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Netwar 2.0: Verso una convergenza della “calle” e della rete

 

di GIORGIO GRIZIOTTI, DARIO LOVAGLIO e TIZIANA TERRANOVA

Circa un anno fa la nascente forza d’espressione della moltitudine sulla rete si è imposta all’attenzione mondiale nella battaglia Wikileaks  ed in seguito, a partire dalla Tunisia , nelle rivoluzioni di quella grande area e nei movimenti  15M e Occupy.

Dopo un anno  chiave, denso di minacce e promesse nate, queste ultime,  da un movimento mondiale  completamente nuovo, la governance finanziarizzata, cosciente della grande minaccia che l’autocomunicazione orizzontale delle moltitudini fa pesare sul suo dominio, cerca di riprendere con forza l’attacco alla libertà sulla rete.

Ecco allora arrivare il tentativo, forse sventato, di far passare lo  Stop Piracy Online Act (SOPA) ed il Protect IP Act (PIPA) e  la chiusura effettiva di Megaupload negli USA.

Oggi siamo chiamati ad un’altra grande  battaglia mondiale contro l’ACTA (Anti-Counterfeiting Trade Agreement) il  trattato liberticida di difesa del copyright e di penalizzazione della contraffazione.   Preparato in segreto dagli executives di una quarantina di Paesi e senza alcun dibattito pubblico o parlamentare ACTA, il cui relatore se n’è andato sbattendo la porta “Je ne participerai pas à cette mascarade”,  è già stato firmato dall’UE e da Obama, che si era rifiutato di avvallare il SOPA.  Per il momento non è vincolante in Europa sino quando non sarà approvato dal Parlamento Europeo ed è per questa ragione che il  movimento  si sta fortemente mobilizzando in Polonia ed ora molto più largamente.

Il rafforzamento del  copyright mette in evidenza un paradosso: da un lato è indispensabile al capitale per mantenere ed accrescere la sua posizione rentière, dall’altro ostacola la cooperazione sociale che è altamente produttiva non essendo  basata sulla divisione del lavoro ma costruita attorno al valore prodotto dalla circolazione di  flussi di credenze/desideri, dalla cattura e monetizzazione dell’attenzione, che costruisce sedimentazione di senso strutturata attraverso processi di transindividuazione.

Dentro questa contraddizione bisogna leggere la battaglia interna fra le due ali del capitalismo:  quella definita incumbent (‘detentori’) da Yochai Benkler, costituita dai consolidati agglomerati dell’intrattenimento, per cui il copyright è vitale  e  quella che Mackenzie Wark ha chiamato “classe vettoriale” che si alimenta proprio di quella produzione comune. Ne consegue che SOPA e PIPA vengano  da un lato difese dalle majors e dalle cariatidi dei media verticali quali Murdoch e compagnia[1] e dall’altro combattute da Google, Facebook, Ebay, Amazon ed addirittura dal convertito dell’ultima ora:  Microsoft… si tratta pero’ di falsi cavalieri bianchi il cui obiettivo non è tanto una presunta libertà di espressione sul net quanto la costruzione di enormi e redditizi  “recinti sorvegliati”  come giustamente segnalato dai compagni di Infofreeflow[2]. Non possiamo quindi essere d’accordo con Manuel Castells quando racconta in un’intervista[3] che Google è “più un alleato che un nemico” perchè  è semplicemente  “un business e non un’ideologia”. Una contraddizione nei termini quando si parla di una delle prime capitalizzazioni mondiali;  e cosa dire poi  della stratificazione etnica praticata sul suo famoso campus, Googleplex, dove i lavoratori hanno badge di colore diverso, diritti di accesso diverso e divieto di socializzazione?

Più in generale il dibattito scaturito in rete dopo la chiusura del sito Megaupload da parte dell’FBI e, mentre scriviamo,   rinforzato dalla decisione di  Twitter di operare un’autocensura che fa il gioco dei poteri constituiti,  è stato prevalentemente affrontato da due estremizzazioni: da una parte gli entusiasti della rete che individuano in quest’ultima il mezzo salvifico grazie alle sue caratteristiche di orizzontalità e libertà dello scambio delle informazioni, dall’altra coloro  che criticano un  capitalismo specificamente digitale a partire dal riconoscimento della nuova cattura capitalistica dello scambio dei dati e quindi nella valorizzazione dei flussi dei metadati. In questo caso il concetto ‘capitalismo digitale’ affermerebbe la separazione tra un capitalismo in rete ed uno reale dove il primo sarebbe caratterizzato dallo scontro dialettico tra il parassita e la cooperazione sociale mentre il secondo da quella tra la figura dell’imprenditore e quella dell’operaio. Le posizioni assunte nel dibattito rimandano in questo senso a quello dell’accumulazione originaria descritta da Marx nel capitolo 24 del primo libro de Il Capitale. Come suggerisce Gigi Roggero nel libro La Misteriosa Curva della Linea Retta di Lenin a seconda della valutazione che si dà dell’accumulazione non cambia solo in modo sostanziale l’individuazione di ciò da cui il lavoratore viene separato ma cambia soprattutto la strategia politica.

La produzione immateriale e quella  materiale non sono aspetti separati della produzione capitalistica.  Il capitalismo digitale non e’ una sfera à sé per riprendere la critica tradizionale al capitalismo cognitivo  come definizione che esclude la dimensione materiale della produzione e dello sfruttamento tesi sostenuta dal celebre articolo di Wu Ming sul Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto: i casi Amazon e Apple[4]. La crescente sofferenza dei lavoratori nelle corporations digitali con vite riempite di stress e depressioni ed il numero crescente di suicidi indicano chiaramente che quanto avviene  nei magazzini d’Amazon e nelle fabbriche degli smartphones della cinese Foxconn non è di natura diversa degli spietati dictat up or out che spronano ad una competitività all’ultimo sangue negli ovattati uffici di France Telecom.

Anche nel settore delle tecnologie digitali dell’informazione e della comunicazione assistiamo a grandi investimenti che vanno dalle immense,  nascoste  ed antiecologiche servers farms di Google ed in generale del Cloud Computing sino alla messa in opera  di nuove reti (4G), quando invece sul lavoro pagato si utilizzano tutte le pratiche possibili di riduzione dei costi e di discriminazione. Lo dimostrano: il crescente e massiccio utilizzo dell’offshore verso l’India o altri paesi a bassi salari  o la recente legge francese che  precarizza e rende espulsabili i giovani extraeuropei appena usciti da Ecoles d’ingénieurs pagate a caro prezzo.

Il capitalismo finanziarizzato opera dunque su un continuum di produzione e circolazione che simultaneamente intensifica i ritmi dello sfruttamento e della proletarizzazione del lavoro salariato mentre vampirizza un’enorme componente di lavoro libero prodotto con dispositivi (smartphones e tablets)  spesso acquisiti tramite meccanismi di credito e di finanziamento che obbligano all’utilizzo di mezzi di pagamento finanziarizzato privativi e compulsivi (Itunes, Ebay/Paypal, Amazon OneClick, etc.).

L’incessante ripetizione delle enclosures materiali e immateriali ci suggerisce piuttosto un modo di produzione capitalistico contemporaneo tout court per cui la produzione di informazione valorizzante[5] è l’elemento fondativo mentre la cattura del valore è basata sulla rendita. Con questo non si vuole negare l’esistenza dello sfruttamento della produzione materiale e dello sfruttamento nelle fabbriche ma si vuole individuare l’esistenza di un attrattore che catalizza e ri-organizza tutte le configurazioni produttive al di là di qualsiasi divisione fittizia tra materiale e immateriale, reale e virtuale, o nuovi e vecchi media. La rete infatti non è costituita solamente da flussi di dati, dalla programmazione o dallo sviluppo dei software ma anche dalle infrastrutture, dai servers, dai laptops, dagli smartphones e tablets etc. e dalle conseguenze implicite alla pervasività di questi dispositivi.

Nella misura in cui non assistiamo ad uno scontro tra due capitalismi, ma di un processo di riconfigurazione realizzato attorno all’egemonia della finanza, dell’informazione e della circolazione, ci sembra chiaro che il solo modo per cambiare la situazione presente passa attraverso l’auto-organizzazione del lavoro vivo moltitudinario sul territorio ed  in rete.

Tra gli esempi di auto-organizzazione moltitudinaria in rete emersi negli ultimi anni ci sembra assolutamente cruciale l’esperienza di Anonymous. Quest’ultimo è al centro della grande reazione in risposta alla chiusura di Megaupload.  Senza volerne rifare tutta la storia in poche righe Anonymous nasce praticamente  con la campagna contro la setta degli scientologi e  quella in sostegno di Wikileaks indirizzata verso le piattaforme nevralgiche di pagamento come Visa, Mastercard, Paypal, colpevoli di aver bloccato  i doni al sito di loro propria iniziativa e senza alcuna giustificazione giuridica.

Seguono l’OpTunisia in sostegno alla rivolta  e poi, in risposta all’arresto dell’hacker George Hotz, l’importante operazione contro Sony che ha permesso un accesso pubblico al catalogo della multinazionale.  La  campagna attuale in seguito alla chiusura di Megaupload apre l’era di quella Netwar che già dieci anni fa venne identificata dai pensatori della RAND come la guerra di ‘reti contro reti’, una guerra mondiale considerando la capillarità e l’estensione dei target globali e locali.

E’ interessante notare come gli  Anonymous ed l’azione hacker sul net  intervengano in modo sempre più  complementare ed integrato ai movimenti Occupy e 15M e allo stesso tempo alternativo alle piattaforme di comunicazione sociali corporative come Facebook o Twitter. Al di là dell’osmosi e  delle ovvie differenze di contesto e d’azione fra queste grandi istanze del movimento globale emergono forti  similitudini sui principi ed i modi d’organizzazione.

Il funzionamento dell’infrastruttura tecnica che ospita il dibattito politico di Anonymous é imperniata attorno agli Internet Relay Chat (IRC),  la prima forma di comunicazione istantanea (chat) su Internet e che consente il dialogo contemporaneo di interi gruppi di persone in stanze di discussione chiamate Canali. La topologia della rete IRC, come ha sottolineato Dmytri Kleiner, rimanda ad una fase pre-social network, preservando i principi della comunicazione tra pari (peer to peer) rispetto all’attuale configurazione client/server delle piattaforme di social networking basate sul web.

Gli  Anonymous hanno creato ed utilizzano molteplici Canali autonomi come luogo di dibattiti politici ed altre attività più  a sfondo scherzoso ed umoristico (lulz) o che riflettono le discussioni sul sociale.  I canali di dibattito hanno una funzione simile a quella delle  assemblee del movimento Occupy & 15M e nei due casi il coordinamento di queste istanze di discussione è leggero e non gerarchico.

Come apparso in un recente articolo[6] esiste un codice etico di funzionamento degli Anonymous  secondo cui la leadership o la celebrità non sono in nessun caso un fine in sé. “Gli Anonymous  offrono cio’ che Mike Wesch definisce come una critica virulenta del culto post-moderno della celebrità, dell’individualismo e del concetto d’identità…”  che si esprime in primo luogo nel rifiuto dell’identificazione coatta con il proprio nome e cognome che definisce il modello politico economico di piattaforme come facebook. L’anonimità in questo caso permette di esercitare in modalità elettroniche quello stretto controllo adottato nelle assemblee del 15M per evitare un tale genere di comportamento cosi come l’ostinata e scrupolosa ricerca del consenso.

I canali IRC che costituiscono le diverse fazioni degli Anonymous  sono aperti al pubblico ma richiedono un minimo di competenze tecniche e di conoscenza del contesto per accedere o essere amministratori (ops). Gli “ops” hanno l’incarico di mantenere l’ordine e quindi la possibilità d’escludere persone che  trasgrediscano  le norme culturali ed i regolamenti in vigore: sul canale Anonops per esempio è vietato fare  apologia della violenza o prendersela con  i media. Gli “ops” possono partecipare al dibattito ma non determinano i piani d’azione o le operazioni degli Anonymous.

Come nel movimento Indignados anche negli Anonymous le persone che più s’investono nel lavoro posseggono un’autorità naturale ma non per questo sono le più influenti.  Le regole sono più strette per quello che riguarda le relazioni verso l’esterno:  un Anon che non si sia implicato nelle azioni di tipo DdoS[7] e che si permetta di parlarne con un giornalista rischia l’espulsione.  Negli Indignados tutti possono esprimersi nei mass-media verticali sul movimento a titolo personale ma nessuno puo’ erigersi come rappresentante o portavoce.

A partire da questa convergenza reale si puo’ presumere che in futuro queste barriere tecniche che separano le grandi istanze del movimento si abbasseranno, l’affermarsi del bio-ipermedia[8], inteso come l’interazione continua tramite il complesso  dei dispositivi mobili,  delle applicazioni e delle infrastrutture reticolari, permetterà allora d’integrare ancora più significativamente le azioni e la forza della calle e della rete.



[2]http://www.infoaut.org/index.php/blog/clipboard/item/3735-battono-in-ritirata-le-lobby-del-copyright-netwar-ultimo-atto

[3] http://www.democraziakmzero.org/2012/01/27/auto-comunicazione-di-massa/

[4] http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=5241

[6] http://mediacommons.futureofthebook.org/tne/pieces/anonymous-lulz-collective-action

[7] DdoS, sigla di denial of service, letteralmente negazione del servizio. Si tratta di un attacco informatico in cui si cerca di portare il funzionamento di un sistema informatico che fornisce un servizio, ad esempio un sito web, al limite delle prestazioni  fino a renderlo non più in grado di erogare il servizio.

[8] http://savoirscommuns.org/reseaux-et-bio-hypermedia/

 

 

 

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