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Il labirinto delle migrazioni contemporanee

 

di SANDRO MEZZADRA

1. Non ho scelto a caso il titolo di questo intervento. Centro e periferia sono categorie “spaziali”, si riferiscono cioè, tanto nella storiografia quanto nelle scienze sociali, all’organizzazione gerarchica dei rapporti tra unità (sociali, culturali, economiche, politiche) diversamente collocate nello spazio. La rappresentazione di questi rapporti richiama immediatamente l’immagine di una carta geografica su cui sia possibile visualizzarli. Da diversi punti di vista, tuttavia, negli ultimi anni la moderna «ragione cartografica» è stata oggetto di critiche radicali, che ne hanno posto in discussione la capacità di dare conto dei più significativi processi che stanno investendo la configurazione (ancora: sociale, culturale, economica, politica) dello spazio globale contemporaneo. Al centro di queste critiche non è più soltanto, come è stato a lungo negli studi critici sulla geografia e sulla «produzione dello spazio»[1], l’implicazione della «ragione cartografica» nei progetti di dominio e sfruttamento su cui si è retta la storia del moderno modo di produzione capitalistico e del sistema degli Stati. A venire in primo piano è ora un deficit di rappresentazione, una inadeguatezza degli strumenti cartografici tradizionali a registrare i caratteri salienti di quella che sempre più appare una vera e propria rivoluzione spaziale.

Uno dei decani della geografia italiana, Franco Farinelli, ha in questo senso proposto proprio l’immagine del labirinto per indicare i dilemmi di fronte a cui oggi si trova la sua disciplina: privo di un centro, e dunque non rappresentabile, il labirinto intrattiene altresì, fin dalla sua versione egizia, un rapporto con la dimensione “ctonia”, con la profondità tellurica, del pianeta che abitiamo. È dunque un’immagine particolarmente adeguata a dar conto di una situazione in cui alla sempre maggiore difficoltà di organizzare attorno a un centro, o a una pluralità di centri, la rappresentazione dello spazio globale sulla superficie (sulla «tavola») della mappa si somma la continua moltiplicazione delle scale e delle dimensioni su cui i processi di connessione e divisione dei diversi spazi vengono quotidianamente articolandosi, assegnando appunto un’inedita “profondità” allo spazio globale contemporaneo[2].

È una questione che trova precisi riscontri sul piano delle tradizionali «relazioni internazionali». In un articolo molto importante, uscito nel giugno di quest’anno sulla rivista «Foreign Affairs», Richard N. Haass, Presidente del Council on Foreign Relations, ha tracciato un bilancio impietoso della sconfitta dell’unilateralismo statunitense, ovvero del progetto di ordine «unipolare» perseguito dall’amministrazione Bush. Haass prospetta tuttavia per il prossimo futuro non l’avvento di una qualche variante di «multipolarismo», bensì quello che definisce un «mutamento tellurico rispetto al passato»: il progressivo delinearsi di una vera e propria «non polarità», ovvero di «un mondo dominato non da uno o da due e nemmeno da un certo numero di Stati ma piuttosto da decine di attori che possiedono ed esercitano diversi tipi di potere». La «non polarità» corrisponde non solo all’evidente difficoltà di individuare i «centri» attorno a cui si organizzano le relazioni internazionali, ma anche, coerentemente con quanto si diceva in precedenza, alla moltiplicazione delle dimensioni e degli attori del sistema. L’ordine non polare è caratterizzato infatti, Haass lo afferma esplicitamente, dalla perdita del monopolio degli Stati come protagonisti esclusivi della politica internazionale. Organizzazioni regionali e globali, grandi multinazionali, «città globali» e ONG, reti e organizzazioni «di guerriglia» sono alcuni dei soggetti che sono entrati come attori determinanti nel sistema delle relazioni internazionali, complicandone profondamente la struttura. «Il potere», commenta Haass, «si trova attualmente in molte mani e in molti luoghi»[3]. Aleatorietà e «turbolenza», nel senso specifico attribuito a questo concetto da James Rosenau[4], sembrano essere destinate a caratterizzare un simile sistema, investendo gli stessi concetti di centro e periferia.

Qualcosa di analogo accade anche laddove ci si proponga di analizzare la geografia del capitalismo contemporaneo, anch’essa caratterizzata – come molti analisti hanno posto in evidenza – da un insieme di processi che portano sfide radicali ai consolidati modelli analitici della «divisione internazionale del lavoro» e, ancora una volta, ai tentativi di cartografare in modo preciso i rapporti tra centro e periferia. Anche le gerarchie spaziali attorno a cui si struttura il capitalismo globale contemporaneo, in altre parole, hanno in qualche modo assunto un carattere di aleatorietà sconosciuto a precedenti epoche storiche. Lo notava efficacemente, oltre dieci anni fa, Manuel Castells: «il nuovo spazio si organizza tramite una gerarchia d’innovazione e fabbricazione articolata su reti globali. Ma la direzione e l’architettura di tali reti sono sottoposte ai meccanismi in continua evoluzione della cooperazione e della concorrenza tra aziende e tra luoghi, che sono talvolta storicamente cumulativi e talvolta invece invertono le tendenze consolidate grazie a una deliberata imprenditorialità istituzionale»[5].

Divenuti strutturalmente instabili, i rapporti gerarchici tra i diversi spazi su cui si articolano i circuiti globali dell’accumulazione capitalistica contemporanea hanno altresì cessato di porre in relazione – secondo le modalità classiche delle teorie dell’imperialismo, dello scambio ineguale e della dipendenza – aree relativamente omogenee al proprio interno. Quelli che un tempo erano definiti «paesi in via di sviluppo» – lungi dal formare un’omogenea «periferia» o un compatto «terzo mondo» – si sono sempre più andati differenziando tra loro[6]; e, quel che più conta, hanno spesso conosciuto al proprio interno un’evoluzione tale da affiancare ad aree e settori pienamente integrati nelle reti globali altre aree e altri settori in affanno quando non destinati all’“esclusione”. Il che trova una corrispondenza piuttosto precisa nell’evoluzione della geografia economica dei principali paesi “occidentali”. Anziché prospettare un’organizzazione spaziale del capitalismo secondo cui le funzioni più «avanzate» (produttive, finanziarie, di comando) sarebbero concentrate in determinate aree «centrali» e quelle più «arretrate» in altre («periferiche» e «dipendenti» dalle prime), vale la pena di prendere seriamente l’ipotesi secondo cui si sta affermando in gran parte del pianeta una struttura economica e sociale ibrida, in cui a fare la differenza è semmai la proporzione tra le diverse funzioni, tendenzialmente tutte presenti al medesimo tempo.

Se a fronte di questi processi i concetti tradizionali di «centro» e di «periferia» sembrano perdere molto del loro portato esplicativo, ciò non significa – evidentemente – che lo spazio globale sia in procinto di diventare «liscio», omogeneo. Negli ultimi anni, anzi, nella prospettiva di integrare e correggere un’immagine della globalizzazione costruita attorno alla metafora dei «flussi» (alla cui diffusione hanno dato un contributo rilevante proprio i lavori di Manuel Castells) una serie di analisi etnografiche ha sottolineato le «striature» che caratterizzano lo spazio globale: al centro dell’attenzione si sono così imposti la «cesellatura dei canali» che rendono possibili determinati flussi ostruendone altri, i processi attraverso cui vengono continuamente riprodotte «enclaves» e aperti «spazi laterali» per la produzione e circolazione delle merci, nel contesto di una globalizzazione che procede in modo discontinuo, per «salti», connettendo e separando al tempo stesso spazi e soggetti, economie, culture e società[7].

Non appare più un paradosso, in questo senso, che i processi di globalizzazione si accompagnino a una continua moltiplicazione dei confini, ma anche a profonde trasformazioni nella loro natura: essi stessi, pur non mancando di chiudersi ogni giorno in modo letteralmente catastrofico sui corpi di donne e uomini in transito, nel Mediterraneo così come nei deserti attraversati dalla frontiera tra Stati uniti e Messico, sembrano assumere nuove caratteristiche di instabilità e aleatorietà. Diversi studiosi, conseguentemente, hanno proposto di assumere proprio il confine come punto di vista fondamentale, tanto empiricamente quanto epistemologicamente, per analizzare i processi di globalizzazione e la rivoluzione spaziale da essi determinata. Tensioni violentissime, linee di conflitto, rapporti di potere e di sfruttamento, plateali disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza vengono così alla luce, esibendo tuttavia una crescente complessità, che rende sempre più difficile interpretare le coordinate spaziali dei processi globali utilizzando categorie rigide, fisse, di centro e periferia, Nord e Sud del mondo[8].

2. L’insieme delle problematiche brevemente discusse su un piano generale nelle pagine precedenti acquisisce una valenza del tutto specifica in riferimento alle migrazioni contemporanee. Ancora nelle condizioni del secondo dopoguerra, ad esempio, era tutto sommato abbastanza agevole individuare i flussi dominanti, con aree di partenza e di destinazione stabili che definivano precisi «sistemi migratori»[9]. Oggi, al contrario, «i flussi vanno dappertutto», e, come è stato notato di recente da due sociologi italiani, ogni tentativo di «dare una rappresentazione grafica» del fenomeno migratorio appare votato allo scacco, «a meno che non si voglia raffigurare una sorta di piatto di spaghetti»[10].

La difficoltà di produrre mappe stabili e coerenti delle vie seguite dai migranti nel loro viaggio verso l’Europa è del resto esplicitamente riconosciuta dall’International Centre for Migration Policy Development (ICMPD), uno dei think tank più autorevoli e influenti nel determinare le politiche di controllo dei confini e delle migrazioni in Europa. Nell’ambito del cosiddetto «Dialogue on Mediterranean Transit-Migration» (MTM), un processo negoziale informale coordinato dall’ICMPD tra una pluralità di Paesi delle due sponde del Mediterraneo (con la partecipazione, tra l’altro, dell’UNHCR, della Commissione europea, di Europol e di Frontex, la nuova agenzia per il controllo delle «frontiere esterne» della UE, nonché, a segnalare il rilievo “globale” dell’esperimento, dell’Australia in qualità di Paese «osservatore»), uno degli obiettivi fondamentali è rappresentato proprio dalla produzione di una «mappa interattiva», in continuo aggiornamento, dei flussi migratori che attraversano lo spazio mediterraneo. Imprevedibilità e aleatorietà dei movimenti dei migranti sono esplicitamente assunte come sfide fondamentali dai cartografi dell’ICMPD, impegnati nel tentativo di predisporre strumenti conoscitivi adeguati alla definizione di un nuovo modello di governance della migrazione, maggiormente corrispondente alle esigenze di mercati del lavoro riorganizzati all’insegna della «flessibilità»: ed essi sembrano far tesoro dei numerosi esperimenti di «contro-cartografia» che sono nati negli ultimi anni dalla confluenza di attivismo politico e pratiche artistiche sul terreno dei movimenti anti-razzisti e dei migranti[11].

Il concetto di «turbolenza», che si è in precedenza richiamato in riferimento alle relazioni internazionali, è stato d’altra parte utilizzato qualche anno or sono da uno studioso australiano, Nikos Papastergiadis, per rendere conto delle caratteristiche più significative delle migrazioni contemporanee. Al centro dell’analisi di Papastergiadis non sono solamente la continua moltiplicazione e la crescente imprevedibilità dei percorsi migratori, che pongono in discussione il concetto fondamentale attraverso cui la “scienza delle migrazioni” novecentesca aveva mutuato ed elaborato lo schema analitico imperniato sul rapporto tra centro e periferia (ovvero il concetto di «sistema migratorio»), ma anche un insieme di trasformazioni che investono i piani più sfuggenti dell’«appartenenza» e dell’«identità»[12]. Non si tratta ovviamente di due piani che sia possibile separare in modo rigido: uno degli sviluppi più rilevanti all’interno della letteratura sulle migrazioni degli ultimi anni è stato precisamente quello che ha lavorato con il concetto di «transnazionalismo». Questo concetto sottolinea efficacemente come sempre più marcatamente il senso di appartenenza, l’universo simbolico che dà un senso alla vita e all’esperienza dei migranti, tenda a distribuirsi tra una pluralità di spazi, istituendo connessioni impreviste tra luoghi che possono essere agevolmente identificati su una carta geografica ma al tempo stesso producendo veri e propri nuovi spazi sociali, culturali e politici.

Già nel 1991, lavorando sulle migrazioni messicane negli Stati uniti, l’antropologo Roger Rouse aveva indicato la necessità di esplorare con attenzione la «cartografia alternativa dello spazio sociale» dei circuiti migratori transnazionali[13]. È evidente come questa cartografia sia ancora una volta irriducibile a ogni rigido rapporto tra centro e periferia: anche laddove, ad esempio proprio nel caso della migrazione messicana verso gli Stati uniti, alcuni «sistemi migratori» sembrano incanalare il movimento da una «periferia» verso un «centro», l’esperienza quotidiana dei migranti riscrive quel movimento attribuendogli un nuovo significato – e facendo ad esempio di Chicago un’estrema appendice settentrionale, una “periferia”, del Messico[14]. Non si tratta del resto di giocare l’uno contro l’altro questi due aspetti, ma di riconoscere come entrambi siano in gioco nel definire la qualità degli spazi che sono attraversati dai movimenti migratori contemporanei, nel determinare l’intensità dei conflitti e delle tensioni che li costituiscono – ma anche la straordinaria ricchezza di opportunità e potenzialità che li connota.

Si sbaglierebbe del resto a ridurre al piano “culturale” dell’identità e dell’appartenenza il rilievo degli spazi sociali transnazionali prodotti dalle migrazioni contemporanee. Si tratta di spazi che hanno un enorme rilievo economico, evidente ad esempio laddove si prenda in considerazione il volume delle rimesse dei migranti. Ma anche prescindendo da questo aspetto, e dalla controversa questione del ruolo giocato dalle rimesse nello stimolare o nel deprimere lo sviluppo dei Paesi di provenienza dei migranti, gli aspetti economici delle reti, dei circuiti e degli spazi transnazionali delle migrazioni contemporanee sono tali da rendere ancora una volta problematici strumenti analitici quali quelli indicati dai concetti di centro e di periferia[15].

Chiunque volesse studiare il transnazionalismo dei migranti boliviani a Buenos Aires[16], ad esempio, non potrebbe limitarsi a indagare i processi di marginalizzazione economica, stigmatizzazione culturale e segregazione territoriale che sono evidentissimi ad esempio in una villa come il Bajo Flores. Dovrebbe spingersi nel conurbano, e visitare “La Salada”, a Lomas de Zamora, dove un paio di notti alla settimana si tiene un gigantesco mercato informale – il più grande dell’America latina, secondo un articolo pubblicato su «La Nación» il 21 gennaio 2007, per un giro d’affari settimanale calcolato intorno ai 9 milioni di dollari[17]: non sembra davvero di trovarsi alla «periferia» di Buenos Aires, ma piuttosto al «centro» di El Alto, in Bolivia. Meglio ancora: sembra di trovarsi al centro, del tutto aleatorio considerata l’informalità del luogo, di una di quelle «cartografie alternative» di cui parlava Rouse nel 1991. Mentre gli autobus depositano incessantemente acquirenti, all’ingrosso e al dettaglio, provenienti dalle più remote province argentine e perfino da oltre frontiera, l’etnografo potrebbe osservare che al nucleo di commercianti boliviani che ha originariamente “fondato” il mercato de “La Salada” si sono aggiunti migranti di altri Paesi latino-americani. E potrebbe divertirsi a disegnare il labirinto dei percorsi seguiti dalle merci in vendita negli stand e sulle bancarelle, scoprendo al tempo stesso che all’interno de “La Salada” sono nati veri e propri “marchi”, fenomeno decisamente più interessante dell’abituale contraffazione dei marchi globali più celebrati.

Sia chiaro, non si tratta di assumere un atteggiamento ingenuamente apologetico nei confronti delle dinamiche che sostengono uno spazio come quello qui brevemente analizzato, sulla base di appunti presi durante una visita nel luglio del 2008: ricostruire i percorsi seguiti dalle merci in vendita a “La Salada”, come suggerivo di fare poc’anzi, consentirebbe senz’altro di portare alla luce storie terribili di sfruttamento in talleres textiles clandestini (di cui non esitano del resto a servirsi molte grandi marche), storie di violenza e di condizioni di lavoro semi-schiavistiche. Il punto è, tuttavia, che “La Salada” ben si presta a essere interpretata come sintomo di un insieme di processi che materialmente riconfigurano, attraverso le pratiche della mobilità e della migrazione, uno spazio come quello latino-americano, decentrandolo e complicandone la struttura e la costituzione: ancora una volta siamo di fronte a formidabili conflitti e tensioni, ma anche all’apertura di un campo di opportunità di cui dovrebbero tenere gli stessi progetti di integrazione regionale.

Analoghi processi possono essere indagati in altre aree del pianeta, ad esempio in riferimento alla diaspora cinese o al ruolo svolto dal cosiddetto sistema del «bodyshopping» nella gestione della mobilità transnazionale della forza lavoro indiana impiegata nei settori di punta dell’economia dell’informazione e della comunicazione a Sydney come a Singapore, negli Stati uniti come in molti Paesi europei[18]. Ciascuno con le sue specificità, questi e altri esempi che si potrebbero menzionare mostrano come le migrazioni contemporanee siano un fattore fondamentale nel produrre quella moltiplicazione di piani, di scale e di dimensioni che rende lo spazio globale profondamente eterogeneo[19]. E come proprio attraverso le migrazioni questa eterogeneità costitutiva dello spazio globale segni di sé le trasformazioni della cittadinanza e dei mercati del lavoro negli stessi ambiti “nazionali”[20]. È il caso di ripetere che nulla vi è di idilliaco in questa rappresentazione: su ogni piano operano dispositivi di controllo, di gerarchizzazione, si riorganizzano rapporti di dominazione e di sfruttamento; e la condizione dei migranti, a Buenos Aires come a Milano, a Los Angeles come a Pechino o a Johannesburg, mostra quanta violenza sia quotidianamente in gioco nell’operare di questi dispositivi e nella riorganizzazione di questi rapporti. Sempre meno, tuttavia, i concetti di centro e di periferia ci consentono di “leggere” questa realtà e di estrapolarne le sfide cruciali di fronte a cui ci troviamo.

* Pubblicato in spagnolo in «Puente@Europa», VI, número especial (diciembre 2008), pp. 48-53

[1] Si vedano ad esempio i lavori di Y. Lacoste, Crisi della geografia, geografia della crisi, Milano, Angeli, 1977 e di H. Lefebvre, La produzione dello spazio, Milano, Moizzi, 1976.

[2] Cfr. F. Farinelli, Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Torino, Einaudi, 2003. Per una prima valutazione delle conseguenze di questa situazione sui concetti di centro e periferia, cfr. P. Capuzzo, Nuove dimensioni del rapporto centro-periferia: appunti per un dossier, «Storicamente», 2 (2006), http://www.storicamente.org/02capuzzo.htm.

[3] R.N. Haass, The Age of Nonpolarity. What Will Follow US Dominance, in «Foreign Affairs» 87, 3 (May – June 2008), pp. 44-56.

[4] J.N. Rosenau, Turbolence in World Politics, Princeton (NJ), Princeton University Press, 1990.

[5] M. Castells, La nascita della società in rete, Università Bocconi Editore, Milano, 2002.

[6] Cfr. in questo senso, ad esempio, P.S. Jha, Il caos prossimo venturo. Il capitalismo contemporaneo e la crisi delle nazioni, Vicenza, Neri Pozza, 2007, in specie pp. 604 s.

[7] Si vedano ad esempio: J. Ferguson, Global Shadows. Africa in the Neoliberal World Order, Duhram – London, Duke University Press, 2006, A. Ong, Neoliberalism as Exception. Mutations in Citizenship and Sovereignty, Durham, NC – London, Duke University Press, 2006, A.L. Tsing, The Global Situation, in «Cultural Anthropology», 15 (2000), 3, pp. 327-360, Ead., Friction. An Ethnography of Global Connection, Princeton – Oxford, Princeton University Press, 2005.

[8] Si vedano ad esempio: E. Balibar, Europe, Constitution, Frontière, Bègles, Éditions du Passant, 2005, S. Mezzadra – B. Neilson, Border as Method, or, the Multiplication of Labor, in «Trasversal», 06-08 (http://eipcp.net/transversal/0608/mezzadraneilson/en), W.D. Mignolo – M.V. Tlostanova, Theorizing from the Borders. Shifting the Geo- and Body-Politics of Knowledge, in «European Journal of Social Theory», 9 (2006), 2, pp. 205-221, P.K. Rajaram – C. Grundy-Warr (eds), Borderscapes. Hidden Geographies and Politics at Territory’s Edge, Minneapolis – London, University of Minnesota Press, 2007.

[9] Cfr. ad es. S. Sassen, Migranti, coloni, rifugiati. Dall’emigrazione di massa alla fortezza Europa, Milano, Feltrinelli, 1999, pp. 95 ss.

[10] M. I. Macioti – E. Pugliese, L’esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia, Laterza, Roma – Bari, 2003, p. 17.

[11] Una versione semplificata e statica della mappa interattiva può essere scaricata dal sito dell’ICMPD: www.icmpd.org. Per un’analisi del ruolo dell’ICMPD nella definizione delle politiche europee di controllo delle migrazioni e dei confini, cfr. V. Tsianos, La mappa e i flussi, in «Posse», giugno 2008 (http://www.posseweb.net/spip.php?article107). Sulle strategie e le pratiche di «contro-cartografia» sui temi delle migrazioni e dei confini, cfr. P. Spillman, Strategien des Mappings, in Transit Migration Forschungsgruppe (Hg.), Turbulente Ränder. Neue Perspektiven auf Migration an den Grenzen Europas, Bielefeld, Transcript Verlag, 2006, pp. 155-167.

[12] N. Papastergiadis, The Turbulence of Migration. Globalization, Deterritorialization und Hybridity, Cambridge, Polity Press, 2000.

[13] R. Rouse, Mexican Migration and the Social Space of Postmodernism, in «Diaspora», 1 (1991), 1, pp. 8-23. Per una buona e aggiornata rassegna critica degli studi sul transnazionalismo, cfr. D.G. Gutierrez – P. Hondagneu-Sotelo, Introduction. Nation and Migration, in «American Quarterly», 60 (2008), 3, pp. 503-521.

[14] Cfr. N.P. De Genova, Working the Boundaries. Race, Space, and “Illegality” in Mexican Chicago, Durham, NC – London, Duke University Press, 2006.

[15] Cfr. L.E. Guarnizo, The Economics of Transnational Living, in «International Migration Review», 37 (2003), 3, pp. 666-699.

[16] Molti spunti si possono trovare in questo senso nel lavoro di ricerca, condotto a La Plata, di S. Caggiano, Lo que no entra en el crisol. Inmigración boliviana, comunicación y procesos identidarios, Buenos Aires, Prometeo, 2006.

[17] Cfr. V. Dema, La Salada ya es la mayor feria ilegal de América latina, in «La Nación», 21 de enero de 2007 (http://www.lanacion.com.ar/nota.asp?nota_id=877105).

[18] Si vedano rispettivamente A. Ong, Flexible Citizenship. The Cultural Logics of Transnationality, Durham – London, Duke University Press, 1999 e B. Xiang, Global “Body Shopping”. An Indian Labor Regime in the Information Technology Industry, Princeton, NJ, Princeton University Press, 2007.

[19] Mi sia consentito di rimandare, a questo proposito, a S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Verona, Ombre corte, 2008.

[20] Si veda in questo senso S. Castles – A. Davidson, Citizenship and Migration. Globalization and the Politics of Belonging, London, Macmillan, 2000.

 

 

 

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