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Intervento al seminario Uninomade – Composizione di classe e organizzazione del comune: ripensare la conricerca dentro le lotte del precariato e del lavoro cognitivo

 

di CLIO PIZZINGRILLI

Genova 18/19 giugno 2011

In un intervento sul numero cinque del menabò, la rivista fondata da Elio Vittorini – si era nel 1962 –, Italo Calvino tematizza la nuova posizione logica dell’operaio, sostenendo che l’operaio “è entrato nella storia della cultura come protagonista storico-filosofico”, mentre nel passato ogni altra figura produttiva (cacciatore, agricoltore, pescatore, mercante, pastore) entrava poeticamente nella storia della cultura. Seguendo il ragionamento di Calvino, si comprende come ciò sia riduttivo, nella misura in cui questa priorità della definizione d’ordine storico-filosofico ha finito per invalidare ogni tentativo di definizione d’ordine poetico della vita operaia ovvero costituita dalla produzione capitalistica.

Si accantoni temporaneamente l’ordine del discorso poetico, se cioè sia decisivo lavorarne la portata e una definizione e conseguentemente agirla; ci si soffermi, invece, sul fatto che la narrativa, come sostiene Calvino, riflettendo sul rapporto Industria-Letteratura, molto sentito in quegli anni, addirittura bruciante per il gruppo redazionale del menabò, non interviene altro che a confermare e esemplificare ciò che sul piano teorico è già noto. Scrive Calvino: “Non c’è città industriale e operaia rappresentata da un romanziere che sia più completa, come immagine anche lirico-evocativa di uno stile morale, della Torino degli scritti di Gobetti”. Ci si domanda: la narrativa odierna ha disvelato le forme scomposte, via via assunte dalla classe? O anche: la narrativa odierna ha individuato, secondo procedure e empirie proprie, il potere naturante delle migrazioni, cioè il conato eversivo dei cicli migratori di questi anni o, al contrario, lo ha semplicemente confermato, dietro alle indagini scientifiche condotte da molteplici osservatori? Porsi questa domanda significa né più né meno interrogarsi sulla natura della scrittura cosiddetta creativa o immaginativa e sui suoi possibili esiti.

Nel suo libro sulle origini del romanzo e sul romanzo delle origini, Marthe Robert considera che alcuni scrittori, fra i più notevoli – Defoe, Cervantes, Swift, Hoffmann, Kafka –, fondano la propria verità sulla negazione dell’esperienza comune. Defoe rifiutava d’essere chiamato romanziere per non compromettersi con un genere falso, già compromesso con le ideologie della libera intrapresa. Robinson si conduce come se ricominciasse da zero, come se dovesse ricreare le scienze, le tecniche, tutti i procedimenti di dominazione della natura – il plot, in definitiva, è ordito attorno a questa semplice locuzione modale: come se. Il come se è una procedura di veridificazione infantile, che riproduce altrimenti la sua, di Robinson, posizione nel mondo-che-c’è. Don Chisciotte, totalmente refrattario all’esperienza, ha per unico scopo di resistere a ogni movimento di progresso; egli è lo specimen di una specie umana che rifiuta di fare qualsiasi apprendistato di vita; in altre parole, tutte le sue virtù apparentemente angeliche o, all’inverso, diaboliche ovvero manifestazioni della sua pericolosa impotenza a vivere, non incarnano affatto la sua purezza inaccessibile all’ideale, al contrario espongono la ricusazione dell’esperienza, in quanto procedura già subito sottomessa all’ordine del mondo-che-c’è, all’opacità del discorso.

Si assuma il celebre schema althusseriano dell’interpellazione – “Ehi, tu!”. Il soggetto si costituisce, nella misura in cui si volge verso il poliziotto. C’è uno che agisce la parola da una posizione di comando, così pare, posizione di comando non pertinente in realtà a colui che parla, al quale invece viene dal fatto che l’interpellazione ha una sua propria forza di comando. A questo punto, se non c’è risposta all’interpellazione, sembra non esserci soggettivazione, il soggetto non viene costituito in quanto tace. Ebbene, Robinson, Chisciotte o Rossmann, il protagonista di America, sono tutti individui interpellati, i quali non rispondono o danno nomi falsi, come appunto fa Rossmann nel teatro naturale di Okhlaoma, rispondendo di chiamarsi Negro.

Pertanto: la narrativa odierna disvela forme scomposte che la classe o, meglio, le sue frazioni vengono via via assumendo? Negazione dell’esperienza comune e soggettività. Sono questi i due corni della questione, che sottende alla domanda; poiché, se mai è esistita o debba ancora esistere una intonazione narrativa all’altezza degli eventi che formano in un insieme frazioni di classe, verosimilmente questa si espone tutta nel modo attraverso cui è in grado di distinguere un comune dell’esperienza comune, distinto cioè dall’esperienza comune quale mera vicenda reiterativa.

Quanto alla soggettività, posta la necessità che non si costituisca di seguito all’interpellazione, essa deve disconnettersi dal genere e, a un tempo, nominarsi all’interno di un comune. In fin dei conti è, questo, un compito che già i romantici tematizzarono – è la kenosi, lo svuotamento, il lavoro critico, se si vuole, di smontaggio del genere, manovra della lenta edificazione del contrario di ciò che rappresenta l’individuo, la perdita completa dell’uomo e, contestualmente, il recupero completo dell’uomo.

Per Schelling c’è un principio illegittimo, posto solo per venire negato; la storia, cioè, ha bisogno, per compiersi, di una negatività originale, di un termine iniziale recalcitrante e oscuro, che deve essere soppresso – com’è noto, la figura cat’exochèn di questo procedimento di sottrazione è, per Schelling, niente meno che Giesù. Nell’elaborazione stirneriana, Marx individua una irresolutezza di fondo e cioè che l’uno non si dà attraverso una decisione in sé; esso può darsi nella misura in cui, essendo già sempre presupposto, posto prima della propria decisione di porsi – laddove agisce un non-so-che indipendente dalla sua volontà, dalla sua coscienza personale –, si costituisce per sé. La consapevolezza di essere nel genere è la condizione della sua disconnessione e nuova connessione in altro – è il lavoro critico, la rettificazione, la restaurazione, si direbbe con un termine mutuato dalla letteratura cabalistica, ovvero la ricomposizione del soggetto, che inferisce la formazione del sé all’interno di un mutato sistema unitario dell’uomo con l’uomo.

A questo punto, l’unità ricomposta dell’uomo con l’uomo non sta più dentro al genere – questa appartenenza alla “santa società” –, ma in qualcosa d’altro, in una forza di connessione, di simpatia, di con-esserci, sta nella forma impersonale del si, essa che fa a meno del soggetto grammaticale. Come è noto, il si è stato ampiamente messo a tema da Heidegger, qui però il riferimento è a un’altra concettualizzazione, quella di Kafka. Il man kafkiano – così come esemplarmente viene lavorato nel corso del romanzo incompiuto America – differisce radicalmente dal man heideggeriano, secondo Lukács dispositivo di diffamazione della vita sociale; il si kafkiano configura la potenza dell’impersonale, la potenza del disperso, che per l’appunto è uno dei nomi-guida del romanzo di Kafka.

Qui ci si avvicina ormai all’altro corno del problema, l’esperienza. Karl Rossmann è un migrante; egli viene indotto a espatriare. L’impianto del romanzo, com’è noto, è dickensiano, ma forse potrebbe essere ugualmente deamicisiano – si può ricordare il racconto Dagli Appennini alle Ande, dove un piccolo eroe salpa dal porto di Genova alla ricerca della propria madre: Kafka subisce il fascino di queste narrazioni patetiche. In ogni modo, Rossmann giunge negli Stati Uniti nel momento in cui gli Stati Uniti stanno impostando la Open Door Policy, politica di sfruttamento della manodopera all’interno del proprio territorio; quindi, dopo essere stato sul punto di divenire il rampollo di una famiglia molto in vista di New York, precipita nella condizione di vagabondo, per finire in quella di operaio deportato. Si sa che il vagabondaggio è la condizione costitutiva della classe; esso, ha spiegato Marx, si ritrova in ogni proletario dell’industria moderna; in questa misura, il proletariato manterrà sempre un aspetto tragico, in cui la tragedia è tragedia dell’individuo. Il Naturtheater in cui Karl trova impiego è né più né meno la grande impresa che delocalizza, che sposta masse di lavoratori. Enzo Paci, nel suo saggio intorno alla parte conclusiva, restante del romanzo, osserva che ciò che manca in questo racconto è “l’uomo che produce e il prodotto per l’uomo, l’uomo che trasforma e il prodotto della trasformazione”. Questo è vero, indubbiamente. Ma forse che nell’osservazione di Paci non c’è l’idea del lavoro quasi come pratica di redenzione? D’altra parte, mai come oggi il sistema di produzione è occultato, disperso, si direbbe, e disperso colui che trasforma il prodotto nel sistema di produzione medesimo. Ciò che Karl sembra suggerire è un’altra cosa – qui probabilmente è il recupero dell’ordine poetico della vita operaia o, meglio, oltre-operaia, dal momento che Karl è sì un operaio, ma disperso nelle nuove forme produttive del capitalismo – Karl sembra suggerire una “Gegenverschollenheit”, come è stata chiamata da un analista del romanzo kafkiano, una controdispersione ovvero una strategia di autodecentralizzazione, quella che infine lo porta a autonominarsi Negro, anziché Karl Rossmann. In altre parole, su Karl agisce la dispersione della forza di comando del capitale, ma Karl, a sua volta, controagisce la dispersione, attribuendosi un nome considerato infame, di quelli, la cui forza d’urto con il potere, come ha spiegato Foucault, è tutt’altro che gloriosa.

Per pervenire a questa forma narrativa di esperienza comune non reiterata, non reiterativa, occorre senza meno un lavoro intenso sulla parola. Ora, più o meno esattamente, per quanto cioè se ne possa dire in una circostanza, nella quale un’interrogazione del genere è probabilmente laterale, che cosa si intende per lavoro sulla parola? Va da sé che questo lavoro non assume la parola come entità sostanziale prima – negli anni settanta, si ricorderà, alcuni poeti italiani coniarono la formula “parola innamorata” con l’intento di consacrarsi all’essenza linguistica, per segnalare una sorta di deregolamentazione letteraria e avviare una strategia espressiva anticontenutistica –, questo lavoro non ha nulla da fare con ciò che Sartre ha chiamato “lo striptease del nostro umanesimo”. Scriveva il filosofo francese in apertura del suo saggio introduttivo ai Dannati della terra: “Or non è molto, la terra contava due miliardi d’abitanti, ossia cinquecento milioni d’uomini e un miliardo e cinquecento milioni d’indigeni. I primi disponevano del Verbo, gli altri se ne servivano”. Per intendersi sul significato di lavoro sulla parola, si provi, se possibile, a confrontare la modalità verbale di Kafka con la modalità verbale di uno scrittore contemporaneo, Jonathan Franzen. Franzen, un romanziere dal passo narrativo ottocentesco, impegnato a riorganizzare lo spazio civile americano, a restituirgli ancora sempre una dignità egemonica – ciò cui ugualmente, benché attraverso procedure sperimentali, attende il suo doppio, David Foster Wallace –, è stato di recente sollecitato a dare in lettura, prima che uscisse, il suo romanzo, Freedom, al Presidente degli Stati Uniti – un gesto plateale con il quale verosimilmente Obama ha inteso riattribuire aura alla lingua americana. Ma il rapporto fra uno scrittore e la lingua da questi adottata per scrivere i propri libri non viene determinato da una cultura nazionale; uno scrittore non adotta necessariamente la lingua che si parla entro i confini della nazione in cui vive e comunque, prima o poi, in un modo o nell’altro, non può che svincolarla da prassi d’uso locale; è questo, appunto, il caso di Kafka, il quale, per riprendere il passaggio sartriano, si serve del verbo né più né meno come un indigeno, vi si attiene in quanto costruzione formale. Evidentemente l’espressione ‘servirsi del verbo’ non viene assunta per certificare un funzionalismo linguistico, essa deve piuttosto riferirsi a un lavoro di dislocamento della lingua dall’ambito identitario, laddove l’una agisce una decostruzione del complesso di dipendenze istituito dall’altro, per mezzo della lingua – servendosi del verbo – ovvero attua uno scassamento del regime di dipendenza definito dall’ambito identitario. Un analista di America, Andrew Brown, impiega il termine “scribbling” o “scrubbing” per orientarsi nella camera buia del sistema creativo kafkiano. “L’etimologia di ‘scribble’ – scrive Brown – … viene dal latino scribillare, che vuol dire scrivere frettolosamente… Ma qui c’è un significato ulteriore…la sua etimologia in questo caso è coniata verosimilmente dal basso germanico schrubben…cancellare”. Questa notevole intuizione di Andrew Brown porta a pensare che il procedimento narrativo di Kafka si attui per sottrazione ovvero, dato un contesto, lo scrittore vi interviene a detrarne gli elementi costitutivi e inserendovi frammenti stranianti. Detto altrimenti, Kafka minimalizza la situazione narrativa di riferimento, la decostruisce, vi lavora dei predicati umani incongrui a una mondanità interpellata, rispetto a essa inoperativi. In questo senso non si può parlare di esperienza comune reiterata, reiterativa, quanto di una sorta di riduzione fenomenolgica dell’esistente.

Nel suo intervento sul menabò, Italo Calvino sostiene che la forma dominante della narrativa odierna è il labirinto –  labirinto della conoscenza fenomenologica del mondo, labirinto della stratificazione linguistica,  labirinto gnoseologico. Ma il labirinto, egli aggiunge, ha una doppia possibilità: da una parte, c’è l’attitudine necessaria per affrontare la complessità; dall’altra, c’è il fascino del labirinto, edonismo del perdersi nel labirinto, del rappresentare questa assenza di vie d’uscita come condizione umana più autentica.

In quella parte della letteratura italiana che si è provata a fronteggiare con maggior consapevolezza e efficacia l’ipostasi paradossale dell’intelligenza spinta al di fuori del soggetto, cioè il fatto che la conoscenza di coloro che vengono messi al lavoro sia separata dal lavoro medesimo, addirittura opposta, si possono individuare due romanzi, due, evidentemente, con intento paradigmatico – si tratta di Memoriale di Paolo Volponi e di Vogliamo tutto di Nanni Balestrini. Nell’uno si ha una lingua di soglia fra l’esperienza pre-industriale e quella industriale, nell’altro si ha una scrittura mimetica dell’operaio-massa. Il nodo qui è che non sembra ancora mai esserci determinazione sociale possibile, altro che lavorando i predicati umani di un individuo che incarna questa stessa determinazione sociale, altro che mostrandone un esemplare, un portatore, al quale si offre il luogo di una realizzazione possibile. Ma forse che questo non è ancora sempre ristabilire la preesistenza ideologica della classe? Probabilmente decisivo è indagare a fondo il passaggio nel quale gli interessi particolari diventano interessi di classe, interessi comuni che si rendono indipendenti di fronte a persone singole; solvere l’inganno oggettivistico, secondo cui ciò che non si realizza qui, in un individuo, si realizza altrove, presso altri individui – raccontare la mancanza ovvero, come dice Marx, il fatto che alla persona singola venga impedito di essere cacciatore, pescatore, agricoltore, pastore, pittore, scultore, critico. Qui Marx sembra proprio agire una perequazione esistenziale. Non è tanto interessante scegliere il migliore di tutti i possibili, abbandonando gli altri al nulla, ma indurre che tutti i possibili si realizzino. Questo è ciò che si intenderebbe per procedura di svuotamento. Le stesse nozioni di moltitudine, di comune, di classe, in quanto “Grund”, nel senso schellingiano sopradetto, devono pervenire all’inchiesta fenomenologica delle soggettività, cioè addurre l’ordine poetico dell’esistenza. Contestualmente occorre rintracciare, perfino produrre uno status periferico del tu, colui al quale ci si rivolge, tu che ascolta, tu che guarda, tu che legge, tu interattivo, benché assente. Quando Sartre introduce il libro di Fanon – nota Judith Butler –, tematizza un ascoltatore che si costituisca nella condizione di outsider, situa il lettore europeo al di fuori del proprio cerchio, facendo di questo status periferico un requisito epistemologico per comprendere le condizioni della colonizzazione. Il riferimento al tu non nasconde, evidentemente, un proposito istruttivo o, peggio, ideologico, il tu pone la questione di come non irrigidire, al contrario (direbbe Derrida), parassitare, rendere mobile la narrazione, così da agevolarne una percorrenza di ascolto extra-moenia. È, questo, un procedimento tipicamente kafkiano, in America ampiamente esibito. Kafka – in un certo senso, suo malgrado, dal momento che non si può certo dire che abbia mai rivendicato un’identità di sperimentatore – decostruisce il dickensismo attraverso ciò che alcuni analisti hanno denominato “Unterführung”. Kafka lavora la lingua attraverso dei sottopassaggi, i quali spingono il lettore fuori della storia, localizzandolo, di volta in volta, su posizioni periferiche. Si può dire che la qualità espressiva di Kafka attesti l’urgenza di uccidere il tu ovvero distruggere l’ascolto, in quanto mero riguardo al plot; ma, al tempo stesso, il suo è un gesto di compassione, nel senso che egli non distoglie lo sguardo dal tu, e però allestisce una strategia di smontaggio dell’io già sempre presupposto.

In conclusione, posto che chi racconta non istituisce dal nulla la propria parola, ma piuttosto ne negozia i retaggi d’uso – in altri termini istruisce una eccedenza della parola –, il narrare deve auspicabilmente avviarsi a divenire prassi paratattica, nella misura in cui pone, se possibile, la prospettiva di disporre diversamente le parti del discorso già esistibili eppure non ancora esistenti.

 

 

 

 

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