“Se ci bloccano il futuro, noi blocchiamo le città!”
Appunti sulle mobilitazioni universitarie dell’autunno 2010 in Italia
di GIAN LUCA PITTAVINO
L’immagine della torre di Pisa occupata dagli studenti ha fatto il giro del mondo, finendo in poche ore nei servizi della Bbc e sulla prima pagina del Financial Times. L’immagine speculare e rovesciata è quella scattata qualche giorno dopo: un Parlamento assediato, chiuso nelle proprie stanze per far approvare una legge impopolare mentre fuori il paese veniva bloccato dalle nuove generazioni. A due anni dall’irruzione del movimento dell’Onda, sono ancora gli universitari a tradurre politicamente in alto il conflitto che cova latente nel mondo della formazione.
Il ddl Gelmini è passato alla Camera ma il parto è stato tutt’altro che indolore. L’iter parlamentare è stato accompagnato da una settimana di mobilitazione radicale, intensa e capillare, estesa a tutte le città italiane. All’Onda non ha fatto seguito uno tsunami ma tanti piccoli maremoti hanno fatto tremare, per un giorno (30 novembre), un governo già molto instabile.
Le forme praticate nelle mobilitazioni sono state le più svariate: occupazioni delle sedi universitarie, blocco della didattica, blocco metropolitano e dei principali nodi dei trasporti (stazioni, porti, aeroporti), tentate irruzioni nelle sedi istituzionali fino all’occupazione dei principali monumenti cittadini.
Ogni iniziativa ha cercato di sintetizzare radicalità e comunicatività nel proprio gesto. Le azioni di protesta sono scaturite generalmente da discussioni assembleari partecipate da centinaia di persone e circolate viralmente in rete tramite un uso di parte dei social network, senza disdegnare il passa-parola e la conoscenza diretta, rafforzata dalla pratica assembleare come riconquista di un fare-in-comune.
Lotta di classe nei templi del sapere
Intelligenza nel cogliere il momento, uso politico della Rete, curvatura del dispositivo comunicativo mainstream, capacità di sintetizzare un discorso politico più ampio. Tutti questi attributi confermano come nel soggetto studentesco (già lavoratore e precario) si condensi oggi la più alta composizione politica di classe presente nel paese.
Commenti ed editoriali sembrano accorgersi di questo aspetto, macroscopico se confrontato con la miseria e l’auto-referenzialità dei partiti e delle presunte élites. Dal partito di Repubblica al mondo della cultura, fino ai gesti in ordine sparso dei leader dell’opposizione (peraltro sostanzialmente ignorati dagli studenti) tutti si accorgono, all’improvviso, che gli studenti ci sono e che le loro istanze non sono per nulla pacificate né tantomeno riassorbibili nell’attuale configurazione produttiva e politica.
Perché se l’empatia che il movimento suscita è un fatto acquisito e pacifico, lo è molto meno il raccogliere la sfida che questi corpi gettati in piazza pongono. Piace la faccia pulita di un soggetto che parla di “salvare l’università pubblica”, molto meno il nocciolo politico di alternativa di sistema ch’esso racchiude. C’è un po’ l’impressione che dietro la facciata di acquiescenza verso le ragioni degli studenti mostrate da una parte delle lobbies culturali si annidi, neanche troppo celata, la paura di istanze ben più ampie e il terrore di una loro generalizzazione conflittuale in tutto il corpo sociale.
Perché le questioni che gli studenti agitano, coscienti o meno, hanno direttamente a che fare con la stratificazione sociale sempre più brutale e rigida che sembra essere l’unico futuro possibile per le nuove generazioni. Una stratificazione in cui l’accesso o meno all’università non funge più da principale linea di demarcazione, essendo questa ormai totalmente incorporata dentro l’università-azienda, con un’infinità di confini artificiali che dettano tempi e ritmi della carriera studentesca secondo la logica dell’inclusione differenziale.
Gli studenti fanno così l’esperienza, fin dal primo anno d’immatricolazione, di stare dentro a una grande fabbrica in cui ogni passaggio è determinato mentre i segnali che giungono dall’esterno suggeriscono di non coltivare troppe illusioni sul proprio futuro lavorativo.
La scuola pubblica del resto ha sempre funzionato come doppio binario: da un lato istituto di promozione sociale, dall’altro agenzia di disciplinamento di massa per i futuri lavoratori e cittadini. Una specie di macro-regolatore sociale che garantiva lo scambio tra consenso e promessa di futuro all’interno del quadro sistemico.
Con la crisi del capitalismo societario, questa funzione mediatrice della scuola è completamente saltata, rimanendo attiva la sola funzione di grande parcheggio: “niente più mobilità verso l’alto” dice il Capitale alle nuove generazioni.
Sotto gli slogan triti e ritriti sull’inviolabilità della Cultura, si agita lo spettro della lotta di classe dentro i templi del Sapere.
Quadro europeo, anomalia italiana
Queste osservazioni ci obbligano al tempo stesso ad una comparazione più ampia e ad una giusta declinazione della questione all’altezza (bassezza) dell’anomalia italiana.
Le mobilitazioni studentesche di quest’autunno vanno lette su più livelli. Uno più immediato e contingente, occasionato dalla discussione parlamentare del ddl Gelmini; uno continentale, che misura la propagazione delle mobilitazioni studentesche su scala europea; un terzo, che individua il nesso tra ripresa del conflitto sul terreno della Formazione e crisi finanziaria.
Il passaggio alla camera del ddl c’interessa soprattutto per lo spazio di soggettivazione politica che apre dentro una composizione che ha in parte già partecipato alla stagione dell’Onda. Più che l’esito è importante misurare l’accrescimento di potenza soggettiva che questa breve ma intensa esperienza ha prodotto. Se anche i numeri non sono stati quelli dell’Onda, la forza del nuovo movimento deve essere misurata nella capacità che esso ha avuto di produrre accelerazione e radicalità di movimento. Il tutto è avvenuto in due settimane ma promette di lasciare segni profondi nella costituzione soggettiva dei tanti e tante che hanno partecipato ad una stagione di lotta così breve ma intensa. Le grandi discussioni hanno lasciato spazio a un più diretto bisogno d’azione e intervento. Ci s’interrogava sul come incidere, creare disturbo, far male all’avversario. Per la prima volta gli studenti hanno effettivamente fatto sciopero. Direttamente nell’università-azienda, arrivando in alcuni casi a bloccare il funzionamento didattico e amministrativo della facoltà. Sul piano della totalità sociale, interrogandosi sul cosa significhi oggi fare sciopero, produrre interruzione nel ciclo capitalistico complessivo. Di qui la pratica del blocco metropolitano e l’interruzione dei flussi di traffico e comunicazione.
Su questo piano è stata imprescindibile la lezione europea, francese in particolare.
Almeno dal 2006, col movimento contro il Cpe (con forse qualche timido elemento di anticipazione nel ciclo di lotta italiano contro la riforma Moratti del 2005), le lotte che attraversano il mondo della Formazione sono, a tutti gli effetti, conflitti che chiamano in causa la legislazione sul lavoro. Da allora, con scadenza annuale, queste si sono ripresentate praticamente in ogni paese europeo, in maniera più forte nei paesi dell’Europa occidentale (Francia, Italia, Spagna, Germania, Austria e ora Inghilterra), in forma più lieve ma significativa anche in alcuni stati di nuova acquisizione comunitaria (Lituania, Repubblica Ceca). Capillarità e denominatore comune di tutti questi movimenti segnano un unico grande ciclo di lotta contro il “Processo di Bologna” con cui, solo 10 anni fa, la costituenda Unione Europea prevedeva di omogeneizzare la formazione superiore nel continente.
Quando si dice omogeneizzazione s’intende sempre standardizzazione, cioè uniformazione di differenze (che potrebbero essere ricchezza) ma anche promozione. Un’omogeneità che dunque si intende in senso migliorativo, al grado più alto. Così non è stato. Per stare dentro ai maledetti “parametri europei”, il Processo di Bologna si è declinato ovunque come tagli alla formazione e alla ricerca. Più in profondità, ha cercato di ridefinire la formazione com produzione di lavoratori precari e flessibili, in possesso di quelle qualità richieste dalle aziende.
Le lotte degli studenti europei di questi ultimi 5 anni vanno lette come battuta d’arresto e fallimento di questo processo.
Se guardiamo a quello che sta succedendo in questi giorni intorno all’Irlanda, e le promesse che queste misure annunciano per altri pezzi d’Europa, possiamo ben misurare come il fallimento del Bologna Process accompagni in qualche modo il fallimento dell’Unione Europea come unione esclusiva del Money first!
L’ultimo e più importante livello su cui questa lotta (e tutte quelle che stanno attraversando il sistema della formazione anche aldilà della dimensione europea) deve’essere misurata è il suo confrontarsi direttamente col dispositivo della finanziarizzazione.
La riforma Gelmini prospetta in tendenza uno scaricamento complessivo dei costi della formazione dalla spesa pubblica al singolo studente, attraverso l’istituzione del ‘debito’ che gli studenti dovranno contrarre con le banche per permettersi l’iscrizione e la frequenza dei corsi. Un’ipoteca sul proprio futuro che nel mondo anglo-sassone è norma da decenni. Gli studenti americani lo scorso anno e quelli inglesi quest’autunno si sono rivoltati proprio contro l’intensificazione di questo dispositivo. L’università prospettata da Gelmini, Tremonti e Sacconi va in questa direzione, con la particolarità tutta italiana di avere ben altre risorse a disposizione. Tracciare i fili che collegano questi movimenti, pur così distanti geograficamente e differenti nella potenza dei numeri e della radicalità, è imprescindibile per capire su quali terreni saremo obbligati a confrontarci nei prossimi anni. Le prime risposte che abbiamo osservato e a cui abbiamo partecipato in questi anni ci mostrano come i nuovi movimenti studenteschi siano la principale, e al momento unica, risposta organizzata alla crisi finanziaria globale.
I lasciti dell’Onda: passi avanti e nodi irrisolti
Misurata la multidimensionalità e problematicità su cui deve essere letta questa nuova e importante stagione di lotta, prima di guardare e muovere oltre, può forse essere utile un raffronto con il precedente ciclo di mobilitazioni del/nel mondo della formazione.
Il movimento dell’Onda che aveva investito tutti gli atenei nell’autunno del 2008 aveva rappresentato una boccata d’aria fresca nella palude italiana. Lo slogan “noi la crisi non la paghiamo” sintetizzava lettura attenta del presente e programma per le lotte a venire, individuando nell’orizzonte della crisi l’ancoraggio del punto di vista e d’azione del soggetto precario e studentesco.
Come molti hanno sottolineato, l’importanza di questo movimento non poteva essere limitata alla misura della sua riuscita o fallimento nel bloccare la riforma. Era prevalso, giustamente, un approccio sintomatologico volto a cogliere gli elementi di novità e futuribilità che la nuova composizione presentava. L’esito di questa stagione ci obbliga in parte alle stesse considerazioni.
Eppure, pur nella ripetizione, si sono palesate nuove e significative differenze.
La retorica dominante che percorreva l’Onda tratteggiava un università uniformata di soggetti ugualmente colpiti dalla riforma che si preparava. Baroni, docenti, ricercatori, studenti tutti su un identico piano ideale, omettendo la realtà materiale di gerarchie, poteri, ruoli.
Questa debolezza, su cui ha avuto facile gioco la retorica della contro-parte veniva confermata dalla costante ossessione degli studenti nella ricerca dell’appoggio di professori e baroni. Come se le istanze del movimento non fossero abbastanza forti da poter fare a meno del loro battesimo. Il movimento di oggi ha fatto ampiamente a meno di questo “appoggio”. Non l’ha neanche cercato, memore della precedente esperienza.
Questa contraddizione, da sempre inerente le lotte del mondo della formazione, si è ripresentata in forma condensata nella lotta dei ricercatori che dalla scorsa primavera minacciano e praticano l’“indisponibilità” a sostenere il sovrappiù di lavoro imposto dall’università-azienda.
Un momento esemplare dello scontro si è consumato ad inizio anno accademico con la minaccia del Rettore di Bologna di sospendere e sostituire i ricercatori indisponibili. Da più parti si è parlato di “modello Marchionne” applicato all’università. Un ricercatore bolognese intervistato ha però rigettato questa rappresentazione, preferendo parlare di “senso di responsabilità” per le sorti dell’università pubblica. Dentro quello che si esprimeva come scontro tra interessi opposti e parziali rispuntava l’adagio dell’interesse generale.
Tra il farsi classe e il restare corporazione, i ricercatori italiani hanno optato per la seconda strada, più comoda nell’immediato ma perdente sul lungo termine. Come ha mostrato questo movimento e quello precedente dell’Onda, solo gli studenti possono fornire i numeri e la qualità per ribaltare i rapporti di forza complessivi dentro gli atenei. I ricercatori occupano un posto certamente baricentrale nell’università-azienda. Strategicamente però, devono saper cogliere come necessaria e non più rimandabile l’alleanza politica con gli studenti, abbandonando qualsiasi velleità d’integrazione e collaborazione con un baronato che incarna in toto le vesti del padrone.
Il prossimo passo: generalizzare la protesta
Ri-comporre politicamente i soggetti conflittuali dentro le facoltà, però, non basta! Se, come abbiamo detto, questi anni hanno visto una circolarità virtuosa di reciproco stimolo e rilancio tra i movimenti studenteschi a livello europeo, guardare all’Europa vuol dire anche cogliere i processi di generalizzazione e trasversalità della conflittualità sociale che alcune di queste esperienze iniziano a mostrare.
Per la prima volta abbiamo assistito in Francia alla rottura degli argini in cui venivano agilmente confinate le lotte studentesche dalla narrazione mediatica dominante. L’occasione, è vero, è stata offerta dall’apertura di uno spazio di lotta ampio, segnato da un attacco senza precedenti al Lavoro e al Welfare. Ma il dato significativo è che gli studenti dei licei e dell’università, bloccavano i loro istituti e le strade… per opporsi ad una legge sulle pensioni! Il gesto è immediatamente politico per come rompe gli steccati di compartimentazione sociale e generazionale con cui il biopotere segmenta e controlla le lotte.
Fare tesoro di quest’indicazione significa continuare un doppio e simultaneo percorso: uscire dagli atenei per socializzare le lotte; portare dentro le mura dell’Accademia quanto inizia a muoversi al di fuori contro la crisi e le misure ordite dalla contro-parte. Quella che è stata sempre pratica di piccole avanguardie deve essere socializzata come un fare comune e quotidiano della più generale composizione studentesca. Perché, se è vero che gli studenti sono stati i primi ad opporsi in forma esplicita al capitalismo della crisi, è altrettanto vero che da soli non ce la potranno fare, in Italia come altrove. Come continuare e intensificare una pratica costante di apertura, circolazione e collegamento tra le lotte dovrà quindi porsi come il nostro principale compito nei prossimi mesi.
Nell’immediato gli studenti italiani hanno di fronte alcune scadenze importanti: il passaggio di discussione della legge in Senato, il prossimo 9 dicembre (ma potrebbe anche slittare oltre) e la costruzione di una giornata di mobilitazione nazionale contro il voto di fiducia al governo Berlusconi per il 14 dello stesso mese. Tutte queste occasioni continueranno ad essere attraversate dalla richiesta d’indizione di uno sciopero generale alla principale organizzazione sindacale italiana, la Cgil.
Momenti e prese di parola importanti che però non potranno oscurare: 1) un lavorio necessario e costante di sabotaggio interno della riforma; 2) la preparazione e l’organizzazione dei conflitti a venire.
* da www.edu-factory.org/wp/if-they-block-our-future/