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La costituzione della discordia

 

di PAOLO GERBAUDO

“La lil-diktaturia” – no alla dittatura, è lo slogan che compare su pagine Facebook, su siti web, e sui cartelli dei manifestanti radunati a Tahrir e davanti al palazzo presidenziale. Il presidente egiziano Mohammed Mursi è stato costretto a un’umiliante fuga, il 4 dicembre, per mettersi al riparo da una possibile irruzione dei manifestanti. “No al dittatore”, “No a Mursillini”, “No a Mursi Mubarak”, “No al nuovo faraone”, è il grido della folla radunata per protestare contro il colpo di mano costituzionale voluto da Morsi.

I governanti dell’Egitto sono cambiati. Mubarak e la giunta militare (il cosiddetto SCAF, acronimo di Supreme Council of Armed Forces) hanno fatto spazio al potere in ascesa dei Fratelli Musulmani, sancito dal voto popolare. Ma ad appena 4 mesi dall’inizio del mandato del nuovo presidente Mohammed Mursi, per il popolo di Tahrir lo scenario è di nuovo quello dello scontro frontale: piazza contro palazzo, movimento contro Stato. Mursi è “illegittimo”, un “dittatore”, “un tiranno” affermano al’unisono leader politici, attivisti, giornali di sinistra e i cori di manifestanti radunati nel centro del Cairo. E la nuova costituzione, completata in fretta e furia il 29 novembre dall’assemblea costituente, e pronta per il referendum confermativo fissato per il 15 dicembre è una “truffa”, un “insulto alla rivoluzione”, che disonora quei 1.000 e più martiri morti nella speranza di un Egitto migliore. Un Egitto con “pane, libertà e giustizia sociale” cosi come espresso nel principale slogan della rivoluzione.

Le costituzioni rivoluzionarie dovrebbero essere il momento in cui abbattuto il vecchio regime, con le sue pratiche corrotte e con le sue leggi inique, il movimento rivoluzionario istituzionalizza una nuova cornice di legalità, stabilisce un ampio consenso sulle regole fondamentali del vivere comune, e definisce un equilibrio di poteri per quanto temporaneo e aperto a future modifiche riformiste o rivoluzionarie.

La battaglia che in questi giorni e in queste ore si sta svolgendo sull’asfalto di Tahrir e nei corridoi dei palazzi del potere egiziano restituisce un’immagine meno edificante e molto più conflittuale di quello che significa un processo costituente. Il processo di “scrittura” della nuova costituzione egiziana, si sta svelando non come il momento fondativo di un nuovo corpo politico, tenuto assieme da un senso di solidarietà e di comune appartenenza al di là delle differenze culturali e politiche. Al contrario, la nuova costituzione è diventata un campo di battaglia tra movimento rivoluzionario e presidente neo-eletto. Un conflitto che sta esacerbando (invece che trascendendo) tutte le divisioni che già esistono dentro la complessa società egiziana. E in particolare la divisione tra destra religiosa, e sinistra laica, tra Fratelli Musulmani e tutti gli altri, in un paese in cui l’eredità della rivoluzione del 25 gennaio, il suo significato e le sue conseguenze rimangono un oggetto di disputa.

La terza ondata della rivoluzione

In gioco in questi giorni è il futuro assetto politico dell’Egitto e il destino di quell’egemonia che i Fratelli Musulmani (in arabo ikhwan muslimin o semplicemente ikhwan) consideravano oramai acquisita. Ma non avevano fatto i conti con l’oste, con la capacità di resistenza maturata in 22 mesi di scontro di piazza, e con la cultura anti-autoritaria che è maturata in questo periodo. Siamo di fronte a quella che in molti ormai vedono come la “terza ondata della rivoluzione egiziana”: la prima ondata fu quella che portò alla caduta di Mubarak; la seconda quella che vide il movimento confrontarsi con la giunta militare a lui succeduta; e infine la terza, quella attuale, che vede i rivoluzionari opposti al nuovo Stato islamista dei Fratelli Musulmani.

L’esito di questa ondata è tutt’ora indeciso, la partita è aperta. Ma i Fratelli Musulmani hanno buone ragioni per avere paura di perderla. Questa è una crisi che in buona parte si sono fabbricati con le loro stesse mani. Il presidente Mursi ha dimostrato arroganza, e mancanza di senso del limite, nel gestire il potere appena conquistato. Sin dalla sua elezione è venuto meno alle promesse solenni fatte in campagna elettorali, tra cui quella di nominare un vice-presidente donna e un vice-presidente cristiano e di prendere le decisioni consultando personalità dell’opposizione e della società civile. Durante l’ultima fase del processo di scrittura della costituzione il presidente e il suo partito hanno continuato a ignorare le lamentele di liberali, socialisti e attivisti di piazza, rifiutandosi ostinatamente di fare quelle concessioni, su diritti delle minoranze religiose, delle donne, e per la libertà di espressione, che avrebbero potuto (forse) guadagnarli la non-belligeranza dell’opposizione politica e sociale.

Di fronte alle ripetute lamentele di chi denunciava il carattere settario della costituzione, la sua incapacità di accogliere le domande della rivoluzione, e in particolare le sue domande sociali, gli ikhwan hanno continuato a sostenere che il responso del voto parlamentare del novembre 2011, in cui i Fratelli incassarono il 50% dei seggi, mentre gli alleati Salafiti conquistarono un altro 25%, li autorizzava a fare e disfare a loro piacimento il nuovo assetto istituzionale. Ma lo sbandieramento di questa idea rozza e plebiscitaria di democrazia, all’insegna del winner takes all ha messo in moto un’ondata di dissenso, che rischia ora di azzoppare sin dall’inizio la presidenza di Mohammed Mursi, e forse pure di mettere in gioco il ruolo dei Fratelli Musulmani come forza guida del nuovo Egitto.

Il movimento di Tahrir ha dimostrato la capacità di adattarsi alla nuova struttura del conflitto nel contesto di un Egitto “democratico”, in cui la partita si gioca più sul piano della conquista del consenso, che su quello della forza bruta. Gli attivisti hanno dato vita a una mobilitazione sorprendente per l’energia, per la tenacia, e per la durata, a dimostrazione che il “mito” (in senso soreliano) della rivoluzione continua a esercitare una forza irresistibile e positivamente destabilizzante. Giorno dopo giorno le fila dei manifestanti si sono ingrossate in una escalation di mobilitazione che ha portato fino alla conquista della piazza del palazzo presidenziale, costringendo Mursi a una fuga imbarazzante.

Quanto sta succedendo al Cairo e in diverse località egiziane in questi giorni non può che entusiasmare chi (come spero molti lettori di UniNomade) vede nella rivoluzione egiziana grandi promesse di emancipazione, ma pure una fonte di ispirazione per i movimenti del mondo occidentale. Tuttavia non bisogna pure nascondersi che in questa partita contro i Fratelli Musulmani e il nuovo governo il movimento rivoluzionario rischia grosso. Nei 22 mesi dalla caduta di Mubarak gli attivisti hanno imparato a caro prezzo, che il sentimento della maggioranza degli egiziani ha una curva molto diversa rispetto al sentimento della piazza, come visto in occasione di diversi appuntamento elettorali, in cui le “indicazioni di voto” (no al referendum costituzionale del 2011, astensione o voto a sinistra alle parlamentari del Novembre 2011) sono state puntualmente sconfessate dagli elettori.

In risposta alla crescita della mobilitazione di piazza, i Fratelli vogliono ancora una volta appellarsi alla cosiddetta “maggioranza silenziosa”, quell’entità fantasmatica ma al tempo stesso reale, che essi evocano in ogni dichiarazione pubblica. Sperano che il referendum del 15 dicembre veda una buona partecipazione al voto e un’ampia maggioranza di SI, capace di infondere nuova legittimità in un mandato presidenziale, che dopo quanto avvenuto negli ultimi giorni, è zoppicante. Se i Fratelli Musulmani riuscissero a raggiungere questo obiettivo per il movimento di Tahrir sarebbe un colpo pesante. E si può prevedere che ne seguirebbe una campagna di repressione (in nome della democrazia e della legalità) e di marginalizzazione, sullo stile di tante campagne di “ritorno all’ordine” già viste in passato. Per evitare che questo succeda il movimento di Tahrir ha una sola opzione: far saltare il referendum lampo del 15 dicembre; costringere Mursi alla ritirata e al mea culpa. E riaprire a forza il processo di scrittura collettiva della costituzione, per farne una costituzione che davvero incarni i valori espressi dalla rivoluzione del 25 gennaio.

I due errori di Mursi

La luna di miele tra il movimento di Tahrir e il nuovo presidente è durata davvero poco; o forse non è mai cominciata. Quando nel ballottaggi delle elezioni presidenziali lo scorso giugno Mursi ha vinto di strettissima misura su Ahmed Shafik, candidato espressione del regime Mubarak e dello stato profondo dell’esercito, in molti tra gli attivisti liberali e di sinistra hanno tirato un sospiro di sollievo, senza darlo troppo a vedere. La vittoria di Shafik sarebbe stato un rinnegamento di tutto quello per cui avevano lottato prima e dopo la caduta di Mubarak. E per quanto tradizionalista, bigotto, autoritario, conservatore, il candidato Mursi quantomeno dichiarava di voler rappresentare la rivoluzione, a cui del resto i militanti dei Fratelli Musulmani avevano partecipato in forze.

Alcune organizzazioni rivoluzionarie, tra cui il movimento 6 Aprile, hanno pubblicamente dichiarato di voler concedere tempo al nuovo presidente per valutare la sua condotta. Nessuna cambiale in bianco, ma un po’ di credito di si. Ma una volta vinte le elezioni presidenziali, e fatti fuori i quadri dell’esercito che avevano guidato la giunta militare, con il colpo di stato civile del 17 agosto, i Fratelli Musulmani sono venuti meno alle promesse fatte ai rivoluzionari, e hanno tradito quel poco di fiducia a loro accordato. Già verso la fine dell’estate sono cominciate le proteste per il rifiuto degli islamisti a rendere l’assemblea costituente più rappresentativa delle diverse anime della società egiziana. I giovani attivisti, veterani della rivoluzione del 25 gennaio (i cosiddetti shabab el-thawra), si sono sentiti esclusi dal processo di redazione di una nuova costituzione. E hanno riconosciuto nell’atteggiamento arrogante dei Fratelli Musulmani similitudini inquietanti con la vecchia dittatura di Mubarak.

Proprio mentre il presidente Mursi festeggiava il successo diplomatico, ottenuto con il raggiungimento della tregua a Gaza, e sancito da una copertina del Time, in cui viene rappresentato come il nuovo arbitro degli equilibri del Medio Oriente, i manifestanti sono scesi in piazza per esprimere la propria insoddisfazione. Le manifestazioni sono cominciate il 19 novembre, l’anniversario della battaglia di via Mohammed Mahmoud, una mini-insurrezione contro la giunta militare in cui morirono oltre 50 manifestanti (il culmine della seconda ondata rivoluzionaria). Le piccole scaramucce tra polizia e manifestanti che si sono registrate in piazza il 19, il 20, e il 21 si sono trasformate in una vera e propria battaglia il 22 novembre, quando Mursi, a sorpresa, ha annunciato una nuova “dichiarazione costituzionale” (una specie di costituzione provvisoria in attesa dell’entrata in funzione della nuova carta costituzionale).

Nella “declaration”, di una ventina di righe in totale, si affermava che le decisioni del presidente non possono essere contestate dalla magistratura. E cosa più inquietante si dichiarava che il “presidente potrà prendere le misure necessarie a difendere l’Egitto e gli obiettivi della rivoluzione”. Facendo l’avvocato del diavolo (ovvero in questo caso dei Fratelli Musulmani), bisogna pur dire che Mursi intendeva in tal modo porre fine all’interferenza continua esercitata dalla corte costituzionale composta da giudici tutti quanti nominati a suo tempo da Mubarak, e legati a doppio filo con il vecchio regime. Ma sta di fatto che il decreto presidenziale e i poteri pressoché illimitati che assegna al presidente è stato percepito come l’ultimo segno di una deriva autoritaria da parte del nuovo presidente. Piazza Tahrir è stata inondata giorno dopo giorno da manifestazioni di decine, e poi centinaia di migliaia di persone, fino a raggiungere il culmine degli ultimi giorni, con le marce dirette al palazzo presidenziale, e un Mursi costretto a darsela a gambe.

A favorire l’escalation del conflitto è stato ancora una volta l’atteggiamento arrogante del presidente egiziano. Invece di cercare una mediazione con un’opposizione che si andava progressivamente allargando, Mursi ha deciso di giocare il tutto per tutto. Il presidente ha chiesto all’assemblea costituente, in cui dopo le dimissioni di protesta dei componenti laici, sono rimasti solo i Fratelli e i Salafiti, di ultimare la stesura della nuova costituzione. Al termine di una seduta fiume, il 29 novembre i padri (o dovremmo piuttosto dire i “Fratelli”?) costituenti egiziani hanno cosi approvato la bozza della nuova legge fondamentale, che in base ai piani del presidente dovrà essere sottoposta al vaglio di un “referendum lampo” previsto per il 15 dicembre.

Per spiegare cosa c’è dentro la bozza di costituzione ci vorrebbe un altro articolo. Per carità niente a che fare con la costituzione iraniana del 1979, nonostante i riferimenti di principio alla sharia, che del resto erano già presenti nella costituzione egiziana precedente. Ma il testo è come hanno affermato diversi giuristi, profondamente deludente, pieno di formulazioni vaghe rispetto ai diritti civili e politici dei cittadini, e lascia aperta la possibilità che questi diritti vengano limitati dalla legislazione ordinaria. Nessuna garanzia riguardo alla questione delle giustizia sociale che pure era una domanda fondamentale della rivoluzione. Per non parlare di un gran numero di strafalcioni e contraddizioni nelle formulazioni giuridiche che riflettono la maniera affrettata con cui la bozza di costituzione è stata approvata. E la mancanza di un vero dibattito partecipato, e aperto ai diversi settori della cittadinanza egiziana.

Da Tahrir al palazzo presidenziale

Le due forzature decise da Mursi – quella di decretare la dichiarazione costituzionale, e quella di far completare in fretta e furia la bozza della nuova costituzione – hanno scatenato una veemente reazione di piazza, con un livello di mobilitazione del movimento che ha toccato i livelli dei gloriosi 18 giorni del gennaio/febbraio 2011, con diverse manifestazioni di oltre 100.000 persone. In piazza in questi giorni si è vista una composizione sociale estremamente variegata. Giovani rivoluzionari veterani del 25 gennaio 2011, nuove leve di ragazzi e ragazzini, cresciuti con il mito di Tahrir, bambini di strada, giovani lavoratori, studenti e attivisti di classe media, tifosi delle squadre di calcio.

In mezzo a questo calderone, a cercare di dare coordinamento strategico, organizzazioni autonome di protesta, e in particolare il movimento 6 Aprile, che sin dal 2008 ha avuto un ruolo chiave nel costruire la resistenza contro il regime di Mubarak. In piazza, si sono fatti vedere anche i nuovi partiti del centro-sinistra in via di cristallizzazione. Il Partito della Costituzione (el-Dostour), presieduto dal premio Nobel per la Pace Mohammed el-Baradei, e il partito Corrente Popolare (el-Tayyar el-Shaab), guidato dal carismatico leader nasserista Hamdin Sabbahi. Parte della grande alleanza anti-Mursi (e la cosa ha creato diversi mal di pancia tra i rivoluzionari) schierata a Tahrir, pure Amr Moussa, leader del partito liberale storico el-Wafd, accusato di essere un “feloul” ovvero un rimasuglio del vecchio regime di Mubarak, per cui aveva servito come ministro degli esteri. Alla protesta si sono poi aggiunti anche I rappresentanti dei giudici, e i giornalisti, preoccupati per le forzature giuridiche e per l’assenza di garanzie forti sulla libertà di espressione.

In queste tre settimane di protesta continua la scena in piazza è stato in qualche modo un deja-vu di quanto visto in questi 22 mesi di tortuosa transizione. I manifestanti hanno occupato la rotonda con tende da campo e si sono auto-organizzati per la difesa della piazza contro gli attacchi delle forze dell’ordine. La polizia anti-sommossa ha caricato a più riprese i manifestanti dalle diverse strade che conducono a piazza Tahrir usando senza risparmio gas lacrimogeno. Gli scontri sono continuati pressoché 24 ore su 24, con brevi pause nel cuore della notte. E l’ondata di protesta non si è limitata solo al Cairo, ma ha visto scontri di piazza in altre località dell’Egitto da Alessandria, Ismaila e Suez dove sedi del partito dei Fratelli Musulmani sono state date alle fiamme, e diverse altre città.

Il bilancio di questa nuova battaglia, che alcuni già chiamano la terza ondata della rivoluzione egiziana, è al momento della scrittura di 3 morti e centinaia di feriti, solo al Cairo, con dati ancora incerti sulle altre località. Si tratta di un tributo di sangue pesante, ma è bene osservarlo, un bilancio tutto sommato modesto, considerando quello che si era visto durante i mesi di potere della giunta militare. Un dato che suggerisce come in questo nuovo scenario “democratico”, un presidente eletto non si possa permettere i massacri commessi senza troppi scrupoli dai propri predecessori, se vuole mantenere il consenso della cittadinanza; consenso senza il quale diventa impossibile governare il paese, come le proteste di questi giorni stanno dimostrando.

La Fratellanza è stata presa di sorpresa dal livello di mobilitazione a Tahrir e in diverse altre città egiziane. Ma non ha impiegato molto a chiamare all’appello il suo popolo. Il 23 novembre migliaia di seguaci hanno ascoltato il discorso di Mursi nella piazza di fronte al palazzo presidenziale. Mursi con toni piuttosto concilianti ha assicurato che la costituzione era per tutti gli egiziani, per le donne e per gli uomini, per i musulmani e per i copti, per gli egiziani e per gli stranieri. Poi il 2 dicembre i Fratelli hanno mobilitato una grande folla da 300.000 persone, di cui molte portate da fuori città con pullman organizzati, all’Università del Cairo una delle loro tradizionali basi organizzative, dove reclutano il fior fiore della giovane borghesia egiziana (medici, ingegneri, avvocati, economisti).

Tuttavia al momento è il movimento rivoluzionario che sta vincendo lo scontro di piazza, come visto con le grandi marce organizzate martedì 4 dicembre che si sono dirette verso il palazzo presidenziale, nel quartiere di Heliopolis. Di fronte a un corteo di 100.000 manifestanti determinati a farsi strada la polizia di sommossa si è vista costretta ad arretrare, lasciando indifeso il palazzo presidenziale costringendo il presidente a fuggire dalla propria residenza ufficiale, uno smacco pesante per il nuovo presidente. Nella nottata si sono viste pure scene di fraternizzazione tra polizia e manifestanti, cose impensabili durante i 18 giorni, a dimostrazione che pure in alcuni settori delle forze dell’ordine regna il malcontento rispetto al nuovo presidente. Ora bisogna vedere quale sarà la prossima mossa degli islamisti, che almeno per il momento, non sembrano intenzionati a trovare un compromesso, ma sono pronti a lanciare una nuova risposta di piazza, con manifestazioni previste mercoledì 5 e venerdì 8 dicembre nel centro del Cairo, e con un alto rischio di scontri violenti tra islamisti e rivoluzionari.

Un’egemonia che traballa

La grande ondata di protesta di questi giorni è dimostrazione di quanto diffuso presso la popolazione egiziana sia il dissenso verso i Fratelli Musulmani e il nuovo presidente Mursi, e di quanto i metodi arroganti adottati dai nuovi potenti d’Egitto stiano generando un rigetto pure tra molti che avevano scelto Mursi come il meno peggio nel ballottaggio delle elezioni presidenziali. Come molti attivisti hanno dichiarato in questi giorni in piazza e su Twitter, “questo non è l’Iran”. Ancora una volta gli eventi confermano che in Egitto uno scenario da islamismo autoritario alla Khomeini non è tra le opzioni sul tavolo. Ma pure un islamismo più moderato sul modello turco, come quello che almeno a parole sta perseguendo il nuovo presidente, è ancora tutt’altro che sicuro, vista l’opposizione che sta incontrando.

Certo, i Fratelli Musulmani hanno vinto (e spesso stravinto) in ogni appuntamento elettorale dalla caduta di Mubarak. Ma questo è in buona parte dovuto al fatto che i Fratelli avevano un grande vantaggio rispetto alla sinistra in termini di struttura organizzativa, e che dal canto suo la sinistra ha fatto tutto per perdere queste elezioni, a causa delle sue divisioni interne, e dell’anti-statalismo neo-anarchista di molti attivisti di piazza. A dispetto dello strapotere politico esercitato dai Fratelli, che al momento controllano la presidenza, la camera alta del parlamento (quella bassa è stata sciolta dalla corte costituzionale) e l’assemblea costituzionale, la loro egemonia e’ tutt’altro che assicurata, e questo perché non sono stati in grado di creare un consenso ampio nella popolazione egiziana, capace di abbracciare pure i settori laici.

Forti del potere appena acquisito il presidente Mursi e i Fratelli Musulmani non hanno tenuto in conto la capacità di reazione della piazza e il progressivo risveglio della sinistra organizzata. Inoltre hanno sottovalutato il livello di dissenso nella società rispetto al loro tradizionalismo, e al loro autoritarismo. Se i Fratelli hanno a loro disposizione un’enorme base di militanti (chi dice mezzo milione, chi due, chi addirittura quattro: è una questione di definizioni) hanno pure una schiera enorme di nemici. Il mondo laico, i resti del vecchio regime, che li hanno combattuti per anni, ma anche tanti cittadini comuni che vedono nell’organizzazione islamista fondata 90 anni fa un ostacolo verso la realizzazione di un Egitto veramente democratico e plurale.

Nella situazione delicata di chiusura della fase di transizione, con il passaggio del potere ad un’autorità eletta, i Fratelli Musulmani e il neo-presidente Mursi hanno peccato di arroganza. Invece di dimostrarsi concilianti e disponibili, si sono arroccati, appellandosi alla legittimità conquistata nelle urne. Così facendo hanno favorito l’aggregazione dei diversi frammenti dell’opposizione in un fronte popolare anti-islamista, che adesso spazia dai trotzkisti fino ai liberali, e ai rimasugli del vecchio sistema, e che assieme ha numeri per sconfiggere i Fratelli nello scontro di piazza. Ed è proprio per questo motivo che adesso i Fratelli Musulmani si appellano alle urne elettorali, per opporre alla legittimità della piazza (come espresso nello slogan rivoluzionario “la legittimità viene da Tahrir”), la legittimità del voto popolare.

Forti dei risultati di sondaggi demoscopici e di un ascolto continuo della “base” i Fratelli sono convinti che una larga maggioranza dei votanti (che non significa affatto la maggioranza degli egiziani, data la bassa affluenza che caratterizza le elezioni in Egitto) approverà la nuova costituzione, mettendo così a tacere il popolo di Tahrir. Purtroppo ci sono buoni motivi per credere che gli strateghi dei Fratelli Musulmani abbiano ragione. Come i rivoluzionari di Tahrir hanno imparato loro malgrado durante i 17 mesi di dominio dello SCAF (la giunta militare), la maggioranza silenziosa (ovvero quelli che in piazza non vanno ma a votare sì) degli egiziani è insofferente rispetto agli scontri di piazza e dopo 22 mesi piuttosto movimentati, per usare un eufemismo, brama soprattutto stabilità e ripresa economica. Per questi egiziani, i Fratelli Musulmani a dispetto della loro arroganza e del loro bigottismo, offrono una qualche garanzia di sicurezza, che la sinistra non e’ in grado di offrire. A questo bisogna aggiungere che i Fratelli Musulmani hanno dimostrato di possedere una macchina organizzativa capace, più di qualsiasi altra struttura in Egitto, di portare le persone alle urne, anche facendo ricorso a metodi diciamo così discutibili (clientelismo, voto di scambio, carità in cambio di voti).

Gli attivisti di Tahrir e i militanti dei neonati partiti di sinistra sanno che se questa nuova ondata rivoluzionaria verrà decisa nelle urne del referendum del 15 dicembre, non hanno alcuna speranza di vincere. E sanno che gli inviti lanciati dai Fratelli Musulmani all’opposizione a fare campagna per il NO, invece che protestare in piazza, sono inviti interessati. Se il presidente Mursi riuscisse a superare indenne questi giorni incerti, a far svolgere normalmente le operazioni di voto, e a far vincere il SI con un ampio margine e una discreta affluenza, si tratterebbe di una sconfitta pesantissima per il movimento rivoluzionario, e forse del momento decisivo nella stabilizzazione una nuova egemonia islamista in Egitto, a scapito dei movimenti e delle forze di sinistra. Ma non è detto che debba andare a finire così. C’e’ solo da sperare che i manifestanti riescano a far saltare il referendum del 15 dicembre e a riaprire il processo di stesura della nuova costituzione, per farne una costituzione di cui gli egiziani possano andare orgogliosi negli anni a venire.

 

 

 

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