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Dov’è finito il No Dal Molin?

 

a cura di DONATO TAGLIAPIETRA e GIGI ROGGERO

Sono passati quasi sei anni dalla sera del 16 gennaio 2007, quando il movimento No Dal Molin occupava i binari della stazione di Vicenza e dava poi vita al presidio permanente, da allora centro di discussione e organizzazione del movimento. L’iniziativa era nata per rispondere immediatamente all’editto con cui l’allora presidente del consiglio Romano Prodi confermava gli impegni presi dal suo predecessore Silvio Berlusconi per costruire una nuova base militare americana. Per due anni il No Dal Molin è stato uno dei punti di riferimento delle “lotte territoriali”, attraverso manifestazioni locali e nazionali (la più grossa è quella del 17 febbraio 2007, con 150.000 partecipanti), occupazioni e azioni dirette; con altre esperienze di lotta comuni, a partire dal No Tav, ha creato un “patto di mutuo soccorso”. É stato uno straordinario processo collettivo di soggettivazione, che ha coinvolto centinaia e centinaia di persone che hanno finalmente preso in mano le decisioni sul proprio presente.

Nel 2008 il movimento ha espresso una propria lista alle elezioni comunali, Vicenza Libera: benché fuori dalla coalizione, ha fatto dell’opposizione alla base il tema centrale per l’elezione del sindaco Achille Variati. Il 4 luglio dell’anno successivo avrebbe dovuto essere il giorno dell’indipendenza e della liberazione dalla base americana: un corteo numeroso è arrivato alle reti, ha provato a superare lo schieramento di polizia, ma non è riuscito ad andare oltre l’iniziativa simbolica. Da allora per il No Dal Molin si apre una nuova fase, emergono problemi e difficoltà, i lavori della base cominciano, le istituzioni locali passano dal rifiuto alla richiesta di “compensazioni”, cioè infrastrutture (una tangenziale e un miglioramento dei trasporti, aree verdi e un’università locale con know-how americano) che dovrebbero bilanciare o almeno rendere meno pesante la completa militarizzazione della città. Ambigue promesse rimaste, peraltro, senza realizzazione (perfino il commissario dei lavori della base, Paolo Costa, è stato destituito in luglio, benché la notizia si sia saputa solo ora). I se e i ma hanno incrinato la compattezza dell’opposizione, molti hanno iniziato a percepire un senso di sconfitta, il movimento sembra perdere centralità nel dibattito politico territoriale e nelle dinamiche di lotta nazionali. La creazione del Parco della Pace, area militare riconsegnata per un certo periodo di tempo alle ragioni del No Dal Molin, viene visto in modo ambivalente: alcuni ne parlano come di una vittoria, altri come di un ulteriore tentativo di “compensazione”. Più che un’affermazione di pace contro la guerra, appare come un’opera di pacificazione contro il conflitto. E arriviamo così all’oggi: la parola maggiormente usata da attiviste e attivisti del No Dal Molin è “impasse”, che ben fotografa lo stato dell’arte.

Un patrimonio a rischio di frammentazione

Se per tutti il punto di svolta è costituito dall’inizio dei lavori, ci sono vari modi per leggere l’impasse, e la diversità di interpretazioni appartiene anche ai differenti background degli attivisti. Chi viene da esperienze anti-militariste e pacifiste, come alcune delle donne del presidio, tende a mettere in evidenza la complessità della battaglia contro l’industria bellica, la difficoltà di educare alla disobbedienza civile, l’importanza di collegarsi ad altre lotte specifiche come quelle contro i poligoni in Friuli o la presenza militare a Niscemi. La mancanza di peso nella politica istituzionale (“nel caso dei ricorsi al Tar e alla commissione europea è mancata una capacità di lobby”) e di una sinistra in grado di farsi ricettore delle istanze del movimento viene vista come un limite che finisce, a detta di figure provenienti o meno da esperienze precedenti, per bloccare le prospettive di vittoria. C’è allora chi questo peso istituzionale cerca di costruirlo entrandovi, ad esempio con le liste arancioni: da questa angolazione, l’impasse viene ritenuta “un elemento fisiologico delle parabole dei movimenti”. Lo schema è piuttosto classico: “la fase di movimento è indispensabile, però deve poi arrivare il momento della costruzione di qualcosa di diverso. Ciò si ottiene con la presenza nelle istituzioni, perché lì ci sono le chiavi delle decisioni. Prima la protesta, poi uno sbocco istituzionale anche se non istituzionalizzato”. Il Parco della Pace o “la voglia di interessarsi della cosa pubblica” sono così interpretate come “fiammelle da tenere vive” – attraverso uno sbocco istituzionale, appunto.

Ma qui le strade si biforcano, alcuni sottolineano come siano stati proprio il sindaco e le istituzioni locali a contribuire a sgonfiare la mobilitazione: “la richiesta delle compensazioni ha ulteriormente diviso il movimento, anche dentro il presidio. Lo stesso Parco della Pace è concesso per 50 anni, revocabili, poi tornerà nelle mani del Ministero della Difesa. Non parliamo poi della viabilità: perché dovremmo pagarla noi e addirittura subirla, in un territorio dove con un po’ di pioggia si allaga tutto?”. Retrospettivamente, emergono anche le differenti posizioni e le contrarietà rispetto a Vicenza Libera, perché “è andata a danno del movimento, tant’è che oggi non è più uno strumento ma una semplice lista civica e di rappresentanza”.

L’impasse sembra produrre tre percorsi diversi: delusione e riflusso, scelta di percorsi individuali, amministrazione dell’esistente. Quest’ultima è la caratteristica prevalente nel presidio, che nonostante le difficoltà ha il merito di tenere aperto uno spazio di espressione collettiva, cercando di non disperdere quello che tutti definiscono un “patrimonio”, cioè “l’esperienza di maturazione della città”. Anche qui, tuttavia, ci si interroga su come aprire delle prospettive nuove, andando oltre il piano della semplice resistenza e dell’ordinaria gestione. E qui iniziano i problemi, quelli da affrontare e quelli da porre.

“Adesso il discorso deve cambiare”

Sulla necessità di ripensare categorie politiche e parole d’ordine alla luce del nuovo contesto, sono quasi tutti d’accordo. Come e in che direzione, questo è il nodo. Per cominciare, “bisogna guardare in avanti e non spartirsi le spoglie: o ci accucciamo oppure facciamo un salto di qualità, forse non tutti l’hanno capito”. E ancora: “ci vuole una certa capacità di autocritica, invece spesso prevale l’idea di essere i migliori o comunque autosufficienti”. C’è poi chi spera in un cambiamento interno alle strutture organizzative del movimento, “ad esempio prendendo spunto dai modelli decisionali condivisi creati da Occupy”. E forse andrebbe detto con più chiarezza che non si tratta affatto di tecniche di mediazione delle decisioni, ma di una ricerca di istituzionalità autonoma dei movimenti.

Una cosa sembra però chiara: “sul piano meramente territoriale non abbiamo possibilità di vincere, tanto è vero che abbiamo perso. Rinchiudersi in una dimensione troppo specifica è stato un errore. Ora la questione è: come costruire un movimento che non sia ancorato solo a questioni locali, ma che riesca a collegarsi con altre realtà e assuma una capacità di iniziativa generale?”. Il problema non è semplicemente come conservare e gestire il patrimonio, ma come farlo divenire movimento, di nuovo e in modo nuovo.

Rispetto al 2007 il mondo è per molti aspetti cambiato. Innanzitutto, è dentro la crisi che il discorso politico del No Dal Molin va ripensato. Il movimento No Tav, pur con le evidenti differenze e peculiarità di lotta e di composizione sociale, ha saputo generalizzarsi esattamente rielaborando la propria continuità di radicamento conflittuale alla luce della discontinuità determinata dall’irrompere e dall’accelerazione della crisi. A Vicenza, invece, la crisi tende da alcuni a essere vista come inevitabile blocco della partecipazione e non come possibilità di conflitto: “le persone devono tirare avanti e hanno difficoltà a pensare ad altro”. Tuttavia, è proprio questa materialità della nuova condizione che può permettere di fondare una nuova lotta contro la militarizzazione della città, intesa come specifico modello di accumulazione ed espropriazione funzionale alle politiche di austerity. Su questo il sindacato ha detto troppo poco e ora quasi nulla, seguendo la vecchia e stucchevole idea di un’industria bellica che comunque crea lavoro: “la retorica è che le basi portano schei, ma l’indotto principale è costituito dalle abitazioni, con gli affitti che schizzano alle stelle e riempiono le tasche della rendita urbana, e dai locali di lap dance. Gli ufficiali americani fanno incontri con i sindaci, costruiscono public relation, vanno addirittura nelle scuole e fanno andare i bambini nelle caserme”. Non è un caso che uno dei soggetti protagonisti di questo modello sia la CMC di Ravenna, una vera e propria multinazionale delle cooperative – ovviamente legata alla sinistra – per cui l’alta velocità e la guerra sono ottime occasioni di profitto. Il “no alla base” deve allora divenire opposizione alle politiche di austerità, andando così oltre a un discorso sui beni comuni che, se privato di questa materialità, rischia di essere una retorica svuotata.

La lotta per la pace, conseguentemente, non è più confinabile a un’espressione etica, ma si combina immediatamente con la lotta per l’affermazione di un nuovo welfare e della decisione collettiva sulla ricchezza prodotta in comune. Anche la guerra, del resto, è cambiata negli ultimi anni. Con la sconfitta del bushismo si è esaurito il fallimentare tentativo di restaurare un’egemonia americana da tempo in crisi irreversibile. Obama e Romney mostrano il volto buono e la faccia truce, ma entrambi si guardano bene dall’intervenire sui temi caldi della politica estera. Alla fine dell’egemonia americana si accompagna però non la cessazione ma la proliferazione delle guerre, sempre più utilizzate come intervento di polizie internazionali tra loro in competizione nel controllare e prevenire insorgenze sociali (si veda l’intervento in Libia). Non è un caso che il Dal Molin, inizialmente pensato come base delle spedizioni verso Iraq ed Afghanistan, diventi ora – dopo le “primavere arabe” – avamposto del comando americano Africom. A ciò si aggiunge, sempre a Vicenza, il potenziamento della vecchia base sotterranea Pluto, il campo di addestramento a Santa Tecla, il quartier generale della nuova polizia europea Eurogendorf (i cui funzionari, secondo quanto recentemente denunciato da militanti greci arrestati, li avrebbero minacciati durante gli interrogatori di dare nomi e indirizzi ai neo-nazisti di Alba Dorata).

Insomma, quella che è stata la città di Palladio è oggi a tutti gli effetti un’area militare, ovvero un modello di accumulazione capitalistico fondato sulle  nuove funzioni della guerra e i circuiti che attorno ad essa gravitano. Così, negli ultimi anni sono nati vari comitati contro le bretelle, le tangenziali e quelle opere infrastrutturali che non solo non possono compensare nulla, ma al contrario minacciano di peggiorare le condizioni di vita. In questo quadro va allora praticato quello che alcuni chiamano il “diritto alla città”, o meglio un diritto a reinventare la città come spazio di relazioni e cooperazione liberate dallo sfruttamento, dalla rendita e dalla guerra. Perché il volto lugubre della militarizzazione urbana non è alternativo ma complementare ai modelli dell’economia creativa di Venezia o delle piccole e medie imprese del padovano: si tratta di forme diverse che si combinano e fanno sistema, la governance della crisi è esattamente il risultato del loro intreccio.

Le coordinate dello spazio urbano devono tuttavia coniugarsi con quelle europee e globali, perché solo su questo piano la battaglia può essere giocata e vinta. Gli attivisti del No Dal Molin ci hanno provato tra il 2007 e il 2008, andando a Praga per stringere rapporti con esponenti dei movimenti contro la militarizzazione, oppure negli Stati Uniti per incontrare le donne pacifiste di Code Pink – “siamo state anche ricevute dalla commissione difesa del Congresso americano”. Tuttavia, i movimenti dentro la crisi degli ultimi anni hanno determinato un punto di svolta rispetto alla testimonianza dei gruppi pacifisti. In questa prospettiva la domanda dov’è finito il No Dal Molin, inteso come patrimonio di tutti, andrebbe letta congiuntamente a un’altra e complessiva questione: dov’è finito il movimento contro la guerra? Ha balbettato imbarazzato e impotente quando gli aerei hanno cominciato a bombardare la Libia, e stenta oggi ad affermarsi al centro dei programmi di lotta.

Anche sull’altra sponda dell’Atlantico, nella potente esperienza di Occupy, il tema della guerra non sembra in primo piano, sostiene un attivista newyorkese: “se affrontato in termini classici è difficile andare oltre a dichiarazioni di principio. Una parte degli attivisti sono stati scottati dall’inefficacia depotenziante delle mobilitazioni contro la guerra in Iraq, per questo non si può semplicemente ripetere un rituale pacifista”. Qui è il punto su cui ci si interroga dentro Occupy, sottolinea un altro: “noi cerchiamo di legare la lotta per la pace a questioni materiali, innanzitutto la lotta contro il debito. Per molti aspetti, infatti, il debito è guerra e la guerra è finanziata con il debito. Per liberarsi dalla guerra bisogna quindi liberarsi da un sistema fondato sul debito”. A partire da questa materialità Occupy ha saputo legarsi, non solo simbolicamente, alle insorgenze arabe. Così una militante tunisina, sottolineando il nesso tra lotta per la pace e liberazione dalla crisi, ne chiarisce le coordinate globali, rivolgendosi innanzitutto ai movimenti europei: “O vinciamo insieme, o perdiamo divisi”. Insomma, non si vince a Vicenza se non si vince a Tahrir square e a Zuccotti Park, a Puerta del Sol e a piazza Syntagma. Forse è proprio a partire da questo nuovo paradigma delle lotte e con questi soggetti collettivi che, nel No Dal Molin e altrove, andrebbe ripensata la discussione per riposizionarsi nel comune campo di battaglia per la pace.

* Pubblicato su “il manifesto”, 27 dicembre 2012.

 

 

 

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