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Sulla violenza urbana del capitale. Note disorganiche per un’agorà delle lotte

 

di ROBERTA POMPILI e CARLO ROMAGNOLI

Preludio

“Non è la tua mano che deve temere il legno ma il legno che deve temere la tua mano, altrimenti è come se ti arrendessi ancor prima di cominciare”.

(Kill Bill 2)

Nella notte tra l’8 e il 9 maggio una rissa tra spacciatori albanesi e tunisini termina con un tunisino ferito gravemente: i suoi compagni affrontano la polizia, si radunano a gruppi nel centro storico, spaccano qualche vetrina di bar e minacciano vendette nei confronti del gruppo rivale. Il giorno dopo riparte la retorica securitaria e razzista, la guerra di politici e mass media alla città. E’ deciso il centro sarà presidiato da forze di Polizia. Ci saranno rimpatri forzati dall’Aereoporto di Sant‘Egidio, qualcuno rincara chiedendo la presenza di un CIE a Perugia. La sicurezza, pratiche e retoriche securitarie sono una delle modalità della produzione di corpi e di spazi nella città, una delle forme della governamentalità del nostro tempo.

Mentre ci interroghiamo sulla profonda crisi sistemica del capitale, mentre le nostre vite sono continuamente messe nella più completa precarietà ed insicurezza (di reddito, diritti, salute) ad opera di politici e poteri forti (finanza in primis), un episodio di “violenza urbana” come lo definirebbe una certa sociologia, rimbalza al centro dell’attenzione cittadina, riempie le nostre giornate, i tabloid locali, le parole infuocate di avventori da bar e politici da poltrona. Certo la morte suicida di poco tempo prima di una ex commerciante, distrutta da mutui e banche, che si era data la morte in centro storico, lanciandosi dalla terrazza del Mercato Coperto, aveva occupato ben poco posto nella sensibilità della cronaca e della politica locale.

Nella produzione di un ordine del discorso dominante, le notizie vengono selezionate, accorpate, differenziate: alcune violenze vengono risaltate, altre taciute o rimosse. Tutto è parte integrante del gioco: sta a noi decostruire, districare i fili, per non farci travolgere da questa criminale beffa.

Di chi è il centro storico? Capitalismo cognitivo e città

Tonnellate di libri sono stati devoluti al tema della trasformazione della città nella contemporaneità. Tra le critiche radicali più intelligenti allo spazio urbano i situazionisti hanno messo al centro i rapporti di potere, così come gli immaginari e gli affetti che strutturano la città stessa. Crediamo sia loro il primato di occuparsi dello spazio automobilizzato, come elemento dello spazio privato (la macchina) sottratto allo spazio pubblico. Le macchine e con essa la mobilità fisica, così come la rete come spazio virtuale hanno completamente trasformato lo spazio urbano.

Di fatto la mobilità è al centro della ristrutturazione del capitale e della nuova produzione cognitiva fatta di flussi di relazioni, affetti, saperi, comunicazione. Non più alcun luogo centrale, non c’è più l’isotopia della fabbrica come luogo della produzione, alla quale Foucault faceva poi corrispondere come strutture del comando fordista il carcere, l’ospedale, la scuola,. Il capitalismo cognitivo è in ogni luogo, diffuso, parcellizzato scomposto, vive dentro i flussi, dentro le reti, le relazioni e le mette a valore, ne capta il valore produttivo. La città non si struttura nella tradizionale dicotomia centro- periferia allora perché le forme del vivere, dell’abitare, del socializzare del produrre si muovono con modalità diverse dal passato e seguono questi flussi. Prendiamo ad esempio i grandi centri commerciali presi d’assalto da giovani teenager e famigliole, users sfrenati soprattutto nella stagione fredda. La città è pluricentrica, reticolare.

Al contrario cosa ne è del centro, il vecchio centro storico? Esso non è più un riferimento di vita relazionale, (o solo in minima parte), ma con la complicità dei poteri locali il centro è diventato esclusivamente un nodo importante nel flusso del consumo/produzione: dalla vecchia presenza dei tradizionali commercianti della Perugia, che anche con la loro invadenza hanno bypassato lo spazio pubblico-privato e notoriamente colonizzato lo spazio di tutti con tavoli, tavolini e tendoni per fare tra snack, pranzi e bevande ampio profitto, alle forme nuove ancora più aggressive dei tendoni pubblicitari onnipresenti, fino ad arrivare alle grandi kermesse dell’economia dell’evento.

E si perché oltre la vocazione turistica, che attira periodicamente sciami di turisti paganti, le politiche di marketing della città – prodotto dell’elegante sinergia di politici, imprenditori, multinazionali (vedi Nestlè), banche – si sono sintonizzati sulla produzione dei grandi spettacoli ed eventi, o anche hanno ridato nuovo vigore di profitto a quelle che già erano presenti sul territorio (Umbria cioccolate, Umbria jazz, etcc)

Tutto questo, mettendo ancora una volta a valore e sfruttando molteplici ingredienti, dalla cornice dello spazio medioevale – e sottraendola di fatto in questo ad una fruizione comune, dunque privatizzandola – alla storia locale, ma anche e soprattutto ad una quantità incredibile di forza lavoro di precari (impiegati a vari livelli) e non ultimi di studenti universitari, coinvolti di volta in volta nelle varie kermesse (l‘ultima è Fantasio Festival), e spesso retribuiti con … crediti formativi (ebbene sì, l’università come bacino di manodopera gratuita in questi anni – con la scusa della formazione – è stata una vera manna). Le varie lobbies godono del centro storico come rendita, proprio perché si impossessano non solo dello spazio pubblico (privatizzandolo), ma anche del valore dello spazio che è frutto della cooperazione produttiva (saperi, relazioni) che nel tempo ha prodotto e produce il centro quale esso è (lo spazio avrebbe detto Lefevbre non esiste di per sé ma è un prodotto sociale, vive delle relazioni sociali)

D’altra parte dal momento in cui il centro storico è stato da tempo gentrificato (ovvero gli abitanti delle classi popolari sono stati spostati nelle periferie, o meglio in zone di meno valore) la rendita immobiliare si pone come altro elemento importante in cui viene captato il valore dello spazio, attraverso la speculazione e gli incredibili affitti a scapito normalmente degli studenti che si aggirano per la cittadella universitaria. (Non c’è che dire l’Università è una bella impresa.)

Ma se la produzione si organizza intorno ai flussi, alla circolazione, alla mobilità, la stessa è evidentemente un altro tassello del mosaico ed una cartina tornasole per le condizioni di classe, di genere e di razza. Andare in centro per gli abitanti della città, dispossessati del centro storico, è sempre più problematico, a giudicare dalle righe blu poste in ogni luogo, i parcheggi salati, le multe altissime, i prezzi alti dei ticket dei bus, la pressoché inesistenza di mezzi pubblici nelle fasce serali e notturne (e accantoniamo al momento il progetto minimetrò, mezzo di trasporto pensato evidentemente non per i cittadini, ma per i consumatori della città evento-spettacolo e che si situa non a caso nella direttrice stazione-centro). 

Proibizionismo, e razzalizzazione del mercato illegale

Nel centro storico desertificato – dove ad esempio sono scomparsi i cinema storici, mercato ormai appannaggio delle imprenditorie che costruiscono multisale – sembra esserci perlopiù spazio solo per potenti business. E arriviamo alla nota dolente da cui eravamo partiti: il traffico di sostanze stupefacenti. L’acqua va dove c’è l’altra acqua dice un vecchio adagio (o anche i soldi seguono gli altri soldi). E deve essere proprio così perché l’Umbria non ha solo un primato di presenze turistiche tra le più importanti in Italia, ma ha anche un altro triste primato, quello che la colloca al primo posto come città per l’alto numero di overdose nel nostro paese: in altri termini il grande bazar della città è attraversato da complessi e reticolari flussi di mercato, legale e illegale.

Le politiche proibizioniste funzionano come sempre in maniera egregia: incrementano il mercato nero, i traffici illegali, producono massicci profitti di denaro per le narcomafie e rendono precarie e difficili le condizioni dei consumatori (gli assuntori non sono perlopiù in grado di controllare la sostanza assunta a causa delle continue variazioni di qualità e quantità della stessa, e ciò produce spesso effetti letali).

La rete del traffico è strutturata in maniera complessa: per le grandi quantità di sostanze pesanti in circolazione è impossibile non sospettare connivenze a diverso livello nella città, intrecciate da relazioni con i poteri forti. Una recente inchiesta su Perugia metteva in evidenza come il mercato del traffico alimentasse molti settori, professionali e non, come avvocati (che ad esempio si fanno pagare profumatamente da alcuni loro assistiti per… procurare loro un banale patteggiamento) o affittuari-strozzini di case. Un ampio giro di insospettabili borghesi benpensanti che approfittano del traffico illecito e parassitano sulle spalle dei venditori. D‘altra parte suona veramente come stonata e ipocrita la retorica moraleggiante di stampo giornalistico che concentra l’attenzione solo sui pusher, soffermandosi in alcuni casi sugli “alti” guadagni dei venditori. Come se il tipo di attività svolto non comportasse un tale aggravio di tensione e rischio (galera, botte, morte), da rendere impensabile un trattamento pecuniario differente da parte della malavita.

Ma come vengono selezionati gli attori ultimi del commercio illegale (ma i più visibili perché sono in strada)? Davvero troppo facile la risposta. La presenza dei migranti nel nostro paese è filtrata da politiche migratorie ad hoc. La clandestinizzazione, la presenza dei CIE, le restrizioni della mobilità, producono un effetto sul mercato del lavoro ben preciso: forza lavoro per impieghi dequalificati e mal pagati, bacino di manodopera per la criminalità. D’altra parte, i migranti si posizionano dentro le complesse forme della reti del lavoro mal pagato e illegale seguendo i flussi di relazione e occupando gli spazi che l’ideologia coloniale e razzista lascia aperti per loro nel mercato. In quest’ultimo sono in atto dispositivi di gerarchizzazione e razzalizzazione ferrea ovvero gli ultimi arrivati e quelli di pelle più scura, occupano i posti peggiori: nel caso dello spaccio in città i tunisini.

E se torniamo alla sera tra l’8 e il 9 maggio è interessante notare come molte delle retoriche ufficiali si concentrino sulla caccia al tunisino, mettendo in secondo piano la violenza del gruppo di albanesi spacciatori, che hanno per primi aggredito e ferito gravemente uno dei tunisini colpevole di avere invaso lo spazio di spaccio dell’altro gruppo. Singolare come nei giornali non vi sia neanche alcuna menzione dei luoghi dove, in particolare, si è scatenata la rappresaglia dei tunisini: le vetrine di alcuni locali tra i più rinomati del centro dove normalmente gli albanesi (bianchi) riforniscono la clientela più ricca.

 

Verso il grande hub. Per un’agorà delle lotte

 

Ecco Pai Mei, sono pronta!

(Kil Bill 2)

Occupy, le accampadas spagnole, le piazze del Maghreb. Nella lotta di classe contemporanea è di gran scena lo spazio urbano. Se, infatti, i flussi e la mobilità si situano nel cuore della scomposizione e frammentazione del lavoro contemporaneo, dispositivi che operano per lo sfruttamento, ma nel contempo per il controllo sociale, fermarsi e riprendere la scena dello spazio urbano, produrre oltre il pubblico e il privato uno spazio comune di vita di relazione di lotta è per molti la scommessa.

Dal nostro piccolo e situato angolo visuale osserviamo dentro la cartografia della locale resistenza cittadina, ovunque nodi, tensioni, forme di aggregazione, di cooperazione, di vita che si stanno riproducendo. Squarciata la veste ideologica della sicurezza, operosi e gioiosi, tasselli di un mosaico in divenire stanno lavorando nella direzione di ricostruire un’altra città comune dal basso. Dentro questa intelligente tensione le molteplici attività reticolari si trovano sempre in continua tensione tra pratiche costituenti e dispositivi di captazione e controllo biopolitico sempre in atto.

In questo contesto produrre inchiesta militante si pone oggi come un compito indispensabile per ricostruire le trame, riannodare i fili, costruire e contaminare relazioni, tradurre i linguaggi. La rendita urbana, il paradigma securitario e le sue declinazioni in chiave di genere, razza e classe, il proibizionismo e i suo effetti devastanti, sono alcuni dei temi centrali da indagare dentro un lavoro di conricerca teso a costruire un altro paradigma etico-politico che sia frutto di una sinergica coalizione delle resistenze, delle reti, delle differenze.

Verso un’agorà delle lotte e la città comune a venire delle nuove cittadinanze.

 

 

 

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