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Manifesto UniNomade Global: Rivoluzione 2.0

 

Rio de Janeiro, 24-26 agosto 2011

Viviamo in una situazione rivoluzionaria.  La crisi diventa permanente, la governance imperiale è fallita, l’asse atlantico mostra la corda. Affermare ciò non significa concedere nulla a uno sciocco meccanicismo o a un ingenuo determinismo. Sono le lotte a dimostrare che le moltitudini produttive non vogliono più vivere come in passato, e i padroni del capitalismo globale non possono più vivere come in passato.

Per questo il vecchio mondo sta crollando. Nelle strade dell’Egitto, della Tunisia, della Spagna, di Londra, di Jirau e di Rio de Janeiro, di Santiago de Chile, nelle piazze e nelle reti globali la rivoluzione qualifica dunque la congiuntura e apre straordinarie possibilità nella crisi del capitalismo globale, cominciata tra il 2007 e 2008 con il crollo dei mutui subprime e che oggi si approfondisce con la crisi del debito sovrano nell’Unione Europea. La rivoluzione torna dunque all’ordine del giorno, ma in forma nuova: non c’è più un “palazzo d’inverno” da conquistare, dei gangli nervosi del potere di cui appropriarsi. Per questo parliamo di rivoluzione 2.0: si articola attraverso differenti tipi di reti – digitali e territoriali -, irrompe nelle strade e nelle piazze delle metropoli. In un mondo in cui produrre diviene un atto comune, la “rivoluzione 2.0″ è il contesto nel quale questo atto riafferma e attualizza la potenza di generalizzazione del desiderio del comune.

La crisi è sistemica e permanente. La ricorrenza di “bolle” attraverso cui la ricchezza si accumula ed esplode indica una nuova temporalità della crisi: non si tratta più di cicli interni alla (ir)razionalità dell’economia capitalistica, ma di una temporalità costituita dai “mondi” che la “bolla” contiene. La temporalità della crisi viene di volta in volta definita dalle spaccature e dai paradossi che attraversano questi “mondi”, dal conflitto tra la produzione libera e orizzontale del comune e la sua cattura parassitaria. In negativo, le bolle costituiscono la forma dell’accumulazione capitalistica per dividere e gerarchizzare il comune. In positivo, sono definiti e riqualificati dalla diffusione delle lotte.

Governance e comune. Di fronte e dentro la crisi, destra e sinistra si uniscono da un lato per pensare la crisi stessa come una sorta di “deviazione” dalla norma, dall’altro usandola come occasione per l’utilizzo di concordate politiche di cosiddetta eccezione. Nella prima fase della crisi hanno sborsato migliaia di miliardi di dollari per socializzarne i costi; ora, smantellano gli ultimi residui di welfare affinché a pagarne i costi siano la moltitudini di poveri e lavoratori. Lo “stato di eccezione” delle economie centrali si unifica con le politiche emergenziali nei paesi emergenti, volte a peigare le società agli interessi “superiori” dello sviluppo. Ma lo “stato di eccezione” è anche quello decretato dalla moltitudine di Londra.

Accennare all’eccezione non vuol dire scivolare nel catastrofismo, che altro non è se non un invito all’inazione politica, ovvero finire per richiamarsi alla sovranità statale come freno all’eccezione stessa. Quando l’eccezione diventa permanente, essa è norma. La governance è questa norma particolare, e non soft power, expertise e tecnica di gestione che si distinguerebbero dal governo fondato sulla violenza. Diciamolo allora chiaramente: il modello del governo sovrano non è finito perché sono diventati più buoni, ma semplicemente perché le lotte lo hanno messo in crisi. La governance è, allora, un sistema di interventi situati a valle laddove non è più possibile il governo a monte. Questi interventi alternano continuamente flessibilità e violenza (proprio come si preparano le Olimpiadi a Londra o a Rio), volte a controllare e gestire ciò che continuamente la eccede: il comune. La governance è, quindi, continuamente affacciata sulla sua crisi: proprio in questo spazio, determinato dalle lotte, si apre in modo permanente la possibilità della rottura e della sovversione.

Il lavoro della differenza diviene moltitudine. La rivoluzione 2.0 è innervata da una composizione del lavoro vivo di tipo nuovo, fatta di poveri precarizzati e precari impoveriti. Si tratta di un lavoro altamente frammentato, in cui si combinano vecchie e nuove forme di precarietà, accomunando nella stessa condizione produttiva i migranti, i poveri delle cosiddette aree del “sottosviluppo” (in Tunisia, Egitto o Brasile) e il proletariato cognitivo e immateriale delle metropoli “centrali” ed “emergenti”. Nelle lotte, dentro le reti e le piazze, a questa vita di precarietà si contrappone la potenza del fare moltitudine, cioè della metamorfosi dei frammenti in singolarità che cooperano a partire dalle proprie differenze e reinventandole continuamente: donne, migranti, uomini, indigeni, neri, meticci, giovani, gay, lesbiche, transessuali.

Le forze produttive contengono i rapporti di produzione. Oggi si rovescia la tradizionale relazione tra forze produttive e rapporti di produzione: potremmo dire che sono le stesse forze produttive a contenere i rapporti di produzione, mentre il capitale variabile (cioè il lavoro vivo cooperante in rete) incorpora il capitale fisso – le metropoli e le sue piazze, la cultura e la natura. Il comune indica proprio questa dimensione relazionale delle forze produttive in quanto produzione di forme di vita (i saperi) per mezzo di forme di vita (i saperi). I poveri divengono potenza produttiva senza passare per i rapporti salariali; i lavoratori continuano a essere pienamente produttivi anche quando sono disoccupati; i poveri precarizzati e i precari impoveriti sono produttivi per se stessi, nelle reti e dentro le piazze.

Dai rapporti salariali a quelli tra debito e credito. Se nel capitalismo industriale le variabili centrali erano il salario e il profitto, nel capitalismo cognitivo diventano la rendita e il reddito. In questo regime di accumulazione il lavoro diviene relazionale, “impollinatore”, immerso in reti di autovalorizzazione. L’accumulazione avviene a valle, come cattura – finanziaria – dei flussi: il meccanismo fondamentale della cattura è di continuare a pagare esclusivamente i frammenti di lavoro che si rappresentano nelle forme tradizionali dell’impiego. Così, la perdita del salario diretto e indiretto è “compensata”, paradossalmente, dal crescente ricorso all’indebitamento. Profitto e salario si trasformano dunque in rendita e reddito. Il trasformarsi in rendita del profitto, attraverso la finanziarizzazione, mette in luce la dimensione parassitaria del capitale che, pur di succhiare il valore, finisce per uccidere le api impollinatrici del lavoro relazionale. Di fronte a questo parassita, affinché il lavoro della moltitudine riproduca le sue condizioni comuni, il salario deve estendersi all’intero tempo di vita e divenire-reddito, ossia un bio-reddito che riconosca la dimensione produttiva del lavoro “impollinatore”. Il diritto alla bancarotta per precari e poveri, il rifiuto cioè di ripagare il debito a banche, imprese finanziarie e Stati, è una delle pratiche attraverso cui la moltitudine si riappropria della rendita sociale e il salario passa per un divenire-reddito.

Dalla dialettica pubblico-privato al comune. É finalmente passato il tempo in cui il socialismo poteva correre in soccorso a un capitalismo in agonia. E questi anni di crisi ci hanno mostrato come qualsiasi ricetta keynesiana o neo-keynesiana, che mira a far ripartire il ciclo economico attraverso il governo pubblico, sia fallimentare. I processi di finanziarizzazione del welfare non possono essere affrontati e battuti sul terreno del pubblico, perché questa è semplicemente un’articolazione attraverso cui quei processi funzionano. D’altro canto, del welfare pubblico i soggetti delle rivolte inglesi o delle banlieue francesi esperiscono solo più la funzione di controllo, privata dei benefici materiali e delle promesse progressive del capitalismo, dall’esaurirsi definitivo della percezione della scuola e dell’università come ascensori della mobilità sociale – percezione egemone dentro i movimenti di precari e studenti in Europa, così come nelle rivolte in Tunisia e nel Nord Africa, accomunando un ceto medio declassato e un proletariato la cui povertà è direttamente proporzionale alla produttività: poveri precarizzati e precari imporveriti. Il piano della sfida si pone allora, immediatamente, sul piano della riappropriazione della ricchezza sociale e dunque della sua costituzione in ricchezza comune; sul piano, cioè, della costruzione delle istituzioni del comune, intese come creazione di normatività collettiva immanente alla cooperazione sociale. Non “isole felici” o spazi dell’utopia dentro o al riparo dell’accumulazione capitalistica, ma organizzazione dell’autonomia collettiva e distruzione degli apparati di cattura capitalistica. Insomma, non c’è davvero più nulla da difendere. Trasformare le mobilitazioni sul pubblico in organizzazione del comune: ecco la strada che ci indicano le acampadas spagnole e i movimenti globali.

Né brasilianizzazione, né europeizzazione: Sul, Sol, Sal! Come evocato dalla poesia del modernismo comunista brasiliano, la rivoluzione 2.0 viene da Sud (dalla Tunisia, dall’Egitto), si consolidata nel Sol delle acampadas spagnole, per poi tornare al Sud che sta dentro il nord e si riverbera nei fuochi della rivolta in Inghilterra. A Londra oggi, come ieri a Parigi, incontriamo le periferie post- e neo-coloniali, ciò che i sociologi del rischio chiamano la “brasilianizzazione del mondo”: il colonizzato continua a essere il cattivo esempio agli occhi del colonizzatore. Ma, vista dal Sud, la “brasilianizzazione del Brasile” è un doppio paradosso: poiché è nel Sud che si trovano oggi i giacimenti della crescita globale, la cosiddetta “brasilianizzazione” sarebbe in realtà una “europeizzazione”. Questi “giacimenti” non devono però ripetere l’esperienza dell’espropriazione e omologazione coloniale. Oltre a brasilianizzazione ed europeizzazione, è allora nella moltitudine dei poveri – delle favelas di Rio de Janeiro e delle periferie di Londra – che troviamo il Sale, cioè una metamorfosi del significato stesso di sviluppo.

Gli spazi costituenti del comune. La rivoluzione 2.0 è irrappesentabile: questo affermano i movimenti. La potenza costituente della moltitudine non deve diventare forma di governo, perché essa già esprime immediatamente le forme della vita in comune. L’occupazione degli spazi metropolitani, in quanto spazi centrali della produzione, non sono semplice esercizio dell’estemporaneità della protesta, ma laboratori di creazione di queste forme di vita in comune, di riappropriazione di potere e dunque di nuova costituzione. Come questa potenza costituente riesce a svuotare e rompere la macchina della cattura? Ecco il punto. Di una cosa siamo sicuri: è sul piano transnazionale che la partita costituente si gioca. Non c’è possibilità per le lotte negli angusti e svuotati confini degli Stati-nazione. Questo ci dicono dalle acampadas spagnole alla Tunisia. Ed è per questo che – come ora ci indica la costruzione di una grande giornata di mobilitazione transnazionale per il prossimo 15 ottobre – l’Europa e gli spazi globali possono vivere solo attraverso un processo costituente che si incarna nei movimenti del comune e nelle sperimentazioni politiche della moltitudine. Qualsiasi tentativo di ingegneria giuridica o economica, ovvero di riproduzione su scala continentale della crisi irreversibile della sovranità, è morto sul nascere.

Quando negli anni passati abbiamo iniziato a parlare di moltitudine, di poveri e di comune, di lavoro cognitivo e biopolitica, forse non comprendevamo fino in fondo la potenza di ciò che stavamo dicendo: le lotte oggi ce lo spiegano e lo portano avanti. Questi sono i concetti in quanto arnesi politici. Ed è su questa strada che continueremo a dare il nostro contributo per trasformare la situazione rivoluzionaria in rivoluzione, rivoluzione 2.0: è l’unica strada plausibile e possibile per uscire dalla crisi oltre l’impotenza e la melanconia delle sinistre, oltre la guerra tra poveri creata dalle destre.

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 Rio de Janeiro – 24,25 26 de agosto de 2011

Vivemos em uma situação revolucionária. A crise se torna permanente, a governança imperial está falida, o eixo atlântico apresenta a corda. Afirmá-lo não representa nenhuma concessão a um pretenso mecanicismo ou a qualquer tipo de determinismo ingênuo. São as próprias lutas a demonstrar que a multidão produtiva não quer mais viver como no passado, assim como os padrões do capitalismo global também não podem mais existir como no passado. Por isso o velho mundo está ruindo. Nas ruas do Egito, da Tunísia, da Espanha, de Londres, de Jirau e do Rio de Janeiro, de Santiago do Chile, nas praças e redes globais, a revolução qualifica a conjuntura e abre possibilidades extraordinárias na crise do capitalismo global iniciada entre 2007 e 2008 com a quebra dos contratos subprime e que hoje se aprofunda com a crise do dívida soberana na União Europeia.

Dessa maneira, a revolução volta à ordem do dia, embora de forma diferente: não há mais “palácio de inverno” a conquistar, centros nervosos do poder a serem apropriados. Por isso falamos em revolução 2.0: ela se articula através de diferentes tipos de redes – digitais e territoriais – e irrompe nas ruas e praças das metrópoles. Em um mundo no qual produzir se torna um ato comum, a “revolução 2.0” é o contexto no qual este ato se reafirma, e atualiza a potência de generalização do desejo comum.

A crise é sistêmica e permanente. A recorrência de bolhas através das quais a riqueza se acumula e estoura indica uma nova temporalidade da crise: não se trata mais de ciclos internos à (ir)racionalidade da economia capitalista, mas de uma temporalidade constituída pelos “mundos” que tais bolhas contêm. A temporalidade da crise é definida a cada momento pelas peculiaridades e pelos paradoxos que atravessam estes “mundos”, pelo conflito entre produção livre e horizontal do comum, de um lado, e sua captura parasitária, do outro. Em um viés negativo, as bolhas representam a forma que a acumulação capitalista usa paradividir e hierarquizar o comum. No positivo, são definidas e requalificadas pela difusão das lutas.

Governança e comum. Na crise, e diante dela, direita e esquerda se misturam, pensando-a como uma espécie de desvio da norma, por um lado, e usando-a como ocasião para aplicar unanimemente políticas ditas de exceção, por outro. Durante a primeira fase da crise ambas despejaram bilhões de dólares para socializar as perdas; agora desmantelam os últimos restos de welfare a fim de forçar a multidão de pobres e trabalhadores a arcar com o custo. O “estado de exceção” das economias centrais se une às políticas emergenciais dos países emergentes, de modo a submeter a sociedade aos interesses “superiores” do desenvolvimento. Mas, o “estado de exceção” é também aquele decretado pela multidão, em Londres.

Acenar com a ideia de exceção, portanto, não quer dizer afundar no catastrofismo, que nada mais é que um convite à inação política, ou mesmo reclamar a soberania estatal como freio à própria exceção. Quando a exceção se torna permanente, ela se torna normativa: e a governança se torna esta norma particular e não soft power, expertise e técnica de gestão que se distinguiria do governo fundado na violência. Digamo-lo então claramente: o modelo de governo soberano não acabou porque teria se tornado melhor, mas simplesmente porque as lutas o puseram em crise. A governança é um sistema de intervenção situado na base lá onde não é mais possível governar de cima para baixo. No entanto, essas intervenções alternam continuamente flexibilidade e violência (exatamente como se organizam /preparam as Olimpíadas de Londres e do Rio), com o fim de controlar e gerir aquilo que continuamente o excede: o comum. A governança é, portanto, continuamente alimentada por sua própria crise: é exatamente neste espaço, determinado pelas lutas, que se abre de modo permanente a possibilidade da ruptura e da subversão.

O trabalho da diferença devém multidão. A revolução 2.0 é animada por uma composição do trabalho vivo de tipo novo, composta de pobres precarizados e precários empobrecidos. Trata-se de um trabalho altamente fragmentado, no qual se combinam velhas e novas formas de precariedade, reunindo na mesma condição produtiva os migrantes, os pobres daquelas áreas ditas “subdesenvolvidas” (de Tunísia, Egito ou Brasil) e o proletariado cognitivo e imaterial das metrópoles “centrais” e “emergentes”. Nas lutas, nas redes e nas praças, a esta vida de precariedade se contrapõe a potência do fazer multidão, isto é, a metamorfose dos fragmentos em singularidades que cooperam entre si a partir das próprias diferenças e as reinventam continuamente: mulheres, migrantes, homens, indígenas , negros, mestiços, jovens, gays, lésbicas, transexuais.

As forças produtivas contém as relações de produção. Atualmente se inverte a tradicional relação entre forças produtivas e relações de produção: podemos dizer que são as próprias forças produtivas que contêm as relações de produção, enquanto o capital variável (isto é, o trabalho vivo que coopera / o trabalho colaborativo em rede) incorpora o capital fixo – as metrópoles e as suas praças, a cultura e a natureza. O comum indica exatamente esta dimensão relacional das forças produtivas enquanto produção de formas de vida (e de saberes) por meio de formas de vida (e de saberes). Os pobres se tornam potências produtivas sem passarem pelas relação salarial; os trabalhadores passam a ser plenamente produtivos por si mesmos, nas redes e nas praças.

Da relação salarial àquela de débito-crédito. Se no capitalismo industrial as variáveis centrais eram o salário e o lucro, no capitalismo cognitivo estas se tornam a renda e o rendimento. Neste regime de acumulação o trabalho se torna relacional, “polinizador”, imerso em redes de autovalorização. A acumulação ocorre a posteriori, como captura – financeira – dos fluxos: o mecanismo fundamental da captura consiste em continuar a pagar exclusivamente os fragmentos de trabalho que se apresentam sob a forma tradicional do emprego (das abelhas operárias). Assim, a perda do salário direto e indireto é “compensada”, paradoxalmente, pelo crescente recurso ao endividamento. Lucro e salário se transformam então em rendimento e renda. O tornar-se rendimento do lucro, através da financeirização, lança luz sobre a dimensão parasitária do capital que, para sugar o valor, acaba por matar as abelhas polinizadoras do trabalho relacional. Diante deste parasita, a fim de que o trabalho da multidão reproduza suas condições comuns, o salário deve estender-se pelo tempo de vida total; devir-renda, ou seja, uma bio-renda que reconheça a dimensão produtiva do trabalho relacional:“polinizador”. O direito à decretar falência e dar calote por parte de precários e pobres, isto é, a recusa em pagar à dívida a bancos, firmas financeiras e Estados, é uma das práticas através das quais a multidão se reapropria da renda social e o trabalho passa por um devir-renda.

Da dialética público-privado ao comum. Finalmente passou o tempo em que o socialismo podia correr em socorro de um capitalismo em agonia. E os anos de crise mostraram que qualquer receita keynesiana ou neo-keynesiana que vise relançar o ciclo econômico através do governo público faliu. Os processos de financeirização do welfare não podem ser afrontados e derrotados no terreno público exatamente porque esta é a articulação que permite que esses processos funcionem. Por outro lado, os sujeitos da revolta inglesa ou das periferias francesas cada vez mais só experimentam do welfare público a função de controle, privados que são dos benefícios materiais e das promessas de progresso do capitalismo, do exaurimento definitivo da percepção da escola e da universidade como mecanismos de ascensão social – percepção hegemônica dos movimentos de precários e estudantes na Europa, assim como nas revoltas na Tunísia e no Norte da África, aproximando e tornando comum uma classe média empobrecida e um proletariado cuja pobreza é diretamente proporcional à produtividade: pobres precarizados e precários empobrecidos.

O desafio se coloca agora, imediatamente, no plano da reapropriação da riqueza social e, logo, de sua constituição em riqueza comum; isto é, no plano da construção de instituições do comum, entendidas como criação de normatividade coletiva imanente à cooperação social. Não “ilhas felizes” ou espaços de utopia no interior (ou apesar) da acumulação capitalista, mas organização da autonomia coletiva e destruição dos aparatos de captura capitalista.

Em suma, não resta mais nada a defender. Transformar as mobilizações em torno do público em organização do comum: eis o caminho que indicam as acampadas espanholas e os movimentos globais. Podemos encontrar traços importantes também neste laboratório extraordinário e produtivamente ambivalente em que se constituíram o Brasil e a América Latina da década passada, na relação aberta e tensa entre movimentos e governança: como a rede, a cultura, os saberes, a universidade, os lugares de habitação e os espaços metropolitanos podem ser imaginados não como afirmação daquilo que não pertence a ninguém, mas como instrumento de autovalorização e autonomia da potência cooperativa do trabalho vivo? Como afirmação, portanto, daquilo que é produzido por todos e que pertence a todos, ou seja, da institucionalidade do comum? Aqui se travam as batalhas.

Nem brasilianização, nem europeização: Sul, Sol, Sal! Como evocado pela poesia do modernismo comunista brasileiro, a revolução 2.0 vem do Sul (da Tunísia, do Egito), consolida-se no Sol das acampadas espanholas, para então retornar ao Sul que se localiza no interior do norte e reverbera nos fogos da revolta na Inglaterra. Em Londres, hoje, como em Paris ontem, encontramos as periferias pós- e neo-coloniais, fenômeno a que os sociológos do risco chamam de “brasilianização do mundo”: o colonizado continua a ser o mau exemplo aos olhos do colonizador. Mas, visto desde o Sul, a “brasilianização do Brasil” revela um duplo paradoxo: uma vez que atualmente é no Sul que se encontram as jazidas do crescimento global, a tal “brasilianização” é na realidade uma “europeização”. Estas jazidas, porém, não devem repetir a experiência de expropriação e homologação coloniais. Para além da brasilianização e da europeização, é na multidão de pobres – das favelas do Rio de Janeiro e das periferias de Londres – que encontramos o “Sal”: a metamorfose do próprio significado do desenvolvimento.

Os espaços constituintes do comum. A revolução 2.0 é irrepresentável: afirmam os movimentos. A potência constituinte da multidão não deve se tornar forma de governo, porque ela já exprime imediatamente as formas de vida em comum. A ocupação dos espaços metropolitanos, na condição de espaços centrais da produção, não é um simples exercício extemporâneo de protesto, mas construção de laboratórios de criação de formas de vida em comum, de reapropriação de poderes e logo de nova constituição. Mas, como é que esta potência constituinte pode conseguir esvaziar e romper a máquina de captura? Eis o ponto. De uma coisa estamos seguros: é no plano transnacional que o processo constituinte é jogado. Não há devir para as lutas nas angústias e nos limites esvaziados dos Estados-Nação. Isto vem sendo dito das acampadas espanholas até a Tunísia. E é por este motivo que – como indica a construção de uma grande jornada de mobilização transnacional no próximo dia 15 de outubro – os espaços globais só podem viver através de um processo constituinte que se encarna nos movimentos do comum e nas experimentações políticas da multidão. Por isso também, quaisquer tentativas de engenharia jurídica ou econômica, ou de reprodução em escala continental da crise irreversível da soberania estará morta ao nascer.

Quando nos anos recentes começamos a falar de multidão, de pobres e de comum, de trabalho cognitivo e biopolítica, talvez ainda não compreendêssemos com precisão a potência do que estávamos dizendo: pois as lutas hoje explicam e aprofundam esses termos. Estes são conceitos entendidos como ferramentas políticas. E será nesta tendência que continuaremos a dar nossa contribuição para transformar a situação revolucionária em revolução, revolução 2.0: é o único caminho plausível e possível para sair da crise para além da impotência e da melancolia das esquerdas e contra a guerra aos pobres criada pelas direitas.

http://www.universidadenomade.org.br/?q=node/132

 

 

 

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