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Nel tempo del post

 

di SANDRO MEZZADRA

Faccio fatica a ricordare quando ho sentito parlare per la prima volta di postoperaismo. L’impressione, però, è che a premettere il post all’operaismo non sia stato alcuno dei teorici che vengono oggi associati a quell’etichetta. “A naso” direi che è nel mondo anglosassone che quella “etichetta” si è formata: e sicuramente è lì, all’incrocio tra accademia globale, attivismo “altermondialista” e mondi dell’arte, che è divenuta di uso comune, “ricadendo” poi sull’Italia, sulla Francia, sul Brasile e sugli altri Paesi dove ha luogo l’elaborazione (ormai compiutamente trans-nazionale) delle teorie che a un certo si è cominciato a definire “postoperaiste”. Eccoci così diventati postoperaisti: viviamo del resto in un tempo del post (postmoderno, postcoloniale, poststorico, e chi più ne ha più ne metta); e ad almeno una delle definizioni che iscrivono il nostro tempo nell’orizzonte di una sospensione tra un “non più” e un “non ancora” – quella di postfordismo – hanno dato un contributo di primo piano fin dall’inizio degli anni Novanta teorici (da Toni Negri a Paolo Virno) e riviste (da «Futur Antérieur» a «Luogo comune») del futuro postoperaismo. Di che cosa ci parla, al di là delle mode intellettuali e accademiche, questa proliferazione dei “post”? Si potrebbe azzardare l’ipotesi che il prefisso post interpreti una diffusa difficoltà (una specifica impasse, che noi condividiamo) di fronte all’esigenza di definire “in positivo” i caratteri essenziali del nostro tempo, di qualificarlo altrimenti che come un’età di transizione. Se così fosse, partendo da un dettaglio apparentemente poco significativo (il “post” in postoperaismo), si aprirebbe forse una prospettiva da cui riconsiderare il contributo delle nostre analisi e discussioni alla cartografia della transizione globale in atto e al tempo stesso da cui valutare con una certa indulgenza – senza che questo significhi in alcun modo rinunciare alla (auto)critica – le difficoltà e i limiti del postoperaismo, che certo non mancano.

 

Ma prima di tutto occorre esaltare l’operaismo. La “rivoluzione copernicana” di cui parlava Mario Tronti a metà degli anni Sessanta, quel prima le lotte operaie, poi lo sviluppo capitalistico, ha davvero aperto nuovi continenti teorici, al cui interno continuano a muoversi – seguendo il filo delle lotte – compagne e compagni in tutto il mondo. Il capitale come rapporto sociale e non come “una cosa”: questa straordinaria indicazione marxiana è rivissuta nell’operaismo con un’intensità senza pari nella storia del “marxismo”. E ha posto le condizioni per incontri e ibridazioni con una gran varietà di pratiche teoriche dalla diversa genealogia nei decenni successivi – a partire, ovviamente, da quelle che sono state raggruppate sotto un’altra etichetta di transizione, quella di poststrutturalismo emersa in buona misura dalla ricezione (dalla “traduzione”, in senso letterale e soprattutto metaforico) negli Stati Uniti delle opere di Foucault e Derrida, Deleuze, Guattari, e poi Lacan, De Certeau e un sacco di altri. Era il tempo in cui nelle università statunitensi (nei dipartimenti di letteratura e studi culturali, in aperta polemica con quanto accadeva nei dipartimenti di filosofia, dove non è mai stata scalfita l’egemonia “analitica”) imperversava la French theory. E sarebbe interessante ricostruirne la storia per mettere in evidenza tanto le fertili ibridazioni concettuali che ne sono derivate quanto le distorsioni (e soprattutto l’addomesticamento) di posizioni filosofiche e politiche radicali che all’interno di quella storia si sono determinate: così, con uno sguardo strabico, ci ha del resto insegnato a guardare alle “teorie in viaggio” Edward Said, che se ne intendeva. Alleniamolo, questo sguardo strabico, mentre si comincia a parlare di una Italian theory di cui farebbe parte anche l’operaismo (così come il suo post), destinata a prendere il posto di quella French.

 

Tenere ferma, come criterio fondamentale di ricostruzione della storia e di rivendicazione dell’attualità dell’operaismo, la trontiana “rivoluzione copernicana” può essere un buon antidoto contro ogni “scioglimento” e “neutralizzazione” della sua radicalità politica in contenitori accademici variamente definiti. D’altronde, nella storia della filosofia italiana, l’operaismo è stato un’anomalia (aggiungiamolo: un’anomalia selvaggia, per rendere omaggio al libro di Toni Negri su Spinoza, scritto nelle galere della Repubblica). Provincializzare l’operaismo (per riprendere il titolo di un bell’articolo di qualche anno fa di Brett Neilson) non significa certo ricollocarlo all’interno di una storia e di una cultura (quella italiana, appunto) di cui è stato un figlio bastardo. Significa al contrario, intendendo il “provincializzare” nei termini in cui ci hanno insegnato a intenderlo grandi studiosi postcoloniali come Dipesh Chakrabarty, liberarlo definitivamente da quella storia e da quella cultura. Significa scoprire che la radicalità politica dell’operaismo – quella degli operai che lottavano per distruggere lo sfruttamento, e dunque il sistema di fabbrica, nella Torino degli anni Sessanta dello scorso secolo – parlava lo stesso linguaggio delle donne “tribali” che si ribellavano in quegli stessi anni contro i proprietari terrieri nelle campagne del Bengala occidentale, dei movimenti del black power negli Stati Uniti, degli operai brasiliani e dei movimenti femministi ai quattro angoli del pianeta.

 

Lo “stesso linguaggio”, ho scritto. Non è una stupidaggine? Certo che lo è! L’operaismo parlava infatti un linguaggio “totalmente diverso” da quelli dei movimenti che si sono appena ricordati a titolo di esempio; parlava infatti un linguaggio non universale, bensì (termine chiave in Operai e capitale di Tronti) volutamente parziale. E tuttavia, per provare a dirlo meglio (con una parola che ho imparato a usare discutendo con il colectivo situaciones di Buenos Aires), parlava un linguaggio che risuonava con i linguaggi parlati da un gran numero di movimenti di rivolta in tutto il mondo (e questo pone, sia detto per inciso utilizzando per la seconda volta il termine nel suo significato metaforico, essenziali problemi di traduzione). È (spero) detto meglio di prima (non certo lo stesso linguaggio, un linguaggio che risuonava), ma è detto ancora in modo insufficientemente “chiaro e distinto”: siamo del resto nella transizione, e dobbiamo forgiarci non solo una “morale provvisoria”, bensì anche attrezzi concettuali provvisori. Può, quello della “risonanza”, diventare un metodo? Intendo, con termini oggi maggiormente in uso: un “dispositivo” efficace tanto sotto il profilo teorico (dove il problema essenziale che ci è consegnato sta in un’altra insostenibile semplificazione che ho proposto poc’anzi, quando ho identificato la radicalità politica dell’operaismo con quella delle lotte operaie dei primi anni Sessanta) quanto sotto il profilo politico (dove si riapre la questione che l’operaismo classico aveva affrontato con i concetti di composizione tecnica e composizione politica di classe). L’inchiesta militante (la con-ricerca) ha notoriamente rappresentato il metodo operaista negli anni Sessanta: e come parlare di composizione tecnica e politica di classe era un tentativo di uscire dai vicoli ciechi in cui avevano condotto i dibattiti sulla “coscienza di classe”, la con-ricerca si proponeva di saltare, con una mossa simile a quella del cavallo nel gioco degli scacchi, le infinite dispute sul rapporto tra teoria e prassi. L’operaismo prendeva così congedo dai “marxismi”.

 

Si potrebbe discutere a lungo su quanto sia stata efficace quella doppia mossa del cavallo. Ci si potrebbe cioè domandare se l’operaismo non abbia poi re-incontrato (magari sotto altre forme) le contraddizioni, gli elementi di blocco e di difficoltà che avevano caratterizzato i dibattiti “marxisti” appena evocati. Resta il fatto che la con-ricerca ha prodotto negli anni Sessanta formidabili risultati tanto sul terreno della conoscenza quanto su quello dell’organizzazione; e che dai concetti di composizione tecnica e composizione politica di classe è germinata un’ipotesi politica – quella dell’operaio massa – che ha trovato una verifica nelle grandi lotte operaie che hanno chiuso il decennio. Ma oggi, nel tempo del post? Possiamo immaginare un’inchiesta militante all’altezza di questo tempo, una con-ricerca “postoperaista”? Le compagne e i compagni riuniti attorno alla rete UniNomade (uninomade.org) pensano che sia una domanda che vale la pena di porre, e hanno avviato un riflessione attorno a essa nella consapevolezza che nulla può essere dato per scontato: né il lessico teorico (ha ancora senso, ad esempio, lavorare oggi con i concetti di composizione tecnica e politica di classe?) né i metodi della con-ricerca “postoperaista” (che cosa significa, per accennare alla questione più banale, fare con-ricerca nelle reti?). E soprattutto non si può dare per scontato il fatto che la risposta alla domanda sulla possibilità di immaginare una con-ricerca all’altezza delle trasformazioni che il postoperaismo ha contribuito a descrivere sarà positiva.

 

Per qualificare il modo in cui mi pongo all’interno di questa discussione, vorrei almeno accennare a qualche complicazione concettuale che ho cercato di introdurre in questi anni all’interno del dibattito post-operaista partendo dal lavoro che ho fatto e continuo a fare sui temi delle migrazioni. Punto di partenza, in fondo, è stato il tentativo (che abbiamo fatto in molte e molti e che non è stato privo di qualche efficacia conoscitiva e politica) di leggere le migrazioni dal punto di vista della trontiana “rivoluzione copernicana”. Categorie e formule come “diritto di fuga” e “autonomia delle migrazioni” (al cui conio ha dato un contributo essenziale Yann Moulier Boutang) hanno consentito di rovesciare lo sguardo sulle migrazioni, facendo emergere in piena luce le loro dimensioni soggettive, in aperta polemica contro ogni “vittimizzazione” dei e delle migranti ma anche contro l’enfasi unilaterale “neo-marxista” sulle determinazioni strutturali, “oggettive”, dei movimenti migratori. Al tempo stesso hanno consentito una politicizzazione della mobilità (in primo luogo sotto il profilo analitico) che per molti versi ha anticipato quella che oggi viene discussa come “mobility turn” nelle scienze sociali e umane.

 

Questo percorso di ricerca (e di militanza) mi ha però anche condotto – passando attraverso il confronto con i cosiddetti studi postcoloniali, che da ormai un decennio è diventato per me fondamentale – a complicare continuamente, come dicevo, alcuni riferimenti concettuali canonici nella tradizione operaista e nel dibattito postoperaista: seguendo il filo dell’analisi delle migrazioni contemporanee, mi è parso ad esempio che fosse necessario mettere in discussione ogni lettura “lineare” del passaggio dalla “sussunzione formale” alla “sussunzione reale” del lavoro sotto il capitale così come il “progressismo” che mi pareva di vedere nella filigrana di molti usi operaisti della categoria di tendenza. Non si tratta, ovviamente, di questioni “astratte”, o puramente teoriche: con quelle letture e quegli usi ho cominciato a criticare l’iterazione di una ricerca del punto “più alto dello sviluppo capitalistico” e della corrispondente figura rivoluzionaria (intellettualità di massa, lavoro immateriale o cognitivo, etc) che aveva certo prodotto dei risultati straordinari alle origini dell’operaismo ma che è oggi a mio parere del tutto inadeguata alla condizione che ci troviamo a vivere. Per quanto riguarda il mio percorso di ricerca, ne è derivata l’esigenza di attraversare nuovamente Marx (ad esempio rileggendo il capitolo del I libro del Capitale sulla “cosiddetta accumulazione originaria”), per mettere a punto uno schema di analisi dell’eterogeneità costitutiva della composizione contemporanea del lavoro vivo. Messa così, è poco più di una formula, me ne rendo perfettamente conto (e richiederebbe intanto che spiegassi perché è ancora dal “lavoro” che si deve a mio giudizio partire per articolare la critica del capitalismo contemporaneo, di quel capitalismo che descriviamo variamente aggettivandolo come finanziario, cognitivo, globale o che qualifichiamo con il prefisso “bio”). Può forse dare l’idea, però, di un tentativo di proseguire la riflessione su un concetto importante come quello di moltitudine evitando le semplificazioni che ne hanno contraddistinto negli ultimi anni l’uso politico da parte di alcune componenti di movimento in Italia e non solo. Christian Marazzi, in questo stesso numero della rivista, dice a questo proposito l’essenziale. In ogni caso: verificare la produttività della formula “eterogeneità costitutiva della composizione contemporanea del lavoro vivo” (andando oltre la sua genericità) è per me il compito essenziale della con-ricerca postoperaista.

 

da “espai en blanc”, 2011

 

 

 

 

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