Nel bunker della storia

 

di GIOVANNA ZAPPERI

Il processo / The Trial di Rossella Biscotti

Risale al 1938 la costruzione del Foro Italico a Roma, l’imponente complesso sportivo voluto da Mussolini, la cui architettura è forse uno degli esempi più noti di estetica monumentale razionalista. All’interno del Foro Italico si trova anche la Casa della scherma, progettata in quegli anni da Luigi Moretti, poi trasformata nell’aula bunker del tribunale di Roma nel 1981. È qui che tra il 1982 e il 1984 si svolse il cosiddetto processo del 7 aprile, data dell’arresto (nel 1979) di decine di militanti dell’autonomia operaia accusati di insurrezione armata ai danni dello stato. La storia di questo processo, la cui natura persecutoria era evidente sin dall’inizio, è una pagina buia della recente storia italiana, poi archiviata velocemente senza che ci sia mai stata un’elaborazione pubblica sulla violenza della repressione ai danni di una delle componenti più significative dei movimenti dell’epoca. L’aula bunker del Foro Italico nella quale si svolse il processo ha cristallizzato nell’immaginario sociale quell’intreccio tra potere giudiziario e stato d’eccezione che rieccheggia per molti aspetti l’attuale “guerra al terrorismo”. La semplice menzione dell’aula bunker evoca infatti l’emergenza e la segretezza che contraddistinguono la risposta data dagli apparati repressivi dello stato a quelli che venivano percepiti come dei pericoli per le sue istituzioni. Che il processo si sia svolto in un ambiente così connotato sul piano storico e politico non è certo casuale, lo spazio costruito infatti è già, immediatamente, uno spazio che produce relazioni sociali.

A partire da un’indagine sulla struttura architettonica dell’aula e sulle relazioni spaziali messe in scena durante il processo, Rossella Biscotti ha iniziato una ricerca archeologica attorno alla memoria rimossa del 7 aprile, articolando ricerca d’archivio, installazione, film, scultura, e performance. The Trial / Il processo, presentato nel 2010 al Maxxi di Roma e quest’anno alla Documenta 13 di Kassel, si compone di un’installazione audio, una serie di nove sculture e una performance. Il progetto, iniziato nel 2006 nell’ambito di una ricerca fotografica attorno alle trasformazioni dell’architettura fascista, ha portato l’artista ad interrogarsi sulla storia dell’edificio e sulla sua riconversione in sede giudiziaria. È qui che Rossella Biscotti si imbatte nell’aula bunker, che riesce a visitare soltanto scortata da un carabiniere, mentre parallelamente altri suoi progetti la portano ad entrare in contatto con ex-militanti dell’autonomia e di potere operaio che avevano vissuto in prima persona l’esperienza dell’aula bunker. Saranno proprio i racconti degli ex-imputati a guidarla nella percezione di quegli spazi, rendendoli in qualche modo vivi attraverso la trasmissione di un’esperienza vissuta.

Al centro di questa installazione non c’è soltanto il tentativo di ricostruire una vicenda traumatica mettendo in evidenza le contraddizioni dell’accusa e la violenza del dispositivo processuale, come potrebbe farlo una ricerca storica, ma la possibilità di tradurre quegli eventi in una dimensione al contempo sensibile e politica. In questo senso il lavoro di Rossella Biscotti si colloca all’interno di alcune tra le tendenze più critiche nell’arte contemporanea, in cui gli artisti si interrogano su eventi che sono stati cancellati dalle narrazioni ufficiali e che coinvolgono in generale un insieme di soggetti subalterni. La ricerca estetica si intreccia con l’inchiesta storica nella sua dimensione più politica : si tratta infatti di esplorare modalità sperimentali della produzione di sapere a partire da ciò che è stato lasciato ai margini. Nel caso del Processo, l’indagine prende le mosse dalla materialità del luogo e dalla sua dimensione spettrale : l’aula bunker è riconfigurata come un luogo abitato da una serie di tracce del passato che l’artista si impiega a riattivare nel presente.

L’installazione audio che accoglie lo spettatore (la spettatrice) all’ingresso della sala espositiva è il frutto di un montaggio a partire dalle centinaia di ore di registrazione del processo, all’epoca mandato in onda in diretta su radio radicale. In questo montaggio di circa sei ore si succedono le voci dell’accusa, quelle dei vari imputati e dei pentiti, ma anche i silenzi, le pause e le esitazioni. L’audio non è tanto un riassunto dello svolgimento del processo quanto un procedere attraverso una narrazione frammentata in cui l’attualizzazione dell’evento rimosso presuppone una presa di posizione da parte dell’artista. L’organizzazione delle registrazioni è infatti una procedura formale che chiama in causa una serie di scelte – di tagli – e una messa a distanza del materiale che deve essere ricomposto in una nuova sequenza. Il montaggio è una nuova disposizione del materiale d’archivio che produce senso a partire dagli scarti, dalle fratture e dalle differenze che emergono dall’ascolto. La sequenza iniziale è in questo senso significativa : siamo all’apertura del processo e una voce atona e impersonale recita, leggendoli in fretta, i capi d’accusa. L’audio insiste in particolare sull’autorappresentazione dell’esercizio del potere come un fatto burocratico, indifferente, al quale si contrappongono le voci degli imputati, che esprimono un ventaglio di emozioni e di affetti molto più eterogeneo. La voce di Paolo Virno – l’esitazione con cui prende la parola, l’emozione che prende corpo e si trasforma mentre si difende e prende posizione – esprime qualcosa che non è possibile rappresentare soltanto attraverso il linguaggio. Nella qualità sensibile delle registrazioni si gioca una componente essenziale dell’operazione archeologica di Rossella Biscotti.

Il montaggio è un’operazione che prende le mosse da uno scarto rispetto all’evento registrato che coinvolge sia la dimensione del tempo che quella dell’elaborazione soggettiva. Ed è proprio questo scarto che permette di mostrare ad esempio le temporalità eterogenee che coesistono nelle registrazioni : il tempo di chi lo ascolta adesso e quello del processo, ma anche quello che separa la data del processo dal momento dell’arresto degli imputati, il 7 aprile 1979. Come spiega l’artista stessa, ascoltando i brani delle registrazioni si coglie come il processo riportasse gli imputati indietro nel tempo, in un passato a cui viene costantemente contrapposta l’attualità di una riflessione teorica e politica che si è prodotta anche attraverso l’esperienza del carcere. Proprio perché ascoltare del materiale registrato significa confrontarsi con temporalità contrastanti e dunque anche con la storia, le voci registrate agiscono come dei fantasmi che introducono e accompagnano gli spettatori in un ambiente – la sala espositiva – occupato da quelli che appaiono come dei resti.

Le sculture che occupano lo spazio principale, e che a prima vista potrebbero far pensare a delle sculture minimaliste, sono dei calchi in cemento armato di alcune parti di strutture presenti nell’aula bunker : le gabbie nelle quali si trovavano gli imputati, le scale d’accesso all’aula e alle celle, i microfoni, il pavimento. I frammenti architettonici scelti da Biscotti non appartengono all’architettura originaria del luogo, sono stati aggiunti durante la sua trasformazione in sede processuale e sono proprio questi gli elementi destinati ad essere rimossi nel nuovo progetto di riorganizzazione dell’edificio, che tornerà a far parte del complesso sportivo. Da questo punto di vista la realizzazione dei calchi è anche una paradossale operazione di salvataggio contro la dismissione di un pezzo di storia. Il contrasto tra l’immaterialità delle voci e la materialità delle sculture in cemento armato è tale soltanto in apparenza : in entrambi i casi siamo di fronte a dei resti che se da una parte rimandano alla qualità indiziale della registazione e del calco, dall’altra mettono in scena un presente in cui il passato ritorna nella forma di un insieme di tracce che è necessario interpretare.

Il terzo aspetto del Il processo, quello performativo, è forse la parte in cui più si gioca la questione della traduzione del passato e della sua attualizzazione. Il giorno dopo l’inaugurazione della mostra a Roma, Rossella Biscotti ha invitato un gruppo di persone – tra cui alcuni ex-imputati, le loro famiglie e gli avvocati, nel frattempo diventati amici – a visitare l’aula bunker del Foro Italico ormai in via di demolizione, che si trova non lontano dal museo, sulla sponda opposta del Tevere. Alle sale deserte del museo, abitate dalla presenza spettrale delle voci registrate e delle sculture, si contrappone adesso una presenza in carne ed ossa nei luoghi del processo, anche a compimento di un percorso di condivisione e di amicizia. La dimensione privata di questa performance collettiva disegna la possibilità di una memoria condivisa nel tentativo di fare emergere aspetti cruciali della recente storia italiana.

Un’ulteriore dimensione performativa è quella attivata in occasione della Documenta : qui le registazioni audio che accolgono gli spettatori sono tradotte in simultanea (in inglese o in tedesco) da una persona seduta in un angolo della sala espositiva in cui si trovano le sculture. Questo dispositivo dell’installazione mette al centro la questione della traduzione e suggerisce il continuo spostamento cui Rossella Biscotti sottopone i materiali di cui si serve. La traduzione qui è un’operazione che investe la sfera del linguaggio (tradurre implica sempre anche uno spostamento o un’interpretazione), quella delle forme (prelevare frammenti architettonici e tradurli in sculture) e quella delle temporalità che si incrociano in questo lavoro (la voce spettrale dell’audio diventa corpo vivente e presente). La traduzione dunque non riguarda semplicemente il problema banale di rendere intelligibili le registrazioni ad un pubblico che non parla l’italiano, ma diventa un modo di attualizzare l’evento storico nei termini di un’esperienza al contempo spaziale, politica e affettiva.

I tre aspetti che compongono il lavoro, che possono sembrare autonomi dal punto di vista delle forme e dei linguaggi utilizzati, sono in realtà strettamente interrelati tra di loro in quanto si concentrano sul problema della percezione di ciò che è stato rimosso e della sua possibile traduzione a partire da una prospettiva presente. Come spesso accade per gli artisti che si interessano ad eventi storici traumatici, sono degli aspetti apparentemente secondari che permettono di accedere al passato tirando i fili che legano tra loro i diversi frammenti riattivati dall’artista : lo spazio architettonico e la sua dimensione costrittiva (lo spazio sotterraneo, le gabbie, la disposizione dei corpi nello spazio) come elemento strutturante del funzionamento dell’apparato repressivo dello stato ; la voce registrata come ritorno del rimosso in forma di spettro che aleggia sulle tracce tangibili del processo ; la performance infine in quanto re-enactement che attualizza l’avvenimento storico attraverso l’esperienza.

La rappresentazione dell’aula giudiziaria come uno spazio contrastato e attraversato da rapporti di forza permette anche di riallacciarsi ad alcuni aspetti del presente. Nel contesto attuale del berlusconismo e del post-berlusconismo, il tribunale è infatti costantemente invocato, segnatamente da sinistra, come istanza salvifica, ultimo baluardo di uno stato democratico in via di decomposizione. Contro una visione normalizzante e profondamente repressiva dell’organizzazione sociale, questa archeologia del 7 aprile permette di fare emergere i potenziali risvolti traumatici e violenti di una concezione del processo come soluzione ; ricordandoci anche che amnesia e rimozione sono componenti strutturali del nostro presente.

 

Scarica il pdf con la documentazione fotografica dell’installazione Il Processo a dOCUMENTA (13).

Vai alla documentazione della performance nell’Aula Bunker del Foro Italico, 4 dicembre 2010 [da dOCUMENTA (13)].