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Non c’é un modello esclusivo – Intervista ad Alvaro García Linera, vicepresidente boliviano

 

di MARTIN GRANOVSKY

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Matematico di originale formazione, ricercatore in scienze sociali, Alvaro García Linera è il vicepresidente di Evo Morales e sua mano destra nella conduzione dell’attuale progetto politico boliviano.

Alle porte delle elezioni presidenziali in Venezuela, c’è un progetto comune in Sudamerica?

Il punto interessante è che i nostri processi non si ancorano ad un modello esclusivo. Si tratta di ricerche plurali a velocità e densità distinte, che aspirano a smontare il sistema neoliberista che accumula espropriando il comune. Rispetto ciò che possono fare Argentina, Ecuador, Venezuela… In Bolivia lavoriamo a partire dalle nostre possibilità materiali, dalla nostra realtà. Inizialmente ogni processo era un rivolo d’acqua. Ora si uniscono gli uni con gli altri e formano un torrente che converge.

A breve termine, come si costruisce la via democratica al socialismo che proponete?

Pensiamo al potenziamento dello Stato, che è riuscito a conservare risorse economiche e ambiti di intervento nell’economia, e pensiamo alla comunità. Conversione di proprietà dello Stato in proprietà pubblica: la chiave è il rafforzamento del comune, la partecipazione diretta della gente nel prendere decisioni. Senza tutto questo è impossibile immaginare che lo statale divenga pubblico e che venga superato, come desideriamo, dal comune. Parlo a partire dal concetto di Stato integrale di Antonio Gramsci. Come possono l’indigeno, l’autotrasportatore, il contadino intervenire nella decisione di che fare con ciò che eccede, con la proprietà, con i minerali, con l’acqua. La sola proprietà statale non è socialismo. É un buono strumento per centralizzare, per controllare, per registrare.

E la gestione concreta?

Mi viene in mente il concetto di governance di Foucault. Soluzione flessibile e negoziata di strutture statali e non, a volte senza centro. Consideriamo il settore minerario: c’è la risorsa e ci sono buoni prezzi. Come si prendeva prima una decisione? Senza conflitti, perché non c’erano minatori, non c’erano cooperative né industriali. La Banca Mondiale, l’azienda, il presidente e sicuramente l’ambasciata risolvevano senza democrazia la sorte del minerale, senza alcun beneficio né per la Bolivia né per l’imprenditore. Oggi i lavoratori chiedono più entrate e un maggiore stipendio. Lo Stato vuole che l’eccedenza venga ridistribuita fra tutti. I membri delle cooperative, artigiani della miniera, sostengono che non può andare né tutto ai lavoratori né tutto allo Stato. Bisogna mediare. Nel linguaggio popolare si traduce con lo sciopero, la mobilitazione, la minaccia, la riconciliazione. E ne esce una soluzione più complessa, più conflittuale, più rischiosa, ma si tratta del popolo che decide su una risorsa comune.

In che momento di questa sintesi si trova attualmente la Bolivia?

In una prima epoca si contrapponevano due progetti economici, quello dello Stato e quello della società. Come in una strategia di guerra di posizione c’erano due blocchi, divisi anche territorialmente, e due progetti di società. Questo termina dopo il tentato colpo di stato, dopo il tentativo di omicidio frustrato e la sconfitta politica e morale dei conservatori. Sicuramente cambierà da qui a cinque o dieci anni, però c’è un solo orizzonte di epoca, incluso per gli oppositori, che si immaginano il futuro in questo contesto. Le tensioni vengono non dall’opposizione, ma dall’usufrutto all’interno del progetto egemonico, e nel ciclo di espansione più importante della Bolivia negli ultimi 50 o 60 anni. Abbiamo ridotto la disoccupazione al 2 per cento in un paese colpito e molto povero. L’internalizzazione della ricchezza sta generando riduzione della povertà e graduale benessere della popolazione. Sono sempre cifre modeste, ma significative per noi boliviani. In questo contesto lo Stato deve garantire che l’eccedente abbia carattere universale e non corporativo.

Non si produce un paradosso nel fatto che un movimento indigeno ha trionfato, perché arriva a controllare lo Stato, ma allo stesso tempo perde anche forza come tale?

Ma queste sono tensioni creative del processo rivoluzionario. É accaduto con i minatori. Alcuni ci chiedevano intervento militare. I conflitti, anche se si tardasse un mese o sei, o ci fossero proteste armate, devono risolversi democraticamente. Vale lo stesso con il petrolio, e sarà così anche con l’elettricità. Le società rivoluzionarie non possono temere il conflitto e il dissenso. É più complicato e rischioso, ma è la forma di mantenere viva la democrazia.

Questo conflitto non preoccupa i settori imprenditoriali nazionali che il governo boliviano vuole vicini?

Ci sono regole del gioco. Lo Stato interviene in alcuni settori: idrocarburi, energia elettrica, una parte nel minerario e settori chiave dell’industrializzazione del minerario e degli idrocarburi. Ha negoziato i settori di partecipazione di attività privata nazionale e straniera. Il settore privato trae beneficio se l’eccedente generato nel paese si destina al paese stesso. Si possono offrire servizi, migliorare gli investimenti, accedere a contratti statali. Ci sono momenti in cui si incrocia l’interesse dell’imprenditore con quello del lavoratore. Tra imprenditore straniero e lavoratore, lo Stato opta per il lavoratore. Quando il conflitto si dà fra lavoratore e imprenditore boliviano cerchiamo meccanismi di dialogo per distribuire settori o conciliare gli interessi di entrambi.

Che ruolo ha la Bolivia nel contesto sudamericano?

Non avevamo vissuto prima un momento tanto eccezionale di costruzione di una base materiale di integrazione. Negli ultimi dieci anni il commercio interregionale è quasi duplicato. La Bolivia vende all’America Latina il 50 per cento delle sue esportazioni, non solo in gas ma in prodotti manufatti: legno, gas, soia… Brasile e Argentina cooperano nella produzione automobilistica, no? Ognuno dei nostri paesi ha assunto con maggiore o minore radicalità i piani post-neoliberisti. Non solo ci sono governi progressisti e rivoluzionari come mai nella storia passata; i provvedimenti di questi governi riducono gli effetti della crisi sul paese, che crescerà quest’anno di un tasso fra il 3 e il 5 per cento, mentre il mondo sviluppato arriverà nel migliore dei casi all’1 o al 2 per cento. Abbiamo CELAC, UNASUR, ALBA come iniziative di costruzione comuni. Abbiamo smesso di sognare l’Europa, quando il massimo era considerato poter portare i nostri figli là. Oggi cambia persino l’immaginario nel desiderio per la classe media.

Universitari argentini in vacanza in Bolivia.

Quando il presidente esce dal Palazzo gli gridano per la foto: “Evo, dall’Argentina!” É un momento eccezionale, la società è quella che ci spinge. Lo Stato deve saper mantenere l’orizzonte dell’universale. Ma la società ti dà una spinta, ti dà uno schiaffo. Non c’è altro modo per avanzare. Lo Stato non può supplire la società.

Come vuole metterlo in pratica lo Stato boliviano?

Questa é una delle belle ricchezze contraddittorie di un processo rivoluzionario. Il presidente lo spiegava bene. Prima il sindacato era Stato. Prima lo Stato non ti dava nulla e si prendeva tutto. Compariva per ucciderti; irrompeva, saccheggiava, distruggeva e poi si ritirava. Rimaneva il sindacato. Non ho una scuola, c’é il sindacato. Non ho una strada, costruiamone una con il sindacato: un sentiero e pietre sopra. Muore un compagno e lascia cinque orfani, i compagni pagano la bara e si occupano dei suoi figli. In campagna e nei quartieri popolari le ristrettezze economiche si superano in maniera comune, partendo dall’associarsi. Poi viene il processo rivoluzionario. Nazionalizziamo, si incrementa l’eccedente e costruiamo scuole, mettiamo il prato in un campo da calcio, il curandero assiste a un parto e poi arriva l’assistenza sanitaria pubblica… Il sindacato deve ripensare che cosa fa. Si mobilita per chiedere allo Stato la soddisfazione delle necessità basiche. Ovvero, si debilita il movimento sociale per l’aumento dello Stato sociale. Quindi abbiamo discusso il tema con i compagni. Il sindacato deve costruire potere economico locale o regionale, nell’elaborazione delle risorse.

Potere economico significa anche partecipare alla gestione?

Che il sindacato diriga nello statale e nel privato. Dopo il dibattito sull’eccedente, la gestione dell’economia é in conclusione l’ambito in cui va a definirsi il socialismo verso il futuro. Ci sono esperienze positive e negative. Nella zona aymara, vicino al lago, i compagni lavorano la terra, hanno le proprie vacche e hanno sempre venduto il latte alle aziende multinazionali. Non vogliono essere sfruttati e vorrebbero coronare i propri sforzi formando una piccola azienda di lavorazione del latte, che venga distribuito nella scuola dove vanno i propri figli, nella cittadina governata dal sindaco che hanno votato. É una spirale. Bene. Nel Chapare hanno costruito una fabbrica e non ha funzionato. C’era la volontà di costruire il potere economico, ma hanno conosciuto i limiti del gestire comunitariamente l’economia. Esiste una gestione comunitaria dell’acqua e delle terre da pascolo, ma abbiamo ancora qualche problema con la lavorazione comunitaria dei prodotti. C’é un limite che dobbiamo ancora imparare a superare. Ti faccio un altro esempio: Huanuni, una miniera con cinquemila operai. Formalmente il governo nomina il direttore, ma in realtà la gestione é del sindacato. Loro definiscono gli incarichi, gli investimenti, i salari, l’intensificazione o riduzione del lavoro. Proprietà statale e gestione operaia. É l’esperienza più avanzata, e allo stesso tempo presenta il limite di mostrare fino a dove si può arrivare nella gestione comunista. L’eccedente generato non si universalizza. Ci sono compagni minatori che guadagnano 50 mila boliviani, cioè 10 mila dollari. Il presidente guadagna 1500 dollari. Solo il 10 per cento dell’eccedente passa allo Stato. La vittoria é l’autogestione operaia. Il limite é la non universalizzazione dell’eccedente.

Che cosa significa gestione comunista?

La messa in comune della produzione. L’autogestione tende a privatizzare gli utili generati, mentre l’obiettivo é universalizzarli. E non ci sono libri che teorizzano queste tensioni; non le problematizzò Lenin.

Qual é l’importanza della figura di Evo in questo processo?

La sconfitta del vecchio sistema dei partiti si dà per l’emergere dell’ambito popolare. Suppongo che, per la dinamica della crisi, quando vengono meno i meccanismi di adesione del governato al governante, sorge la necessità di nuovi dirigenti. Non c’é una predestinazione di Evo. Però é chiaro che si é trovato nel momento preciso e nelle circostanze precise in cui la società sta dando corpo a ciò che sta facendo e a ciò che emerge. Contadino, militante, antimperialista, indigeno… Qualsiasi ribelle può dire di Evo “questo sono io”.

* Pubblicato su “Página/12″, prima delle elezioni in Venezuela.

 

 

 

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