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Un appunto sull’attuale fase costituente

 

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa nota di UGO MATTEI, facendo seguire una nostra breve replica come inizio di un più ampio e approfondito dibattito

Restiamo pure in disaccordo sul tasso di vitalità della nostra Costituzione, morta, viva o moribonda, ma certo la fase politica che stiamo vivendo dovrebbe rendere chiaro a tutti quanto sarebbe bello averne una che, senza alcun feticismo del testo, possa almeno in parte limitare l’insostenibile eccedenza del potere di Napolitano. Con la nomina del Gran Consiglio del Riformismo, un organo costituzionale a dir poco inquietante, proprio per quel suo essere sfacciatamente a cavallo fra costituito e costituente, il processo di sospensione anche formale della democrazia, iniziato con il Governo Monti, cambia marcia. L’alto tradimento del popolo sovrano, ignorato quando parla, come nei referendum del 2011, quando si sa come parlerebbe, come con la modifica costituzionale sul pareggio di bilancio, e ora perfino quando vota M5S, sconfiggendo la predestinata asse Bersani\Monti, è conclamato. Da lungo tempo Napolitano “prende ordini” dai poteri forti, i quali semplicemente non sopportano più il dispiegarsi della democrazia perché sanno che il popolo ora rigetta consapevolmente il loro disegno di predazione. Gli apparati ideologici della globalizzazione e il dispositivo politico-mediatico del riformismo non riescono più a sedurre né a nascondere. É necessario “attentare” alla Costituzione, sovrapponendo alle sue istituzioni un Gran Consiglio del Riformismo, forse presto una Giunta, in ogni caso un organo giuridicamente informale su un costituzionalismo formale morente, secondo alcuni da uccidere senza rimpianti, secondo me da salvare. Proprio come gli organi del PCUS sulla Costituzione Sovietica del 1977 o come il Gran Consiglio del Fascismo sullo Statuto Albertino, il Gran Consiglio del Riformismo succhia la poca linfa rimasta in una Costituzione stremata dai cambi degli assetti del potere globale.

Quando la menzogna non funziona più, non resta che la brutalità del potere che confessa senza alcun pudore di essere schierato dalla parte opposta del popolo che pur dovrebbe servire, collocandosi invece al servizio della nuova sovranità globale e dei suoi possenti meccanismi di estrazione. Di fronte a questa epifania italiana di un disegno globale che dalla Grecia, al Medio Oriente, dalla Cina alla Russia reprime e affama senza pietà i popoli per normalizzare un assetto costituito sempre più oligarchico, quale strategia devono mettere in campo i movimenti sociali che si riconoscono nel diritto inalienabile di resistenza contro l’oppressione, fondamento ultimo di ogni costituzionalismo?

In Italia, forse più che altrove, avevamo messo in campo il comune, la lotta per i beni comuni che si fa pratica costituente resistendo alla burocratizzazione del pubblico e rifiutando la legittimità del privato nella sua forma di dominio giuridicamente astratto e concentrato che ha sovvertito e rapporti di forza fra politica ed economia. I beni comuni, declinati nella pratica costituente del comune, vivono un rapporto complesso e difficile con la rappresentanza (essenza del pubblico verticale), su cui non abbiam raggiunto un accordo di sostanza né una roadmap da condividere. Occorrerebbe farlo.

Dalla primavera del 2012 alcuni compagni, chi in modo più chi in modo meno convinto (io stesso molto meno di quanto non seppi esserlo nella campagna referendaria) avevano provato a collocare questo tema all’ordine del giorno dei movimenti. Con ALBA avevamo parlato della necessità di costituire una diversa soggettività politica, ponendo i beni comuni al cuore di quel tentativo di organizzazione politica, per costruire una piattaforma in cui potessero riconoscersi e dialogare con una grammatica condivisa le diverse esperienze di comune in lotta. Più tardi, quando fu chiaro che il progetto per varie ragioni di fragilità non poteva decollare in tempi compatibili con la scadenza elettorale, “Cambiare si può” aveva immaginato un dialogo assembleare diffuso in tutto il paese anche con partiti che fossero disposti a ripensarsi e a collocarsi in un semplice comitato di sostegno (come a suo tempo nei referendum) di un esperienza davvero nuova. Il delirio di onnipotenza di più di un ex PM ha affossato questo tentativo, ma il disastro culturale di confondere il legalismo con la sinistra è un problema grave di cui nessuno di noi può più disinteressarsi. Mettere al cento il comune, infatti, significa scegliere una strategia costituente che sovverte il costituito. Il rapporto fra legalità e legittimità e quello fra partecipazione politica e rappresentanza, avrebbe dovuto essere il tema della scorsa campagna elettorale se si voleva sperare di riprodurre, anche solo in parte, quella grande insorgenza democratica che è stata i referendum sui beni comuni. Ci voleva il coraggio di battere il territorio, lotta per lotta, su questi temi, con candidature e leadership culturalmente forti, perché forti sono le ragioni di chi rifiuta la rappresentanza. Occorreva convincere i tantissimi compagni che si battono per un futuro in comune che non può seriamente mettersi in discussione il fatto che solo il diritto consente di mettere in sicurezza le conquiste delle lotte. Poiché la produzione del diritto è ancora in parte nelle mani degli apparati dello Stato poteva valer la pena di partecipare al voto con uno schieramento sovversivo.

So che anche su questo non siamo interamente d’accordo, ma resto convinto che siamo molto meno distanti di quanto possa sembrarci e soprattutto che non possiamo permetterci di coltivare la nostra distanza, a pena di divenire sempre più irrilevanti. Circostanze materiali, ovviamente coerenti con la struttura dello “spettacolare integrato” che caratterizza questa fase, hanno prodotto l’emersione del M5S grazie al quale le contraddizioni interne del riformismo neoliberale stanno esplodendo con rapidità inaspettata di cui l’ istituzione del Gran Consiglio di Napolitano non è che l’ ultimo atto.

I movimenti non possono stare inattivi in questa fase! Bisogna rifornire quanti oggi si trovano in Parlamento a rappresentare la resistenza contro il neoliberismo e la sua logica predatoria pubblica o privata di elaborazione teorica e soprattutto di prassi forte in materia di beni comuni. Occorre una nuova discesa in campo per protestare contro una gestione del dopo voto che sembra sempre più chiaramente un golpe bianco. Se poi il Parlamento durasse poco (ma ne dubito, credo che piuttosto sarà ridotto ancor più all’irrilevanza), questa elaborazione collettiva e questo rinnovato attivismo, che deve prima di tutto aprire una polemica diretta, forte e chiara nei confronti del legalitarismo e del riformismo responsabili primi di questo golpe, in nome di una costituente del comune e di una legittimità sovrana che resiste al neoliberismo, potrà essere tradotta in nuova discussione sulla rappresentanza e magari pure in partecipazione diretta alle elezioni.

Già ora c’è molto da fare e il rapporto fra comune e diritto va affrontato e risolto non in astratto ma in concreto. Per questo abbiamo lanciato con i compagni del Teatro Valle, insieme al coordinamento delle occupazioni per la cultura come bene comune, la nuova Commissione Rodotà aperta e itinerante, redigente nuovi statuti dei beni comuni coerenti col disegno costituzionale ancora vigente, ma costituenti nella prassi di nuovi assetti istituzionali del comune, da tradursi in legge di iniziativa popolare o parlamentare. Mostreremo che si può produrre diritto legittimo dal sotto in su, ascoltando principalmente quelli che il diritto costituito lo resistono in quanto braccio autoritario del capitale.

Proprio come la sovversione dell’ordine costituzionale voluta dal neoliberismo e dai suoi servi, anche la lotta per il comune è entrata in una nuova fase. Non possiamo restare in pochi. Nessuno può sapere ora come le cose andranno a finire.

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É evidente la possibilità e la necessità di riaprire un dibattito tra tutti coloro che individuano nella lotta tra comune e proprietà il motore principale della costruzione di processi costituenti. L’invito di Ugo Mattei a ricercare insieme dispositivi per riprendere la lotta antiproprietaria che ha animato il movimenti dei beni comuni, ci trova perciò ovviamente concordi.

Ribadiamo subito, per cominciare un dibattito politicamente produttivo, che, per noi, lottare contro la proprietà qui e ora significa elaborare (certo elaborare insieme, dentro un esercizio di democrazia reale e espansiva) punti programmatici di riappropriazione della rendita finanziaria. Insolvenza, tassazione delle rendite, riappropriazioni dal basso, lotte per il reddito: programma, lotte, organizzazione si costruiscono attorno a questi nodi non più rinviabili. Insistere sulla distinzione tra “beni comuni” e “comune”, sulla non riducibilità dell’orizzonte del comune ai beni comuni, non è stato, in passato, il frutto di una nostra semplice ansia di precisione intellettuale: tutta la dinamica che abbiamo avuto davanti dal referendum ad oggi, mostra che le lotte per i beni comuni o si estendono in lotte del e per il comune o vengono, alla fine, tristemente riassorbite.

Lo spazio delle lotte per il comune è anche, per noi, l’unico spazio possibile per la produzione di reali processi costituenti. Non ci sembra, infatti, che il terreno di costruzione di alternative al blocco dei processi democratici possa essere la riscoperta di una centralità, anche se a tinte “neoassembleariste”, del parlamento. Siamo convinti che non ci sia, oggi, un “giusto” equilibrio dei poteri da ripristinare, semmai poteri democratici da reinventare.

Ancora: la possibilità di efficaci usi “tattici” del diritto non può essere evidentemente esclusa. Non l’abbiamo mai esclusa in passato: semmai, abbiamo sollevato obiezioni all’idea del diritto come spazio privilegiato di espressione delle lotte, e, soprattutto, all’idea che ancora oggi abbiano senso tentativi di attraversamento della governance che non mettano chiaramente a fuoco la necessità di produrre la rottura della governance stessa. Ma l’efficacia degli usi tattici del diritto va valutata in primo luogo dalla loro reale capacità di essere strumenti, fra altri, per favorire processi di ricomposizione, di incontro e di potenziamento reciproco tra soggettività. Le “occupazioni” di vario tipo, cui da tempo assistiamo e partecipiamo con estremo favore, sono, per noi, principalmente, nodi, punti di ricomposizione e di organizzazione di quel lavoro vivo che oggi nessuna mediazione “costituzionale” riesce a più a integrare: esperimenti dove si tengono insieme organizzazione della cooperazione sociale e forza di rottura sia dei dispositivi neoliberali, che ne determinano lo sfruttamento, sia delle nostalgie veterolaburiste, che ne soffocano l’espressione. É appunto questa capacità di collaborare effettivamente alla ricomposizione delle soggettività la strategia cui possiamo ancorare le sperimentazioni di usi tattici del diritto.

Cercare avanzamenti programmatici, modalità organizzative, strumenti di conricerca e di connessione delle lotte del e per il comune è il nostro laboratorio costituente: su questo, ci auguriamo il più ampio, libero e produttivo dibattito.

 

 

 

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