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Una classe in divenire: i precari cognitivi

 

di MARCO BASCETTA

Se dobbiamo ragionare  su un tema classico come la  composizione di classe nel contesto attuale, e cioè nell’orizzonte, che da tempo abbiamo assunto, del capitalismo cognitivo, non possiamo eludere una seria difficoltà. E cioè il fatto che se la centralità dei saperi e delle competenze cognitive informano e mobilitano l’insieme del sistema di produzione ed estrazione del valore,  non è tuttavia percepita e riconosciuta da grande parte della forza lavoro.

E questo non riguarda solo il lavoro manuale in senso stretto. In condizioni di subordinazione anche il lavoro cognitivo può assumere i tratti di una attività meccanica e perdere la percezione della propria autonoma potenzialità. E’ una ovvietà non priva di conseguenze pratiche. Questa centralità resta infatti opaca e distante per buona parte della forza lavoro e oggetto di diffidenza per le sue rappresentanze.

Questa diffidenza e questa opacità determinano, per esempio, la discreta presa della propaganda governativa che considera l’istruzione superiore un puro costo che gli studenti dovrebbero pagarsi da sé poiché non riguarda l’interesse di tutti, ma un investimento individuale su specifiche carriere.

Questo per quanto riguarda il rapporto del lavoro cognitivo con quanto gli è esterno o si percepisce, a torto o a ragione, come tale.

Ma vi è anche un problema che riguarda l’interno del lavoro cognitivo, quello che si percepisce invece pienamente come tale. L’esperienza di questi anni ci ha mostrato che i saperi e i talenti relazionali del lavoro cognitivo possono essere convogliati verso forme di competizione, sciacallaggio e riflessi corporativi. Poiché il capitalismo cognitivo non prevede ovviamente alcuna forma di piena occupazione e la forza lavoro cognitiva, qualunque sia la sua partecipazione sostanziale ma informale alla produzione di valore subisce pesanti processi di esclusione  sul piano del reddito e del potere decisionale.

Il problema non è nuovo, ha attraversato almeno un trentennio. Diversi anni fa Primo Moroni, intervenendo a un seminario su post-fordismo e nuova destra sociale, la metteva così:

Occorre dire che la consapevolezza di essere in possesso di un capitale umano immateriale (abilità, destrezza, flessibilità, capacità decisionale) separato dall’universo di quella che noi chiamiamo “coscienza di classe” determina una figura sociale che di per sé tende ad annullare le differenze con l’imprenditore, attraverso un processo di autofalsificazione della storica alienazione operaia”.

 

Moroni se la prendeva giustamente con le dilaganti mitologie padane sul radioso futuro degli “imprenditori di sé stessi”. Tuttora ben radicate nel lavoro autonomo di ogni generazione ancora prigioniero dell’ideologia della competitività. A questa mentalità  Sergio Bologna cerca di contrapporre una idea di “coalizione”, termine che punta sull’agire collettivo, ma fatica a emanciparsi dall’idea di una sommatoria contingente di figure professionali affezionate alle proprie proiezioni identitarie.

Mettiamoci pure che la crisi sta facendo giustizia di tutto questo, che le forme dell’alienazione cambiano nel tempo, che tira un’ aria del tutto diversa dall’ubriacatura ultraliberista degli anni passati e gli imprenditori di sé stessi sono alla bancarotta. Eppure quella parolina insidiosa e pregna di idealismo, coscienza, (alla quale non a caso abbiamo sempre preferito il termine soggettività, privo di richiami al dover essere morale) qualche problema ce lo pone, come cercheremo di vedere più avanti.

Ma cosa è che attraversa il lavoro cognitivo al suo interno e in tutte le sue stratificazioni e anche la forza lavoro che se ne considera lontana per il tipo di organizzazione cui è sottoposta?

E’ la condizione precaria. Una condizione dunque negativa. Anche se, non a torto, all’intermittenza del lavoro riconoscemmo anche il senso di sottrazione alla gabbia degli ergastoli salariati e alla società disciplinare. Ma sulla questione della negatività e sul fatto che essa, a patto di riconoscerla, può essere rovesciata in potenza torneremo in seguito.

Tuttavia non è difficile riconoscere che, negli attuali rapporti di forza , il precariato è una condizione di eteronomia. O meglio la potenza ricattatoria che trasforma l’autonomia delle menti richiesta dalla produzione di valore in subordinazione, l’autorganizzazione in razionalizzazione della propria vita a favore dello sfruttamento.

Come sappiamo Marx spiegava che nel capitalismo, e nella sua scienza apologetica, i rapporti sociali si davano come rapporti tra cose, come forme naturali della vita sociale. Lo scambio iniquo tra capitale e lavoro forniva l’esempio più vivido di questa falsa naturalità, di rapporto sociale tra persone mediato da cose. E della “falsa coscienza” che ne consegue.

Il lavoro precario, il rapporto tra lavoro precario e capitale è ovviamente un rapporto sociale,(in parte diverso da quello che prendeva la forma del lavoro salariato)  ma può ancora proporsi al mondo come rapporto tra cose? Come forma naturale? O non si rivela piuttosto un brutale rapporto tra poteri e subordinazioni personali? Laddove riemergono rapporti e realtà di genere precapitalistico e servile? Possiamo ancora parlare in senso proprio di un mercato del lavoro che segue automatismi pseudoggettivi? E’, insomma, lo stesso rapporto sociale dei tempi della rivoluzione industriale?

Certamente il precariato viene presentato come conseguenza “oggettiva” della competizione globale, come forma adeguata alla flessibilità del mercato e alla torbida psicologia della finanziarizzazione, ma resta fortemente un rapporto sociale che si da come rapporto sociale molto fragilmente mascherato. Un rapporto sociale che, fra l’altro, non sembra dar luogo a profili sociali definiti.

Al di là della sua eterogenea composizione sociologica possiamo dire che la condizione precaria viene vissuta in tre modi differenti:

Come prospettiva, come condizione, come minaccia.

Ovvero, come assenza di futuro, come insopportabilità del presente, come incombente decadenza e regressione. Nel primo modo la vivono i giovani in attesa di entrare nel mercato del lavoro, nel secondo i lavoratori precari in attività, nel terzo i lavoratori dipendenti minacciati di espulsione dalla stabilità del rapporto salariale.

Queste tre percezioni possono essere giocate le une contro le altre.

I primi possono cadere in speranze sviluppiste, o annegare nelle promesse della competitività.

I secondi puntare su una stabilizzazione selettiva o abbandonarsi a fantasie neocorporative.

I terzi posizionarsi su un arroccamento in difesa delle garanzie acquisite.

Tutto questo è già accaduto con la complice cecità di gran parte del mondo sindacale.

Va da se che queste strade conducono alla sconfitta e alla perdita di qualsiasi autonomia.

Guy Standing nel suo libro  Una politica per il paradiso esamina il precariato come una “classe in divenire”, tentando di definirne i tratti per negazione e cioè per gli elementi di sicurezza economica e sociale che  (in diversa misura) gli difettano. E per affermazione, ossia per i tratti che vi sono generalmente presenti : acredine-rabbia, anomia, ansietà, alienazione.

Condizioni oggettive che determinano frustrazioni soggettive e divisioni. La proposta, condivisibile, di Standing è quella di una politica di ricomposizione sulla base di obiettivi universalistici e cioè slegati dalla posizione lavorativa (fra l’altro mutevole) che i singoli occupano nell’universo eterogeneo del precariato: mobilità, diritti di accesso (servizi conoscenza salute), difesa dei beni comuni, reddito di cittadinanza.

La vicenda referendaria sembra indicare effettivamente un terreno di ricomposizione di questa natura e una incrinatura dell’individualismo proprietario anche nelle sue roccaforti nordiche. E anche gli accampati ellenici e iberici, nonché le rivolte arabe sembrano veicolare una sorta di universalismo dal basso, la rivendicazione di diritti e prerogative che riguardano indistintamente tutti. Che non discendono dai sacri principi dell’universalismo occidentale, ma dak reciproco riconoscimento di condizioni vissute.

Ma questo stesso processo di confluenza verso obiettivi universalistici stenta molto di più a svilupparsi nella cooperazione produttiva in quanto relazione conflittuale tra l’essere risorsa del capitale e aspirazione all’autonomia del lavoro cognitivo.

I due piani, condizioni produttive e pratica della democrazia, non sono identici ma nemmeno del tutto separati per la connessione stretta tra condizioni di vita e condizioni produttive.

Questa connessione, oltre alla natura altamente soggettivizzata del lavoro cognitivo e all’ars combinatoria cui il precariato tutti costringe per sopravvivere, fanno si, che la vecchia partizione tra composizione tecnica e composizione politica non regga più. Nel senso che la “politica” ( in senso lato) è diventata uno dei principali fattori tecnici della produzione e viceversa.

Tra le conseguenze immediate di questa trasformazione c’è la crisi della separazione gerarchica tra lotta sindacale e lotta politica, tra lotte, rivendicazione e progetto. E la crisi della pretesa delle forze politiche a rappresentare quest’ultimo, ad essere “coscienza” progettuale separata dalla sequenza delle lotte.

E’ ben vero che fin dalle sue origini la lettura operaista della lotta salariale (come rifiuto implicito del rapporto di capitale) minava questa ripartizione, ma si restava nondimeno dentro i confini dello scontro tra capitale e lavoro incardinato nella fabbrica fordista.

La questione del rapporto contraddittorio tra interesse immediato e scopo finale è un punto decisivo della questione della coscienza di classe così come la ha posta il materialismo dialettico. Come scriveva Lukacs, le situazioni concrete e le esigenze concrete della lotta sono calate nel presente della società capitalistica e dunque prigioniere del suo orizzonte. Solo se queste esigenze vengono inserite nella visione totale del processo, messe in relazione con lo scopo finale, rimandano concretamente e coscientemente aldilà del capitalismo. Solo un riferimento all’intero sociale e al processo storico trasforma l’astrattezza della coscienza empirica nella concretezza della coscienza di classe.

Abbiamo anche oggi un problema di rapporto tra percezione empirica e prospettiva storica? Tra interesse immediato e scopo finale? E se sì in quali termini?

Il lavoro cognitivo ha come interesse immediato la sua autonomia, ma questa autonomia si spinge oltre l’aspirazione ad essere una “variabile indipendente” per coincidere con la soppressione del rapporto di capitale e delle forme giuridiche proprietarie che lo salvaguardano. L’ autonomia del lavoro cognitivo non può infatti che prendere forma come produzione del comune. E la produzione del comune è tutt’altra cosa dalla progettazione ideologica di una società ideale. Men che meno la riguarda la triste ingegneria della “transizione”  che ha avvelenato la storia del movimento operaio. E’tuttavia l’equivalente di uno scopo finale. Un rapporto sociale di natura nuova, una forma politica di “democrazia reale (Quella che invocano gli indignados). Qualcosa che riguarda la società nella sua interezza. Il riferimento alla totalità sociale è immediatamente dato.

Quanto al precariato in generale: prendiamo l’esempio di un obiettivo come il reddito di cittadinanza. E’ senz’altro un interesse immediato, quello di garantirsi la vita quotidiana nella condizione precaria. Ma è anche uno scopo finale, nel senso che separa il reddito dal lavoro e mina così la più sacra tra le leggi del capitalismo, quella dello scambio di equivalenti. Dunque non ci arrovelleremo ulteriormente sul rapporto tra interesse immediato e scopo finale. Tutto risolto? Niente affatto.

La produzione del comune, le cui condizioni oggettive sono date nel lavoro cognitivo (il quale resta tuttavia esposto alle derive che abbiamo descritto) richiede un processo soggettivo di riconoscimento.

Questo riconoscimento non è altro che la ricomposizione, per dirla con Standing, della “classe in divenire”. Ricomposizione e coscienza, nei termini del riconoscimento, sono la medesima cosa. E’cancellata ogni dialettica tra pratica e ideologia.

Tuttavia, nel lavoro cognitivo e precario, non è affatto assente la falsa coscienza o l’astrattezza della percezione individuale. Altrimenti la favola dell’imprenditore di sé stesso e la mitologia meritocratica  non avrebbero  avuto tanto successo e vent’anni fa non ci saremmo dedicati a studiare il cinismo, l’opportunismo e la paura, come tonalità emotive dominanti dell’epoca. La produzione del comune e il riconoscimento che ne consente il governo collettivo incontrano diversi ostacoli.

Il rapporto sociale del precariato, messi da parte gli automatismi pseudo oggettivi del mercato del lavoro fordista, richiama in vita diversi aspetti propri dei rapporti precapitalistici e molte incoerenze delle formazioni sociali corrispondenti. Coercizione extraeconomica, dispositivi giuridici che regolano rapporti economici, dipendenze personali, rendita, carattere parassitario del potere, composizione eterogenea dei ceti subalterni, lavoro servile, ecc.

Marx riteneva che nel mondo antico la lotta di classe fosse essenzialmente uno scontro tra debitori e creditori. Ed ecco che ci troviamo i precari che danno l’assalto alla Gerit e un movimento, come quello spagnolo degli ipotecados, di mutuo soccorso tra le vittime del sistema creditizio. E’ sotto gli occhi di tutti quanto la questione del debito stia al centro dei conflitti nazionali e internazionali. La finanziarizzazione rianima tratti arcaici.

Questi fenomeni sono attraversati da profonde linee di divisione, ma producono anche ricongiunzioni, trasversalità e movimenti collettivi. Un quadro incoerente, insomma.

Non v’è dubbio, insomma, che il precariato porti con sé anche servitù volontaria e risentimento.

Per superarli non possiamo però  affidarci a una istanza morale, a un qualche richiamo all’altruismo o all’empatia. Ma piuttosto all’interesse della “classe in divenire”. Quello di sconfiggere il potere di ricatto e la corruzione che governano l’insieme sociale. La produzione del comune e le sue forme di autorganizzazione non possono scaturire da una identità sociale precisa, da una sorta di essenza e di destino storico, ma dal riconoscimento di ciò che avvicina e attraversa le situazioni vissute. E’ questo riconoscimento che rovescia la negatività del precariato in potenza democratica.

Rompendo ogni determinismo sociologico il soggetto politico non si pone in maniera sostanzialista, ma attraverso un gioco di identificazioni incrociate in cui gli uni e gli altri si riconoscono in ciò che le loro situazioni hanno negativamente in comune (lo sfruttamento e la subordinazione) e nella possibilità di rovesciare questa negatività con la lotta. Il movimento degli indignados e la pratica della democrazia diretta fino alla paranoica ricerca dell’unanimismo costi quel che costi, è un esempio di queste identificazioni incrociate a partire da una condizione di massima eterogeneità. E di comune patimento della crisi.

Questa eterogeneità non accetta però di venire rimossa, poiché il riconoscimento reciproco non sfocia nella omogeneità della classe operaia internazionalista e rivoluzionaria con le sue precise caratteristiche sociali e storiche.

La classe in divenire è destinata a rimanere tale, un processo vivo che non è destinato a fissarsi in alcun definito profilo sociale. La classe è l’insieme delle forze sociali che nel loro divenire producono la ricchezza e in questo si riconoscono

Un processo di tale natura esclude la possibilità di concepire una politica delle alleanze, nel senso della mediazione e del compromesso tra ceti, profili sociali definiti, frontismi e “blocchi storici”, o, peggio ancora, accordi tattici tra rappresentanze.

Nella lotta stessa sta il modello di produzione del comune, nella produzione del comune il principio di autorganizzazione delle lotte.

 

 

 

 

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