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Voltiamo pagina – Indagine sul lavoro atipico nel settore editoriale di Rete dei Redattori Precari

 

di REREPRE

Pubblicata sui Quaderni di San Precario nr. 2, maggio 2011

Una premessa a posteriori: appunti sullo stato dell’arte due anni dopo

Rileggere oggi, a distanza di quasi due anni, il testo Voltiamo pagina: indagine sul lavoro atipico nel settore editoriale, pubblicato sul secondo numero dei Quaderni di San Precario dalla Rete dei redattori precari, fa uno strano effetto. Era il 2011: la Rete in quei mesi stava preparando insieme a San Precario l’incursione al Salone del Libro di Torino, e le persone che ne facevano parte, seppur insicure e titubanti,  erano animate dalla rabbia e dal desiderio di uscire dal cono d’ombra del proprio lavoro invisibile e precario.

 Cosa è cambiato in questi due anni? E cosa è rimasto uguale?

In queste pagine si sente forte la voglia di esserci e di mostrare le reali condizioni del lavoro nel settore editoriale (l’intento di denuncia); oggi possiamo dire che i momenti di visibilità – seppur irrigiditi dalle logiche del carrozzone mediatico, che danno spazio alla precarietà soltanto se accompagnata da  lamenti o urla, senza approfondire i contenuti – sono stati parecchi.

Lo scenario in cui oggi ci muoviamo è a grandi linee lo stesso del 2011, benché la situazione del lavoro editoriale sia andata peggiorando a causa delle recenti ristrutturazioni editoriali e della crisi, che è il nostro orizzonte comune degli ultimi anni. Sul fronte legal-cospirat(t)ivo, si è aperta qualche vertenza attraverso il punto San Precario, e gli incontri allargati tenutisi al Piano Terra hanno visto la partecipazione di decine e decine di redattori precari. Inoltre il pressing della Rete sul sindacato (Slc-Cgil)  sta dando i suoi primi (modesti ma importanti) frutti sia a livello nazionale (molto ci aspettiamo dalla prossima contrattazione collettiva, ormai alle porte) sia sul territorio bolognese; a Milano, invece, permangono alcune difficoltà di coordinamento e interlocuzione con i referenti della Camera del lavoro.

In generale, fra i precari dei libri sembra si sia diffusa una certa consapevolezza della propria condizione, perché l’acuirsi della crisi e le ristrutturazioni aziendali (con conseguenti mancati rinnovo o “richieste” di apertura di p.iva) hanno obbligato tutti i lavoratori del settore a prendere atto della fragilità della propria posizione e del ricatto subito per continuare a fare un lavoro che, nonostante tutto, appassiona.

Inoltre, a distanze di due anni, è stato possibile raccogliere molti più dati rispetto ai numeri che compaiono nell’articolo: nell’estate del 2012, con un lavoro di autoinchiesta nei due maggiori gruppi editoriali italiani (fino a quando, viene da chiedersi viste le recenti manovre del Gruppo Rcs), siamo arrivati a “mappare” i oltre 300 lavoratori atipici dell’editoria su Milano – sono dati in corso di elaborazione, e che in pochi mesi sono già diventati vecchi. In aggiunta a ciò, L’IRES Emilia Romagna, con l’aiuto di  Rerepre, ha lanciato l’indagine nazionale “Editoria invisibile”, di cui presto dovremmo avere i risultati (sono stati raccolti più di mille questionari).

Tuttavia, nonostante la crescita della rete, la maturazione delle persone che ne fanno parte, nonostante i passi in avanti, la situazione – va detto –  è quanto mai desolante.

Non ci soffermiamo sul difficile contesto in cui ci troviamo a cercare di tessere, pazientemente, una rete comune. Vorremmo solo sottolineare quello che non è successo: è venuto a mancare il riconoscimento, da parte di una larga parte di precari dell’editoria, anche fra quelli intercettati dalla Rete, di un’appartenenza comune della propria condizione soggettiva, ed è quindi mancata la presa di coscienza della necessità di agire insieme su un fronte comune. Stiamo assistendo ora a un caso limite in tal senso, quello di una parte di precari del Gruppo Mondadori che sta cercando disperatamente di aprire una trattativa con l’azienda, occupandosi solo di una certa tipologia di precari (quindi precari più “interni”, di serie A VS precari più “esterni”, di serie B) e proponendo all’azienda di farsi assumere con un contratto a tempo indeterminato più snello (meno tutele, meno salario), in deroga al CCNL di categoria.

Ma anche senza scendere nel dettaglio di casi specifici, in generale si evidenzia come la presa di consapevolezza si sia tradotta più che altro in un calcolo individualistico; o, in altri casi, abbia preso la forma di una fiammata di indignazione, subito spentasi in una palude di pessimismo e inerzia.

Mentre la Rete continua a tessere relazioni, a porsi come baluardo resistente, a tentare di incidere in tutte le forme possibili, viene da chiedersi che cosa ancora non funzioni nel discorso sul e nel precariato, e se quella che stiamo percorrendo è la strada giusta per un risveglio culturale e una lotta collettiva. Resta però, con tutta la sua urgenza, l’attività da portare avanti nei luoghi di lavoro, che spesso ci distoglie da una approfondita e spregiudicata riflessione su quello che è e invece potrebbe (dovrebbe?) essere il nostro ruolo in un contesto che percepiamo nel migliore dei casi come asettico, nel peggiore come ostile.

C’è, quindi, bisogno di nuove energie, materiali e mentali; come Rete abbiamo bisogno di percepire attorno a noi, alla nostra attività, qualche fermento (della società, di altre realtà, altri soggetti). Perché nell’attività di una (aut)organizzazione a partecipazione orizzontale, poco strutturata e (proprio per questo?) così fragile come la nostra, bisogna sempre tenere con forza la barra a dritta, ma è altresì necessario che sul mare soffi un alito di vento per poter navigare…

ReRePre, febbraio 2013

INTRODUZIONE

Nonostante la crisi e la contrazione generale dei consumi, l’editoria libraria se la passa leggermente meglio rispetto ad altri settori economici, riscontrando comunque un lieve calo sia nella produzione (-0,5% tra il 2007 e il 2008, con oltre 58.000 titoli nel 2008, ultimo anno per il quale sono disponibili dati definitivi) sia nel fatturato. Nel 2009, infatti, l’editoria italiana ha fatturato 3,4 miliardi di euro, con un calo del 4,3% rispetto all’anno precedente. Crescono però alcuni settori (come i libri per ragazzi) e alcuni segmenti strategici (in particolare la distribuzione libraria e digitale). Il primo semestre del 2010, invece, ha fatto riscontrare una crescita del mercato pari al 2,1% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il numero dei lettori, inoltre, sembra in leggero aumento (+1,1% nel 2009). Sono dati forniti dall’AIE, l’associazione di categoria degli editori italiani, sempre sollecita nel comunicare cifre apparentemente entusiasmanti su tirature e nuovi canali di distribuzione.[1]

Ma se le case editrici italiane, rispetto ad altri tipi di aziende, non possono certo piangere sangue (considerando soprattutto la crisi economica generale e lo scarso bacino di lettori del Belpaese), come se la passano invece i lavoratori coinvolti nel settore? Quanta parte di questa ricchezza arriva nelle tasche di chi i libri li fa? È questa la domanda che si è posta Rerepre, la rete dei redattori precari.[2] Per rispondervi, abbiamo “shakerato” dati più o meno ufficiali e dati empirici, che abbiamo raccolto coinvolgendo redattori di diverse case editrici.

COME FUNZIONA UNA CASA EDITRICE

Prima di iniziare a parlare di occupazione e precarietà in editoria, ci sembra però utile fare un passo indietro e fornire una panoramica chiara, anche se necessariamente sintetica, della filiera editoriale. Come funziona una casa editrice? Quali figure professionali coinvolge?

Ogni casa editrice, in quanto azienda, ha una propria struttura e una propria gerarchia, che dipendono dalle dimensioni e dalla tipologia di libri pubblicati. Generalizzando, possiamo dire che una casa editrice si divide in cinque aree: redazione, ufficio tecnico, ufficio marketing/commerciale, ufficio stampa e ufficio diritti. A capo di tutti, al di sotto dell’editore vero proprio, cioè la persona o la società che possiede o controlla l’azienda, vi è un direttore editoriale (nelle case editrici molto grandi, però, fra l’editore e il direttore editoriale si inseriscono altre figure, come il capodivisione). Il direttore editoriale decide il piano editoriale dell’azienda, i libri e gli autori da acquisire e stabilisce il budget a disposizione per ogni opera.

All’interno della redazione la figura principale è l’editor, che prepara il calendario delle opere, si interfaccia con l’ufficio commerciale e soprattutto tiene i contatti con gli autori, assistendoli nella stesura dell’opera e discutendo gli aspetti contenutistici. L’editor, inoltre, si occupa anche di scouting (ricerca e selezione dei manoscritti). Al di sotto dell’editor troviamo il caporedattore che, dialogando con gli editoriali (direttore editoriale, direttore di collana, senior editor, junior editor) e con gli altri uffici (tecnico, diritti, marketing), sceglie e coordina i fornitori che dovranno lavorare ai libri: redattori, correttori di bozze, ricercatori iconografici, disegnatori, eventuali revisori e consulenti (figure specializzate in una data materia). Talvolta si può anche occupare del budget del singolo libro e dei pagamenti ai fornitori. In alcune case editrici, però, le figure dell’editor e del caporedattore possono coincidere.

L’ufficio tecnico si occupa di tutto ciò che non è “contenuto”, in particolare dell’impaginazione, degli aspetti grafici (l’art director – grafico editoriale – fa di solito parte dell’ufficio tecnico), della cartotecnica e della gestione delle relative voci di spesa.

L’ufficio marketing/commerciale agisce su due livelli: da un lato ha il compito di analizzare le tendenze del mercato e di riferirle al direttore editoriale, dall’altro si occupa di studiare e attuare le strategie pubblicitarie e di distribuzione. L’ufficio commerciale, infine, stabilisce la tiratura del libro e il prezzo di copertina.

Nella delicata fase di propaganda l’ufficio marketing è coadiuvato dall’ufficio stampa, che mantiene i contatti con i mass media, invia le primissime copie del libro ai giornalisti, organizza presentazioni e partecipazioni a festival e premi letterari.

Vi è infine l’ufficio diritti e contratti, che si occupa da un lato dell’acquisizione dei diritti di un’opera e della vendita dei diritti di pubblicazione all’estero (nonché dei diritti cinematografici), e dall’altro della preparazione dei contratti di edizione e di traduzione degli autori, dei traduttori e dei collaboratori non redazionali (autori di introduzioni, curatele ecc.).

Le ultime fasi della filiera sono la stampa e la distribuzione, svolte entrambe da soggetti esterni all’azienda. Dopo di che il libro, promosso da una rete di rappresentanza, è pronto per raggiungere i vari punti vendita: librerie indipendenti e di catena, supermercati, edicole, musei, distributori on line.

All’esterno dell’azienda restano quindi sia figure “a monte” (autori e traduttori) sia figure “a valle”, come stampatori e distributori. Come vedremo più avanti, però, l’esternalizzazione di alcune fasi della lavorazione ha fatto sì che restassero esclusi dagli organigrammi delle case editrici anche alcuni ruoli professionali strettamente legati al libro: redattori, correttori, impaginatori, ricercatori iconografici, talvolta persino editor, responsabili di ufficio stampa, dell’ufficio diritti, segretarie ecc.

CONCENTRAZIONE ED ESTERNALIZZAZIONE

Negli ultimi decenni due fenomeni di ampie proporzioni hanno rivoluzionato sia le strutture aziendali sia le dinamiche lavorative in ambito editoriale. Questi due fenomeni (o macrotendenze) sono la concentrazione dei marchi editoriali sotto l’ombrello di gruppi sempre più grandi e influenti, e l’esternalizzazione di alcuni processi lavorativi al di fuori delle aziende.

La concentrazione dei marchi non riguarda soltanto l’editoria, ma anzi tocca diversi settori economici, e in generale provoca un crescente divario tra grandi aziende e piccole aziende. L’obiettivo dei proprietari è l’adozione di strategie tipiche della grande industria, in particolare le economie di scala (quando all’aumentare della produzione diminuisce il costo medio unitario di produzione: nel nostro caso, più libri si producono, meno costa produrre il singolo libro).

Come spiega Florindo Rubbettino su “L’Acropoli”:

Come in altri ambiti dell’economia globale, chi sceglie la via della concentrazione rinuncia alle differenziazioni e tende all’omologazione. Chi sceglie la via della frammentazione, al contrario, tende a esaltare le differenze e a fare di esse il vero punto di forza. Il mercato editoriale italiano rispecchia questa bipartizione, con la presenza di grandi gruppi editoriali da un lato e la presenza di una costellazione di medi e piccoli editori indipendenti dall’altro. La tendenza alla concentrazione fa però sì che la gran parte delle quote di mercato sia appannaggio dei grandi gruppi, rendendo l’offerta culturale differenziata poco visibile. Nel 1981 in Italia 74 editori detenevano il 55% del mercato, nel 1989 il 50% delle vendite faceva capo a otto editori. Se guardiamo ai dati di vendita più recenti la situazione è ancora più eloquente: quattro gruppi editoriali (Mondadori, Rizzoli, De Agostini, Messaggerie Italiane) e circa cinquanta case editrici indipendenti di dimensione media raggiungono il 90% del giro d’affari del mercato librario.[3]

I piccoli e medi editori, quindi, esistono ancora, ma incontrano crescenti difficoltà nell’accesso alle librerie (sempre più spesso controllate dai grandi gruppi editoriali).

L’avvio della concentrazione editoriale in Italia risale agli anni Settanta (complice anche la crisi di mercato tra il 1977 e il 1984), ma a oggi non è affatto cessata: fusioni e acquisizioni sono ancora all’ordine del giorno. È del 2009, per esempio, l’acquisizione da parte del gruppo Gems, che già controllava o partecipava in 14 marchi, del 35% di Fazi. Le strutture tradizionali dell’editoria italiana non hanno retto alla sempre maggiore concorrenza del mercato. Dagli anni Settanta e Ottanta molte case editrici si sono trovate in difficoltà e sono state via via fagocitate dai grandi gruppi. In questo modo i gruppi editoriali ampliano la loro influenza e conquistano segmenti di mercato sempre più cospicui, controllando anche snodi strategici della filiera editoriale (l’accesso alla distribuzione è un aspetto vitale: pensiamo, per esempio, alla rete capillare di librerie Feltrinelli, Mondadori e Giunti sul suolo nazionale, oppure al legame tra il gruppo Gems e la maggiore rete di distribuzione, Messaggerie).

La concentrazione dei marchi, se da un lato permette il salvataggio finanziario di realtà editoriali in difficoltà (alcune anche di lunga storia e grande prestigio, come Einaudi e Adelphi, tra le altre), dall’altro mette in pericolo l’identità culturale delle singole case editrici e la differenziazione dell’offerta editoriale, limitando quindi l’innovazione culturale (la voglia e la possibilità di puntare su nuovi autori, poco noti o sconosciuti al grande pubblico). L’accentuazione degli aspetti di marketing e la sempre crescente caccia al bestseller, alla moda del momento, vanno a braccetto.[4]

L’esternalizzazione, invece, riguarda la trasformazione dei processi lavorativi. Tale trasformazione, nel bene e nel male, è stata resa possibile dalle nuove tecnologie: computer, Internet e server esterni permettono una maggiore autonomia dei collaboratori editoriali (occasionali, parasubordinati e liberi professionisti) e una maggiore frammentazione del lavoro in microfasi, che possono essere eseguite da persone diverse anche a distanza.

Se un tempo, infatti, le case editrici cercavano di esaurire tutte le fasi di lavorazione al loro interno (includendo a volte perfino la stampa), oggi la tendenza è quella di esternalizzare i lavori il più possibile. Redattori, correttori di bozze, impaginatori, ricercatori iconografici, revisori redazionali, traduttori ecc. sono sempre più spesso figure esterne alla casa editrice. Inizialmente si trattava di fornitori singoli che il caporedattore aveva il compito di coordinare, ma negli ultimi anni la tendenza è stata quella di appaltare interamente alcune opere a studi editoriali (o service), che a loro volta si avvalgono di figure esterne.

L’obiettivo dell’azienda, chiaramente, è quello di tagliare i costi fissi del personale, riducendo all’osso il numero dei lavoratori assunti (che infatti spesso rappresentano una percentuale bassissima sul totale dei lavoratori).

La casa editrice risparmia sui cosiddetti costi fissi (stipendi e contributi previdenziali da pagare ogni mese) e quando le vendite vanno male basta interrompere un rapporto, per poi magari riprenderlo quando l’aria si rasserena.[5]

Il tutto, ovviamente, a scapito della stabilità lavorativa e della serenità dei collaboratori, che spesso si vedono rinnovare i contratti di tre mesi in tre mesi. Molto spesso, inoltre, queste figure professionali “esterne” si trovano a lavorare più o meno stabilmente all’interno dell’azienda, e anzi talvolta lavorano a tutti gli effetti come i dipendenti assunti: con gli stessi orari di lavoro e utilizzando spazi e mezzi della casa editrice (scrivania, computer, telefono, mail), ma con diversa retribuzione e diversa tipologia di contratto. Si tratta infatti di lavoratori precari che non godono affatto, o godono in misura ridotta, dei diritti riconosciuti ai lavoratori assunti − ferie pagate, malattia, maternità, contributi assistenziali, liquidazione −, pur svolgendo le stesse ore di lavoro all’interno dell’azienda (se non di più: e senza straordinari pagati!). A volte i collaboratori riescono a tutelare la propria autonomia, lavorando come esterni “puri” e presentandosi in casa editrice solo quando strettamente necessario; ma nella maggior parte dei casi, soprattutto nei periodi di intensa produzione e nel caso di libri complessi che richiedono una certa dose di lavoro di squadra, la loro presenza è richiesta tutti i giorni della settimana.

Inutile dire che la strategia di molte aziende è duplice: sfruttare il lavoro precario e sottopagato, e al contempo accentrare il lavoro in redazione, anche per una questione di comodità e velocità dei processi produttivi. Così facendo, di questa finta autonomia ai precari restano solo gli aspetti negativi: retribuzioni al limite della vergogna (spesso molto al di sotto dei 1.000 euro al mese) e forte restrizione dei diritti.

LA NOSTRA INDAGINE SUL CAMPO

È impossibile avere dati ufficiali che permettano di confrontare la percentuale di redattori assunti e la percentuale di contratti precari. L’AIE, nei suoi rapporti annuali, preferisce ignorare il problema della precarietà, e i singoli editori sembrano poco inclini alla collaborazione. Anche se in ambito editoriale non esiste ancora un limite stabilito per legge (o per contratto nazionale) all’utilizzo di contratti precari, è comprensibile che gli editori non vogliano rendere pubbliche le loro vergogne. I sindacati, infine, stanno iniziando a interessarsi al problema solo oggi, con un ritardo di circa 15 anni.

Abbiamo quindi dovuto sopperire alla mancanza di dati ufficiali con dati empirici rilevati nelle realtà editoriali a noi note, coinvolgendo amici, conoscenti, sostenitori di Rerepre. Si tratta quindi, per forza di cose, di un’indagine molto parziale e ancora in progress.

Per cercare di essere il più precisi e trasparenti possibile e per risolvere le difficoltà materiali che via via si presentavano, ci siamo posti diversi interrogativi metodologici. Quali tipi di contratto possiamo conteggiare come precari? Dobbiamo considerare anche la costellazione di studi editoriali che lavora con una certa casa editrice? (Ma è impossibile fare i conti in tasca a società esterne!) Come contare le persone che lavorano solamente come esterni “puri”, e quindi difficilmente rintracciabili? Non sarebbe più semplice conteggiare soltanto i precari che lavorano con le stesse condizioni degli assunti?

Alla fine si è stabilito di conteggiare i contratti a tempo determinato, i cocopro, le partite IVA obbligate e gli stage dei collaboratori che sono presenti in casa editrice abbastanza stabilmente (quasi tutta la settimana, pur non avendo – in teoria – alcun obbligo di orario). Inoltre abbiamo preferito concentrarci sulla figura professionale che meglio conosciamo, il redattore, per una questione di omogeneità dei dati, cioè per meglio confrontare redattori assunti e redattori precari: l’esternalizzazione e la precarizzazione del rapporto di lavoro, infatti, hanno toccato molto meno alcuni uffici, come per esempio il marketing e l’amministrazione (la ragione è semplice: è molto più difficile cambiare gli addetti all’amministrazione ogni 3, 6, 10 mesi, dovendoli poi istruire da capo). Le realtà che abbiamo potuto osservare, per quanto ben lungi dal coprire l’intero panorama editoriale italiano, ci sembrano comunque rappresentative di un malessere che si sta sempre più diffondendo e incancrenendo nel nostro settore.

Che cosa è emerso, quindi, dalla nostra indagine sul campo?

  • Adelphi. In redazione compaiono 7 assunti, 1 freelance legato alla casa editrice da molto tempo (in posizione privilegiata rispetto ai giovani precari) e 12 collaboratori. Di questi, 6 hanno contratti cocopro rinnovati da 5, 10, 15 anni, e 6 hanno partite IVA monocommittente (cioè lavorano quasi esclusivamente per Adelphi).
  • Chiarelettere. In redazione sono presenti stabilmente 3 cocopro, 1 stagista e 2 assunti (l’editor e il direttore editoriale). Inoltre altri 5 collaboratori esterni vengono impiegati come correttori di bozze.
  • DeAgostini Scuola. In redazione sono presenti stabilmente (con l’obbligo di lavorare in azienda) 13 redattori a progetto. I redattori assunti sono 18.
  • Mondadori (Oscar). Nella sola redazione compaiono 6 assunti (1 caporedattore e 5 redattori), 9 cocopro con fisso mensile, 10 cocopro pagati a cottimo (cioè a cartella) e 1 collaboratore con partita IVA. Più decine di collaboratori esterni che collaborano più o meno saltuariamente con la redazione.
  • Mondadori Education. Complessivamente, nelle sedi di Milano e Firenze, ci sono 31 redattori assunti (senza considerare gli editor a capo delle diverse aree) contro 31 redattori atipici interni o “semi-interni”. Impossibile contare i collaboratori esterni, che talvolta vengono impiegati per pochi mesi all’anno.
  • Piemme. In questo caso non abbiamo i dati della sola redazione, bensì i dati aggregati dell’intera azienda: 56 dipendenti assunti, 27 collaboratori, 2 interinali. Vale a dire che il 34% dei lavoratori è precario.
  • Rcs (Rizzoli-Bur). Entrambe le aree hanno un unico direttore editoriale, naturalmente assunto. All’interno di ogni redazione, la realtà si presenta piuttosto composita: 19 assunti (editor, caporedattori, segretarie di redazione), 17 cocopro (9 redattori, 6 junior editor, 2 caporedattori), 2 interinali, 4 stagisti e 1 partita IVA monocommittente. Inoltre 20 collaboratori esterni si alternano nella correzione di bozze e seguono, a volte, l’intera redazione del testo. L’intera divisione Libri conta al suo interno: 188 dipendenti, 21 interinali, 18 stage. L’azienda non fornisce i dati dei collaboratori a progetto.

In totale, senza contare Piemme di cui abbiamo solo i dati aggregati e l’intera divisione Libri Rcs: 83 assunti, 104 precari che lavorano per lo più come interni e decine di collaboratori esterni. Sono dati che si commentano da soli, e che mostrano la netta prevalenza del lavoro precario su quello stabile e tutelato. Le redazioni, quindi, sono in molti casi composte quasi interamente (o per lo meno per la maggior parte) da precari, più o meno giovani, più o meno assuefatti, più o meno felici della loro “autonomia”.

Un altro dato che ci sembra significativo è quello fornito dal Master per redattore in editoria libraria organizzato da Fondazione Mondadori, AIE e Università Statale di Milano. Si tratta della rilevazione occupazionale sottoposta ogni anno agli ex studenti. I dati sono disponibili sul sito della Fondazione[6], per cui possono essere considerati come certi e ufficiali, e si riferiscono alle annate 2002-2008.

Ebbene, come se la passano gli ex studenti di uno dei master più prestigiosi del settore? Non troppo bene, se consideriamo che su un totale di 143 studenti delle prime 7 annate (2002-2008, appunto) solo 17 (cioè il 12%) sono assunti a tempo indeterminato: il resto, cioè l’88% degli ex studenti, si suddivide tra cocopro (63), collaborazioni occasionali (17), contratti a tempo determinato (16), tirocini retribuiti (15), partite IVA (11), contratti di apprendistato (2), contratti d’autore (1) e stage (1). Da rilevare, inoltre, che la quota degli assunti proviene per intero dalle primissime annate del master: 5 del 2002, 6 del 2003, 5 del 2004, 1 del 2005, 0 tra il 2006 e il 2008. Risulta quindi più che chiara la politica occupazionale degli ultimi anni da parte delle case editrici, complice anche la crisi economica generalizzata.

Se poi a questi dati ufficiali forniti dalla Fondazione Mondadori sommiamo i dati degli studenti del 2009, da noi contattati privatamente, la situazione appare ancora più fosca. I 22 ragazzi del 2009, infatti, presentano le seguenti situazioni lavorative: 15 cocopro, 2 partite IVA obbligate, 1 persona che vivacchia di collaborazioni occasionali, 1 persona in stage e infine, miracolosamente, 3 ex studenti assunti. Sommando i dati del 2009 a quelli forniti dalla Fondazione Mondadori per le annate precedenti (ipotizzando quindi che nel frattempo la situazione delle annate 2002-2008 non sia cambiata in modo significativo), otteniamo questi risultati totali: 78 cocopro, 20 contratti a tempo indeterminato, 18 collaborazioni occasionali, 16 contratti a tempo determinato, 15 tirocini, 13 partite IVA obbligate, 2 stage, 2 contratti di apprendistato, 1 contratto d’autore. Tirando ulteriormente le somme: 20 assunti contro 145 precari.

CONCLUSIONI

Dalla breve (e ripetiamo, parziale) panoramica che abbiamo presentato, appare chiaro come l’esternalizzazione e la precarizzazione degli ultimi 15 anni in ambito editoriale siano state portate all’esasperazione, in nome di un indiscriminato taglio dei costi fissi (e il costo del lavoro è senz’altro quello più facile da erodere). Questa politica economica ci sembra miope, oltre che irrispettosa nei confronti dei lavoratori. Miope perché sacrifica la qualità del lavoro (oltre che della vita) sull’altare della flessibilità: come si può chiedere a un lavoratore fedeltà al marchio, voglia di portare nuove idee e nuovo entusiasmo, quantità e insieme qualità, se in cambio non lo si mette nella condizione di arrivare alla fine del mese? Per quanto tempo ancora potremo sostenerci con il solo entusiasmo – tra l’altro sempre più labile, visto il perdurare di situazioni di forte disagio lavorativo –, con il senso di realizzazione che ci dà il lavoro che nonostante tutto amiamo e in cui crediamo, se non possiamo accendere un mutuo, mettere via dei risparmi, avere un orizzonte di vita e una progettualità più ampi rispetto ai pochi mesi di un contratto a progetto?

Al contrario, veniamo messi nelle condizioni di dover ringraziare la mano che ci affama: perché spesso non abbiamo alternative praticabili, e perché ci hanno abituato a pensare che lavorare in editoria, “fare i libri”, sia un privilegio, un lavoro di prestigio, e come tale vada accettato a qualsiasi condizione. Sono queste le illusioni che corsi e master di ogni tipo alimentano, ma poi la realtà lavorativa si rivela ben diversa. Una realtà fatta di migliaia di lavoratori e lavoratrici editoriali precari, giovani e meno giovani, la cui vita è interamente assorbita da un lavoro alienante (10-12 ore al giorno nei periodi di più intensa produzione) e da un senso di insicurezza materiale ed esistenziale che si protrae per anni, talvolta per decenni.

Il lavoro editoriale, oggi in Italia, è un lavoro per ricchi: fra i precari, può sperare di continuare a farlo solo chi ha una rete familiare su cui contare, che integra uno stipendio misero, che viene in aiuto nei mesi di disoccupazione o sotto-occupazione. Anche in questo settore, quindi, si verifica quell’erosione del patrimonio economico familiare che si può riscontrare in tanti altri, in particolare in quei settori che hanno a che fare con la cultura e i saperi: scuola, arti, informazione. Crediamo che un paese che trascura il benessere dei lavoratori, e quindi la qualità del lavoro, in settori così importanti per il panorama culturale ed educativo sia un paese che non ha rispetto per il proprio futuro.

Che cosa chiediamo quindi?

Chiediamo regole chiare, che mettano un freno allo sfruttamento indiscriminato dei contratti atipici, di cui gli editori hanno potuto usufruire indisturbati negli ultimi due decenni.

Chiediamo di essere pagati in modo equo, perché il nostro lavoro è un valore (umano e professionale) che produce plusvalore (economico) per l’azienda, e non un costo fisso sacrificabile.

Chiediamo contratti che ci permettano di maturare contributi pensionistici, ferie, malattie pagate, TFR. Per non parlare del grande tabù del lavoro femminile: la maternità. Da rilevare, a tal proposito, l’altissima percentuale di donne impiegate come collaboratrici nel settore editoriale.

Chiediamo, infine, che in questo paese vengano prese misure adeguate per sostenere sia la continuità di reddito sia la costruzione di un nuovo tipo di welfare, che garantisca a tutti libero accesso alla formazione, alla mobilità, alla sanità e agli altri servizi e beni essenziali di un vivere che si vuole davvero civile.



[1] AIE, Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia 2010. Una sintesi è disponibile on line sul sito www.aie.it

[2] www.rerepre.org

[3] Florindo Rubbettino, “L’Acropoli”, XI, n. 4, luglio 2010: http://lacropoli.it/articolo.php?nid=303

[4] Il legame tra concentrazione e controllo dell’informazione è stato approfondito, in particolare, da André Schiffrin nel libro Il controllo della parola, Bollati Boringhieri, 2006.

[5] Dario Moretti, Il lavoro editoriale, Laterza, Roma-Bari, 2005, p. 61.

[6] http://www.fondazionemondadori.it

 

 

 

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