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Il 6 maggio, uno “sciopericchio”. Verso lo sciopero precario

 

di RETE SAN PRECARIO

Dopo un lungo travaglio, la segreteria nazionale della Cgil ha partorito la data e le modalità dell’evocato sciopero generale. Si svolgerà tra due mesi, il 6 maggio, durerà quattro ore, e non le ventilate otto, e comporterà manifestazioni territoriali invece che un unico corteo nazionale, a Roma. Ci è chiaro: questo “sciopericchio” (lo chiameremo così, alla maniera di Sciascia) è frutto innanzitutto di un compromesso tra le componenti interne della Cgil, ed è stato accettato dalla segreteria per due ragioni principali. La prima deriva dalla linea della componente di maggioranza sancita dall’ultimo congresso della Cgil, ovvero dal tentativo (già in quel momento apparso poco realistico) di ricucire l´unità di azione sindacale con Cisl e Uil. Un tentativo che negli ultimi mesi, dopo il terzo contratto nazionale con firme separate (quello del Commercio, che segue la Funzione Pubblica e i Metalmeccanici) e le note vicende di Pomigliano e Mirafiori, si evidenzia come addirittura improponibile. Proprio per questo, la parte moderata della Cgil teme il rischio di un crescente isolamento, teme di perdere il ruolo di parte sociale all’interno di ventilate politiche di riforma – nel campo fiscale o in quello della contrattazione nazionale – benché queste, visto il governo e l’opposizione che ci ritroviamo, sempre più si presentino come vere e proprie illusioni. La prima ragione dell’indizione di questo timido sciopero si deve insomma al fatto che la Cgil si trova schiacciata in una specie di morsa “interna”: il governo Berlusconi e Cisl e Uil operano per favorire una conventio ad excludendum, ovvero una tacita intesa che ha come fine la sua esclusione da certe forme di alleanza, partecipazione o collaborazione. Ovvio che la parte più concertativa e moderata della stessa Cgil voglia evitare in tutti i modi che ciò accada. La dichiarazione di un mezzo sciopero con le modalità ricordate è frutto di questa situazione complicata e confusa, di queste ansie e dei conseguenti tentativi di rassicurare la controparte sulla propria affidabilità. Non è un caso, infatti, che le categorie, protagoniste di accordi separati (funzione pubblica, metalmeccanici e ora commercio), abbiano, invece, già dichiarato che per i propri iscritti lo sciopero sarà di otto ore. E lo stesso hanno fatto i lavoratori della conoscenza (Flc) e gli edili.

In questo senso lo “sciopericchio” del 6 maggio si deve anche a ragioni “esterne” alla Cgil. Da qualche mese a questa parte – come è noto – si è aperto un tavolo con la Confindustria per arrivare a stabilire un nuovo patto sociale per il lavoro, che dovrebbe riscrivere completamente le regole di determinazione del salario, i modelli contrattuali oggi in essere, la struttura degli ammortizzatori sociali e dei contributi fiscali in nome dell’incremento della produttività del lavoro. Per la linea cogestiva della maggioranza della Cgil si tratta dell’ultima occasione per continuare a essere un soggetto istituzionale riconosciuto. Non è un caso che nel comunicato di indizione dello sciopero del 6 maggio neanche una parola venga spesa per criticare la linea strategica del padronato italiano che, dopo alcuni tentennamenti iniziali, si è sdraiato pancia a terra sulle posizioni neo-autoritarie di Marchionne (nonostante la disdetta unilaterale del contratto metalmeccanico firmato anche da Federmeccanica). L’obiettivo dello “sciopericchio” è “l’inefficienza del governo Berlusconi nel contesto attuale di crisi economica”.

Varrebbe la pena di guardarci negli occhi e di parlarci con sincerità: siamo veramente convinti che è il governo Berlusconi sia “inefficiente”, vale a dire che non stia lavorando, cioè non stia prendendo provvedimenti economici nel contesto attuale? Siamo certi che sia la sua “inefficienza” il nostro problema e non siano invece le scelte sociali, precise, che compie? Le precarie e i precari hanno capito perfettamente che cos’è, che cosa significa, ad esempio, il Collegato Lavoro 1167 – un ultimo tassello dentro il progressivo totale disfacimento del diritto del lavoro – che ha scopi assolutamente coerenti (per tutti lor signori).  E sullo stesso piano di azione regressiva, si pone la proposta di riforma di welfare del ministro Sacconi. Così, in effetti noi pensiamo che la segreteria della Cgil punti a enfatizzare l’aspetto dello sciopero politico (contro il governo) poiché non ha il coraggio di lanciare un vero sciopero sociale. Impantanata come è in una serie di ragionamenti e valutazioni di opportunità, ha preferito modalità di attuazione di basso profilo.

In questo contesto, la critica allo “sciopericchio” è sacrosanta. Che cosa possiamo dire sul merito del 6 maggio così come è stato presentato? Che è una data insufficiente, che la Cgil dimostra di avere una direzione debole e incerta, una strategia fuori tempo massimo, di non avere il
coraggio di prendere il toro per le corna, di essere soggetta a obiettivi di facciata e parziali, che la pur giusta invocazione di uno sciopero politico è stata falsata. Si può e si deve fare di più: uno sciopero politico contro Berlusconi deve mettere al centro la precarietà. Chiedere che vengano attuate politiche per lo sviluppo (quale sviluppo? Quello dell´automobile e di una crescita quantitativa fine a se stessa?) significa solo accentuare la precarietà. Abbiamo bisogno d’altro e per questo continueremo ad andare avanti sulla nostra (cattiva) strada dello sciopero precario, così come è stato lanciato dagli Stati Generali della Precarietà 2.0, lo scorso metà gennaio a Rho (Milano). A tal fine, i prossimi Stati Generali della Precarietà 3.0 (che si terranno a Roma dal 15 al 17 aprile) saranno del tutto dedicati a discutere e a elaborare collettivamente le forme di un vero sciopero precario. E si tratta di un percorso che non può passare né da scorciatoie né da accordi di vertice con realtà di movimento: al contrario la sua potenza sarà quella dell’intelligenza cooperativa di tutti i soggetti precari.

I punti che vogliamo, sin d’ora, porre all’attenzioni delle realtà di movimento e sindacali sono i seguenti:

  1. Innanzitutto, noi non riteniamo di dover parlare di “sciopero dei precari”, ma di sciopero precario tout court, anche perché molti di noi non possono “materialmente” fare sciopero (pur volendolo). Nella maggior parte dei casi, la ricattabilità, la dipendenza economica, ideologica, dagli immaginari del potere, il senso di fragilità e di impotenza sono tali che questo diritto individuale e costituzionale viene, di fatto, negato.
  2. In secondo luogo, se il nuovo mercato del lavoro isola i precari, la frammentazione rende impossibile individuare luoghi produttivi precisamente definibili. Lo sciopero precario è dunque una nuova concezione di sciopero, distinto da quello che ha caratterizzato le lotte del Novecento: non più esito finale di una consapevolezza già esistente, ma strumento di presa di coscienza; non più semplicemente blocco della produzione, ma piuttosto blocco dei flussi produttivi, materiali e immateriali.

Ecco allora che riteniamo necessario unire due livelli di azione:

  1. Il primo è quello della soggettiv/azione precaria. L’azione deve essere “voluta” (sentiment)  dai singoli, facendo leva su quella situazione di frustrazione e di rabbia che spesso è implicita nella condizione precaria. Deve correre di bocca in bocca, via rete, social network e mail, via sms. Include tutti i mezzi che possano favorire l’astensione dal lavoro e/o il suo rallentamento. In proposito, si deve pensare a un catalogo/vademecum (sapere precario) che elenchi tutte le scuse, le scappatoie, le invenzioni, i piccoli trucchi e tradimenti che possano giustificare l’assenza dal lavoro e/o la dilatazione dei tempi di lavoro, tenendosi sempre al riparo dal rischio di cadere sotto la rappresaglia aziendale, visto che non si ha tutela alcuna.
  2. Il secondo livello è quello operativo. Bloccare i flussi. Individuare i gangli nevralgici e simbolici di creazione di ricchezza. Merci, persone, reti informatiche. E poi trasporti, mobilità, informazione e comunicazione. Lo sciopero precario deve far male a chi precarizza. Può ferire davvero solo se è in grado di colpire i colli di bottiglia della produzione reticolare nella metropoli e nel Paese. E’ necessaria perciò un’analisi approfondita e dettagliata al riguardo: dobbiamo costruire conoscenza, dobbiamo essere in grado di prendere contatti con quelle realtà che hanno informazioni tecniche indispensabili per rendere attive tali forme di blocco.

Lo sciopero precario non è uno sciopero di resistenza difensiva ma va all’attacco. E’ parte di un processo di riappropriazione progressiva della politica come mezzo indispensabile per intervenire sui rapporti di forza. E’ sciopero politico e momento di proposizione insieme. Ciò che bisogna cogliere è lo spazio aperto che le modalità di indizione dello “sciopericchio” ci spalancano davanti. E’ necessario che il 6 maggio possa trasformarsi in qualcosa di più: deve diventare sciopero realmente generale e sociale, deve essere in primo luogo momento di sperimentazione verso il lancio di un ulteriore, autentico e autonomo, sciopero precario contro la precarietà e nella precarietà. Una mobilitazione generale che parta dal 25 aprile, attraversi la MayDay del 1 maggio sino a diventare onda di piena il 6 maggio. Il nostro desiderio (che è la nostra ambizione) è quella di mettere in campo alcune prove di sciopero precario, propedeutiche alla sua indizione.

Da questo punto di vista, le diverse realtà di base e di movimento che hanno animato conflittualmente i mesi passati, dalle proteste contro il Ddl Gelmini, alla giornata del 14 dicembre scorso, passando per gli Stati Generali della Precarietà e l’esperienza delle realtà autoconvocate del lavoro, pur nella diversità delle sperimentazioni e delle pratiche, devono coalizzarsi e ritrovarsi unite da un filo rosso che ponga con forza la questione del nuovo welfare, del protagonismo migrante, dell’accesso ai beni comuni (acqua, casa e saperi), del superamento della precarietà e di ogni forma di discriminazione socio-economica. Questa è la nostra scommessa.

 

 

 

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