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Brevi appunti sulle elezioni italiane

 

di ANDREA FUMAGALLI e CRISTINA MORINI

Vi è un dato certo che scaturisce dai risultati elettorali ed è, a nostro avviso, il più importante. I sostenitori dell’ineluttabilità delle politiche di austerity sono stati sconfitti, con buona pace delle varie troike e istituzioni monetarie.
Non a caso è il dato che la stampa estera ha immediatamente rilevato. Non altrettanto fa la stampa mainstream italiana. E non può stupire. Dietro la sconfitta delle politiche di austerity si nasconde infatti la sconfitta del partito di Repubblica e del partito dei Bocconiani (leggi Corriere della Sera).

Tale rifiuto si è canalizzato in due modi: in modo tradizionale-populista nel recupero di Berlusconi che ha sfruttato la tradizione italiana anti-tasse, nonché l’estensione della governance mafiosa anche al Nord (in particolare in Lombardia); in modo innovativo-populista, con il clamoroso successo del M5S.

Dal 1994 a oggi si sono svolte sei elezioni politiche generali. In nessuna di queste, le forze del centro-sinistra sono mai riuscite ad ottenere una chiara e limpida vittoria elettorale. Eppure a questo fine era stata fatta la svolta della Bolognina all’indomani della caduta del muro di Berlino. É evidente che tale strategia non ha funzionato. Ma era altrettanto chiaro che non avrebbe mai potuto funzionare. Il cambio di paradigma nel processo di valorizzazione (con il prevalere della contrattazione individuale e delle strategie di breve periodo) e con il mancato decollo di un vero capitalismo cognitivo  (per l’eccessiva struttura familista, affarista, stato assistita e corrotta delle imprese e l’incapacità corporativa e la tendenza risk-bearer del sistema creditizio italiano, nonostante una forte crescita del grado di istruzione della forza-lavoro) non ha mai creato uno spazio sufficientemente ampio per avviare un progetto riformista in grado di garantire una governance sociale stabile. Gli interessi del profitto e il suo divenire rendita sono stati gli unici obiettivi della governance provinciale della politica italiana, a cui, colpevolmente, il centro sinistra si è accodato. Queste ultime elezioni sono state il canto del cigno per la sinistra riformista.

Ma se il PD piange, piange molto di più la cd. sinistra radicale. Per la seconda volta non riesce ad accedere al parlamento. E non poteva essere altrimenti visto che, nonostante numerose avvisaglie al riguardo, l’impostazione novecentesca sia nei contenuti che nella metodologia di azione politica è sempre rimasta dominante. Per la loro morte, noi, sicuramente, non piangiamo.

Siamo così entrati, finalmente, nel nuovo secolo.

Il vero vincitore delle elezioni è ovviamente Beppe Grillo. Il suo uso dei media è tanto sapiente quanto lo è quello di Berlusconi, anche se la strategia è opposta. In quanto proprietario, Berlusconi usa la televisione per entrare nelle case degli italiani con le sue mirabolanti promesse. Grillo ottiene altrettanto pubblicità, in modo indiretto, negandosi alla televisione. La comunicazione è ancora fondamentale, anche se queste elezioni ci dicono che non basta. Il voto al M5S è anche il frutto di una capillare presenza nelle piazze. Presenza che è stata resa possibile grazie ad un lavoro di lunga durata che è cominciato quasi 6-7 anni fa e che è stato in grado di raccogliere ciò che era stato seminato dal popolo viola, tramite modalità organizzative (i meet-up) altamente flessibili e modulari. Ma vi è un elemento ancor più importante: il M5S vince perché non è un partito. Ciò conferma che le forme tradizionali della rappresentanza sono anch’esse definitivamente perdenti: il M5S non ha una sede centrale né sedi periferiche o circoli, non ha un segretario né una segreteria. Ha invece un “capo” indiscusso, assai ricco, in grado di controllare e reprimere ogni forma di dissidenza interna e che non si candida. L’entrare in Parlamento rappresenterà una prova della validità di questo modello organizzativo.

Si è scritto che la governance economica finanziaria, sia a livello europeo che nord-americana, sia rimasta delusa dall’esito elettorale. Da più parti si è gridato all’emergenza dell’”ingovernabilità”. In realtà, non si può parlare di emergenza, ma di una conferma di quanto si è già verificato: la conferma dell’impossibilità di una governance tutta politico-istituzionale della crisi.  La crisi europea aveva da tempo evidenziato tale incapacità e impossibilità, già all’indomani dello scoppio della crisi greca nel lontano 2010. Ciò che si confonde è la crisi della governance politica con quella della governance economico-finanziaria. L’élite burocratica europea (Germania in testa) avrebbe di gran lunga preferito la formazione di un governo stabile Bersani-Monti, in  grado di legittimare, sul piano del formalismo democratico, il golpe bianco del novembre 2011 che aveva portato alla costituzione del governo tecnico Monti-Napolitano-Draghi. Se ciò non è avvenuto, non significa che l’attuale governance finanziaria sia entrata in crisi. Anzi. Come abbiamo scritto più volte, la speculazione finanziaria, al centro dei processi di accumulazione e valorizzazione del capitalismo contemporaneo, può solo gioire a fronte dell’instabilità politica, in quanto i suoi margini di manovra si moltiplicano, consentendo di ampliare il terreno della stessa attività speculativa. E il recente andamento delle borse (up and down) lo dimostra. Certo, tale dinamica non porterà alla soluzione della crisi economica, ma consentirà comunque alle grandi società finanziarie di lucrare altre nuove fonti di plusvalenze.

La possibilità di uscire dalla crisi economica sta, come giustamente ha scritto Benedetto Vecchi, nel porre al centro dell’azione politica il tema del “lavoro vivo”, il grande rimosso di questa campagna elettorale. Se il tema della precarietà è rimasto sullo sfondo, tuttavia è merito del M5S aver portato alla ribalta il tema del reddito di cittadinanza. É un tema – come è noto – che ci sta particolarmente a cuore, anche se preferiamo chiamarlo Reddito di Base.

Per favorirne l’introduzione anche in Italia (che con la Grecia è l’unico paese nell’Europa dei 27 a esserne sprovvisto) è stata organizzata una raccolta di firme per una legge di petizione popolare, dal titolo “Proposta per l’introduzione di un Reddito Minimo Garantito”, che nel trimestre ottobre – dicembre 2012 ha raccolto più delle 50.000 firme necessarie, grazie al contributo di movimenti, associazioni e partiti (in particolare, Sel).

Tuttavia nel corso della recente campagna elettorale, tale proposta non è stata ripresa con il necessario vigore, neanche da quei promotori che hanno partecipato alla campagna elettorale, forse troppo attenti a non mettere in discussione alcune alleanze strategiche. Fatto sta che solo il movimento 5 Stelle ha parlato della necessità di introdurre il reddito di cittadinanza in modo esplicito. C’è forse un nesso tra la riluttanza dei partiti tradizionali nel trattare esplicitamente questo tema e il risultato elettorale?

Tuttavia, dobbiamo rilevare che la proposta del M5S presenta alcune lacune.

In primo luogo, il reddito di cittadinanza (pari a 1000 euro mensili) dovrebbe essere erogato per tre anni ai soli disoccupati. Tale target non tiene conto che oggi i nuovi poveri non sono solo quelli che sono al di fuori del mercato del lavoro (i disoccupati propriamente detti, per l’appunto), ma sempre più sono coloro che, pur lavorando (e quindi formalmente inseriti nel mercato del lavoro) spesso percepiscono redditi inferiori alla soglia della povertà relativa o perché mal pagati o perché precari. Costoro sono proprio coloro che difficilmente riescono a ottenere sostegno dagli ammortizzatori sociali attualmente esistenti. Se per reddito di cittadinanza si intende solo una nuova forma di sussidio di disoccupazione, il problema rischia di non essere risolto. In secondo luogo, la proposta di Grillo non fa alcun riferimento al parametro della “congruità” , ovvero alla possibilità del beneficiario di poter rifiutare un’offerta di lavoro quando questa non è congrua alle sue capacità, luogo di residenza e grado di istruzione. Si fa solo riferimento al fatto che ha tre possibilità di rifiuto prima di perderne il diritto. In terzo luogo, se è vero ciò che traspare da alcune dichiarazioni sul blog di Grillo, il reddito di cittadinanza avrebbe un effetto sostitutivo rispetto a parte dei dipendenti pubblici e a parte dei pensionati. Ciò starebbe a significare che i fondi per il suo finanziamento si ricavano da licenziamenti di massa nel pubblico impiego o da ulteriori interventi sulle pensioni? Vorremmo ricordare a Grillo che le pensioni e il lavoro pubblico rientrano nella sfera della dinamica salariale, mentre il reddito di base dovrebbe essere finanziato dalla fiscalità collettiva e non dal salario differito (previdenziale) di una parte dei lavoratori.

E sulla tematica del nuovo welfare, del welfare del comune, che si può aprire uno spazio per i movimenti sociali. Verrà colta l’occasione?

 

 

 

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