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Un genere che viola i confini delle norme

 

di ANNA CURCIO

Può il femminismo essere «un terreno di lotta positivo»? E soprattutto: cos’è il femminismo? Intorno a questo nodo riflette sin dalla metà degli anni Ottanta, Chandra Talpade Mohanty. Adesso è finalmente a disposizione in traduzione italiana una corposa selezione di suoi saggi scritti tra il 1986 e il 2003, raccolti nel volume “Femminismo senza frontiere”, con introduzione e cura di Raffaella Baritono (ombre corte, pp. 253, euro 22).

«Femminista del Terzo Mondo formatasi negli Stati Uniti» e consapevole della sua «posizione privilegiata», Mohanty ha ben chiaro l’obiettivo politico della sua riflessione: sottolineare «l’ineludibile legame tra movimenti femministi e movimenti di liberazione politica». Solo dentro questa connessione si dà il rapporto possibile tra il femminismo e ciò che, non senza puntuali e ricorrenti specificazioni, definisce le «donne del Terzo Mondo». Una «definizione politica e non essenzialista» che rimanda ad un luogo politico-analitico piuttosto che ad un’area geografica, evidenziando la dimensione storica e materiale segnata dal colonialismo e dallo sfruttamento capitalista; e dalle esperienze antagoniste di resistenza alle gerarchie politiche, geografiche e sociali della globalizzazione neoliberista. Una definizione dinamica, piuttosto che statica, spuria e contraddittoria che porta in primo piano la natura «complessa» della relazione tra femminismo e «Terzo Mondo» insistendo sull’imprescindibile articolazione di lotte femministe, antirazziste e nazionaliste.

Lo stigma occidentale

Non c’è trasformazione sociale senza liberazione della donna ci ha insegnato il movimento femminista negli anni Sessanta in Europa e Nord America. Non c’è liberazione della donna senza lotta antirazzista e senza che le lotte si rivolgano contro i dispositivi capitalisti di dominio e sfruttamento ci ricordano le «donne del Terzo Mondo». E Mohanty, precisamente, individua l’intersezione di classe, razza e genere quale momento imprescindibile per ripensare la pratica femminista. Su questo terreno muove una critica profonda al discorso prodotto dal «femminismo occidentale» (e anche in questo caso è estrema la cura con cui definisce e precisa il termine) sulle «donne del Terzo Mondo»: l’assunzione del codice occidentale come norma, produce la costruzione del non-occidentale come «Altro», un vero e proprio processo di «colonizzazione» che stabilisce un rapporto di dominio strutturale tra il «femminismo occidentale/colonizzatore e le “donne del Terzo Mondo”/colonizzate, e soprattutto che cancella «i conflitti e le complessità costitutive che caratterizzano la vita di queste donne».

La riflessione di Mohanty si sviluppa soprattutto intorno alla nozione di «differenza sessuale». La sua critica riguarda l’assunzione «univoca e monolitica» del patriarcato o del dominio maschile come «immobile e astorico» che nega la soggettività delle «donne del Terzo Mondo». Più precisamente, Mohanty mette in discussione l’idea – sintetizzata nell’espressione: «sono, quindi resisto!» – secondo cui il solo fatto di essere donna costituisce un terreno di politicizzazione antagonista. Nello stesso tempo individua i limiti euristici e politici della sorellanza insistendo, per inverso, sul razzismo, il colonialismo e l’imperialismo che tagliano trasversalmente «l’essere donna». L’unica sorellanza possibile è quella che si da in termini politici: «non un presupposto ma un obiettivo da conquistare» specifica efficacemente Baritono nell’introduzione. Si delinea in questo senso una solidarietà femminista trasversale ai confini, fatta di coalizioni strategiche che attraversano le divisioni di classe, razza e appartenenza nazionale. Una solidarietà fondata su «differenze comuni» storicamente e culturalmente specifiche, oltre l’omogeneizzazione delle forme dell’oppressione, degli interessi e delle forme di resistenza all’oppressione; e che assume la parzialità delle differenze delle donne a livello globale come punto di partenza delle analisi e della pratica politica. Il suo è «un materialismo storico riveduto e corretto, consapevole ora del genere-e-della-razza». E il «genere razzializzato» viene posto al centro di una critica femminista, anticapitalista e transnazionale.

Gli statuti delle lavoratrici

In questo senso il genere, e la categoria «donna», non possono più essere assunte come dimensioni omogenee, né possono farsi terreno per la costruzione di identità. La stessa definizione di «donna» è piuttosto un campo di battaglia e la sfida, per Mohanty, è data dalla possibilità di praticare il genere oltre i termini esclusivi delle esperienze del femminismo liberale bianco occidentale di classe media. Una questione che interessa la relazione tra femminismo e «donne del terzo Mondo» tanto quanto le lotte femministe in Italia e nel mondo occidentale. In gioco è l’accento da porre sul genere: come base dei diritti sessuali – alla ricerca di una migliore posizione nelle gerarchie capitaliste e nei rapporti di potere – o in relazione alla razza e alla classe come parte di una lotta di liberazione più ampia. Da un lato le «donne» intese come gruppo costruito discorsivamente, dall’altro come soggetti materiali della propria storia, soggetti agenti che si danno come gruppo strategico di lotta contro le gerarchie «imperialiste» di classe, razza e genere.

L’altro grande tema che attraversa il lavoro di Mohanty riguarda il lavoro e soprattutto l’agency delle lavoratrice. L’analisi prende le mosse dalla categoria analitica di «lavoro femminile» per esaminare la costruzione ideologica che sorregge l’attribuzione di certi lavori e mansione alla femminilità intesa come domesticità e eterosessualità. Riprendendo altre ricerche sul lavoro delle «donne del Terzo Mondo», Mohanty si sofferma non solo su come l’identità di genere costituisca il terreno di legittimazione dello sfruttamento e marginalizzazione delle donne ma indaga anche come le ideologie di domesticità e femminilità siano continua mente sfidate e messe in discussione dalle pratiche concrete di vita e di lavoro delle donne. È su questo terreno che si definisce l’agency individuale e collettiva delle lavoratrici: prendere le distanze dalla categoria naturalizzata «lavoro da donne» in particolare «da donne del Terzo Mondo» per descrivere uno spazio per la solidarietà e l’organizzazione femminista transnazionale.

Oltre i perimetri nazionali

La solidarietà femminista di cui parla Mohanty si dispiega apertamente oltre i confini nazionali e costruisce ponti tra le differenti esperienze politiche e soggettive. È questo il punto di arrivo del lavoro teorico-militante di Mohanty. Dopo aver decostruito il discorso del «femminismo occidentale» ed insistito sulla dimensione materialista del genere e della razza si tratta ora di formulare strategie nella direzione di un femminismo senza frontiere, a cavallo tra il cosidettto Occidente e il cosidetto Terzo Mondo. Una prospettiva ma anche una pratica che ci interroga direttamente come donne, militanti e studiose occidentali. L’auspicio, in questo senso è che il volume apra davvero spazi per ripensare discorsi e pratiche femministe in Italia.

* Pubblicato su “il manifesto”, 23 giugno 2012.

 

 

 

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