messa in crisi dai processi di internazionalizzazione produttiva e globalizzazione finanziaria, che rappresentano oggi, nelle sue declinazioni in termini di controllo tecnologico e delle conoscenze, dell’informazione e degli apparati bellici, le basi di definizione di un potere imperiale sopranazionale.

Nel capitalismo cognitivo, al limite è possibile immaginare un’entità spaziale geografica sopranazionale. La comunità europea potrebbe rappresentare, da questo punto di vista, una nuova definizione di uno spazio pubblico socio economico in cui implementare un nuovo new deal. Ma, allo stato attuale delle cose, la costruzione dell’Europa procede lungo linee monetariste e neoliberiste che rappresentano la negazione  della possibilità di creare un spazio pubblico e sociale autonomo e indipendente, non condizionato dalla dinamica dei mercati finanziari..

La dinamica della produttività tende sempre più a dipendere da produzioni immateriali e dal coinvolgimento di facoltà umane cognitive difficilmente misurabili con i tradizionali criteri di tipo quantitativo utilizzati nel fordismo. La difficoltà attuale[9] di misurare la produttività sociale non consente una regolazione salariale basata sul rapporto tra salario e produttività.

La proposta di basic income  potrebbe rappresentare la soluzione. Viene ritenuta non a caso politicamente inaccettabile dalla classe imprenditoriale ma incontra difficoltà anche nel campo sindacale.  I primi la considerano una misura sovversiva nella misura in cui essa è in grado di ridurre la ricattabilità dal bisogno e dalla dipendenza del lavoro e favorire la libertà di scelta. Per i secondi contraddice quell’etica del lavoro su cui parte dei sindacati stessi continua a basare la propria esistenza.

Infine, ma non meno importante, è la crisi delle forme di rappresentanza sociale sia nel campo imprenditoriale che in quello sindacale. Il venir meno di un modello organizzativo unico induce alla frammentazione sia del capitale che del lavoro. Il primo è segmentato tra interessi delle piccole imprese, spesso legate a rapporti di subfornitura gerarchica, interessi delle grandi multinazionali e attività speculative sui mercati finanziari e valutari, appropriazioni di profitti e rendite da monopolio nel campo della distribuzione, dei trasporti, dell’energia, delle forniture militari e della ricerca & sviluppo. In particolare, la contraddizione tra capitale industriale, capitale commerciale e capitale finanziario in termini di strategie e orizzonti temporali diversificati, e quella tra capitale nazionale e capitale sopranazionale in termine di influenza geoeconomica e geopolitica rende di fatto impossibile un livello di omogeneità di intenti della classe capitalistica  e la definizione di obiettivi condivisi. Possiamo affermare che è la stessa commistione tra profitto e rendita a rendere non omogenea la classe capitalistica. L’elemento che più accomuna gli interessi del capitale è il perseguimento di un profitto a breve termine (che trae origine in modo diverso), che rende praticamente impossibile la formulazione di politiche di riforme progressive, così come era invece praticabile ai tempi del capitalismo fordista.

Di converso, il mondo del lavoro appare sempre più frammentato. La figura del lavoratore salariato industriale è emergente in molte parti del globo ma sta declinando in modi quasi irreversibile nei paesi occidentali a vantaggio di una moltitudine variegata di figure atipiche e precarie, dipendenti, parasubordinate e autonome, la cui capacità organizzativa e di rappresentanza è sempre più vincolata dal prevalere della contrattazione individuale e dall’incapacità di adeguamento delle strutture sindacale fordiste.

 

Il risultato complessivo è che nel capitalismo cognitivo non vi è spazio per una politica istituzionale di riforme in grado di ridurre l’instabilità strutturale che lo caratterizza. Nessun nuovo new deal è possibile. E ciò è tanto più vero tanto più sarebbero ravvisabili delle misure in grado di favorire un riequilibrio del processo di accumulazione. Ma tali misure, che abbiamo individuato in una regolazione salariale basata sulla proposta di basic income e in una capacità produttività fondata sulla libera e produttiva circolazione dei saperi, minano alla base la stessa natura del sistema capitalista, ovvero la necessità del lavoro e la ricattabilità di reddito come strumento di dominio di una classe sull’altra e la violazione del principio di proprietà privata dei mezzi di produzione (ieri le macchine, oggi la conoscenza).

 

In altre parole, possiamo concludere che nel capitalismo cognitivo un possibile compromesso sociale di derivazione keynesiana ma adeguato alle caratteristiche del nuovo processo di accumulazione è possibile solo da un punto di vista teorico, ma impraticabile da un punto di vista politico, sic rebus stantibus. Infatti, una politica a tutti gli effetti riformista (cioè che tenda a individuare una forma di mediazione tra capitale e lavoro che sia soddisfacente per entrambi) in grado di garantire una stabilità strutturale del paradigma del capitalismo cognitivo non può esistere. Un eventuale compromesso sociale fondato sul basic income e sulla libera diffusione della conoscenza e degli altri beni comuni mina alle basi i fondamenti reali su cui si fonda il sistema economico del capitalismo: la necessità del lavoro per vivere (e quindi la sua subalternità) e la proprietà privata come fonte di accumulazione.

 

Ne consegue che, poiché è la praxis a guidare la teoria, solo il conflitto e la capacità di creare movimenti moltitudinari possono consentire – come sempre – il progresso sociale dell’umanità.

 

* Pubblicato su:  P. Leon e R. Realfonzo (a cura di), L’economia della precarietà, ManifestolibriRoma, 2008.



[1] Cfr. Azais Ch, Corsani A., Dieuaide P., (eds), Vers un capitalisme cognitif. Mutations du travail et territoire, Paris, l’Harmattan., 2000, C. Vercellone (dir.), Sommes-nous sortis du capitalisme industriel ?, La Dispute, Pasris, 2003,  A.Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo, Carocci, Roma, 2007.

[2] Il termine “lavoro immateriale” è usata dalla tradizione neo-operaista italiana: cfr. M. Hardt, A.Negri, Moltitudine, Rizzoli, Milano, 2004, M. Lazzarato, Lavoro immateriale e soggettività, Ombre corte, Verona., 1997 e  M. Lazzarato, Les révolutions du capitalisme, Le Seuil, Parigi, 2004.

[3] Cfr. S.Bellocci, E-work. Lavoro, rete, innovazione, DeriveApprodi, Roma, 2005.

[4] Per tale scopo, mi permetto di rimandare a A.Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo, Carocci, Roma, 2007.

[5] Per un’analisi più dettagliata, cfr. A.Fumagalli, C.Morini, “Segmentation du travail cognitive et differentiation salariale” in Multitudes, n. 32, 2008.

[6] Cfr. M. Castells, L’ età dell’informazione, Università Bocconi, Milano, 2003.

[7] Sul significato di moltitudine, cfr. M. Hardt, A. Negri, op.cit., 2004, pp. 207-263; P. Virno, Grammatica della Moltitudine, DeriveApprodi, Roma, 2003.

[8] Abbiamo qui ripreso la citazione di Keynes, (cfr. J.M.Keynes, Teoria Generale, ch. 24, ed. italiana, Utet, 2001, p. 567) e abbiamo sostituito il termine “capital” con il termine “knowledge” e il termine “interest” con quello di “profit”.

[9] Il che non significa che in un futuro più o meno ravvicinato tale difficoltà non possa essere superata.

 

 

 

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